“Sono la ragazza più fortunata che ci sia. Otterrò tutto ciò che voglio. Tutto andrà per il meglio”. Non si tratta di una serie di citazioni tratte dall’ultimo libro di un sedicente life-coach, ma di un nuovo trend diffuso su TikTok dall’influencer newyorkese Laura Galebe, denominato “Sindrome della ragazza fortunata” (Lucky Girl Syndrome). Presentata alla propria community con un video caricato sul proprio profilo a dicembre 2022 – periodo in cui, tradizionalmente, il bilancio dell’anno passato lascia progressivamente il posto alle speranze, i buoni propositi e le illusioni rivolte a quello in procinto di iniziare –, la Lucky Girl Syndrome rientra fra le cosiddette “tecniche di manifestazione”, un insieme di pratiche “spirituali” per cui rendere espliciti i propri desideri, affidandosi a essi con fiducia e ottimismo, consentirebbe agli individui di modificare la realtà a proprio favore, rendendo la realizzazione delle proprie aspettative quasi automatica.
Nello specifico, secondo la Lucky Girl Syndrome, ripetere assiduamente a sé stesse di essere persone estremamente fortunate si tradurrebbe – a patto di crederci veramente – in una pioggia di opportunità e colpi di fortuna, con la conseguente possibilità di orientare la propria vita verso la migliore delle direzioni possibili e senza compiere alcuno sforzo. A pochi giorni dalla pubblicazione del video di Galebe, la presunta efficacia di questa strategia – applicabile a desideri di qualsiasi tipo, dall’ottenimento del lavoro dei propri sogni alla vincita di una scommessa sportiva – sarebbe stata poi confermata da numerose utenti (per la maggior parte bianche e appartenenti alla borghesia), tutte accomunate dall’hashtag #LuckyGirlSyndrome sotto ai propri video e da un apparente profonda fiducia nell’imminente realizzazione di quanto sperato.
Il principio per cui “essere ottimisti” possa bastare, da solo, ad attirare su dì sé una quantità di energie positive sufficiente per trasformare i propri desideri da speranza a traguardo non ha, in realtà, nulla di innovativo. A livello divulgativo, la pietra miliare di questa filosofia è il libro del 2006 The Secret, della scrittrice australiana Rhonda Byrne, una sorta di manuale di auto-aiuto fondato su una serie di teorie, testimonianze e citazioni più o meno recenti attribuite ad alcuni esponenti di spicco del cosiddetto “New Thought”. Nato negli USA a metà del Diciannovesimo secolo come un insieme di movimenti filosofico-spirituali, il New Thought promuove l’idea che il pensiero umano sia in grado, da solo, di plasmare la realtà: secondo i pionieri del movimento – come il filosofo James Allen, lo scrittore Neville Goddard e il pastore metodista Norman Vincent Peale – tutto, dai successi personali alle malattie organiche, ha quindi origine nella mente, a sua volta ritenuta un’emanazione del “principio unico dell’essere”. Per realizzare i propri obiettivi e raggiungere così la felicità, non rimarrebbe che approcciarsi alla vita con positività, ignorando (o reprimendo) qualsiasi pensiero o convinzione che potrebbe interferire con questo atteggiamento.
Da qui la celebre “legge dell’attrazione”, basata sulla convinzione che i pensieri, nel momento in cui vengono formulati, siano intrinsecamente dotati di un’energia in grado di riflettersi in risultati più o meno favorevoli, a seconda del livello di positività che li contraddistingue. A confermare la validità di questa teoria sarebbero stati, secondo Byrne, alcuni “esperimenti scientifici d’avanguardia”, in grado di intercettare le frequenze emesse dai pensieri e di riconoscere, quindi, il loro potere di attrarre a sé “pensieri simili, oggetti simili e persino persone simili”. Sarebbe proprio questo, continua la scrittrice, il segreto di una vita felice: la capacità di rivolgere a proprio favore il “potere magnetico” dei propri pensieri allo scopo di tradurre in realtà ogni nostro desiderio, dall’incontro con la propria anima gemella alla scomparsa di una patologia. Un’idea senza dubbio affascinante, se non fosse per il fatto che nulla di tutto ciò – come potete immaginare – presenta alcuna verità scientifica.
Sostenere l’esistenza di una certa correlazione fra le aspettative individuali e la probabilità che lo scenario immaginato si realizzi – la cosiddetta “profezia che si auto-avvera” – non avrebbe, di per sé, nulla di sbagliato, sia per quanto riguarda l’eventuale aumento (o, viceversa, alla diminuzione) delle probabilità di successo in una prestazione individuale, sia in riferimento agli effetti che determinati stereotipi o convinzioni possono produrre sul comportamento degli altri. Tali relazioni, tuttavia, non hanno nulla a che fare con l’istituzione di una magica sintonia fra gli esseri umani e l’Universo, né con le vibrazioni emesse dalla mente, bensì con la messa in atto – spesso inconsapevole – di atteggiamenti coerenti con le proprie convinzioni, a loro volta in grado di modificare la realtà agendo sulla stessa – e, non, quindi, limitandosi ad attendere e incrociare le dita.
Il “segreto” venduto da Byrne costituisce, di fatto, un tentativo di sfruttare a proprio vantaggio il cosiddetto bias di conferma, vale a dire la tendenza di focalizzare la propria attenzione sulle informazioni che convalidano le proprie idee e convinzioni personali, indipendentemente dalla loro veridicità. In quanto esseri umani, infatti, possediamo una capacità di attenzione limitata (ulteriormente ridotta negli ultimi decenni, a fronte dell’enorme aumento della quantità di dati e informazioni a nostra disposizione): concentrarla unicamente sugli aspetti della nostra vita coerenti con le nostre aspettative – ignorando le informazioni che, al contrario, le smentirebbero – consente, quindi, di ridurre al minimo lo sforzo necessario per interpretare gli eventi complessi, eliminando a monte ogni forma di dissonanza fra le nostre ipotesi e la realtà. Più che “creare” la realtà, il (presunto) potere del pensiero positivo porterebbe quindi gli individui a selezionarne gli aspetti preferiti, convincendosi così dell’onnipotenza della propria mente e chiudendosi a poco a poco in un vortice di illusioni e autoreferenzialità, ancora più stretto di quello in cui come esseri umani siamo portati a vivere.
Appaiono evidenti le affinità che legano la legge dell’attrazione alle logiche di base del capitalismo neoliberista, a partire da una concezione individualista dell’esistenza umana, l’illusione di vivere in una società meritocratica e la conseguente stigmatizzazione della povertà, concepita come la conseguenza inevitabile di un impegno insufficiente – un pretesto eccezionale per giustificare il divario economico che separa le fasce più abbienti da quelle più svantaggiate della popolazione. L’esistenza di un rapporto di causa-effetto fra la messa in pratica di alcune tecniche di visualizzazione e il benessere economico delle persone è stata fortemente sostenuta, in particolare, dal leader del Nuovo Pensiero Napoleon Hill, autore del bestseller del 1937 Think and Grow Rich (Pensa e arrichisciti). A quasi un secolo di distanza, oggi, la critica è concorde nel considerare Hill il fondatore di un vero e proprio genere letterario, destinatario, che negli ultimi anni ha raggiunto un’enorme popolarità, generalmente costituito da libri motivazionali e da manuali di auto-aiuto ispirati a una concezione iper-edulcorata del sogno americano, al mito del “se vuoi, puoi” e alla cosiddetta filosofia del successo.
A ciò si aggiungono, poi, gli effetti controproducenti prodotti dall’eccessiva fiducia nella legge dell’attrazione sul benessere psicologico individuale. Ricondurre il raggiungimento di qualsiasi traguardo alla forza di volontà dei singoli, infatti, favorisce l’auto-colpevolizzazione di chiunque fatichi, per qualsiasi ragione, a raggiungere i propri obiettivi – personali, scolastici, lavorativi o relazionali –, portando in quei casi a un inevitabile crollo della propria autostima e del proprio senso di auto-efficacia. Nel frattempo, ridurre il superamento di una difficoltà alla mera visualizzazione di uno scenario più favorevole inibisce l’azione – impedendo così alle persone di elaborare soluzioni creative ai problemi della vita – e, soprattutto, contribuisce a isolare l’individuo dal resto della comunità, escludendo a priori la possibilità di collaborare con gli altri, riconoscere i difetti del sistema e, non ultimo, chiedere aiuto.
Non è necessario scomodare la psicanalisi per notare come l’invalidare sistematicamente qualsiasi pensiero o emozione negativa, ignorandola, reprimendola o rifiutandosi di riconoscerla, è la strategia meno efficace che un essere umano possa adottare per raggiungere una qualche forma di benessere psicologico. Ciò non significa che sia meglio affidarsi al meccanismo contrario – quello, cioè, di concentrarsi sistematicamente sul bicchiere mezzo vuoto, concedendo tempo e spazio illimitato alla possibilità di rimuginare sugli aspetti della nostra vita che non ci soddisfano. Prendere atto della complessità della nostra esperienza, comprese le componenti meno valorizzate dalla nostra cultura – come la rabbia, la noia o la tristezza – è necessario per evitare di cadere in un vortice di positività forzata, nonché nel relativo senso di colpa nel momento in cui il nostro stato d’animo non si allinea con quello atteso.
Alla “Sindrome della ragazza fortunata” spetta il merito di aver colto, senza volerlo, una delle più grandi contraddizioni del nostro tempo. Il ricorso sistematico ai presunti poteri della manifestazione, infatti, denota un profondo senso di insoddisfazione, legato sia alla precarietà economica, lavorativa e esistenziale che permea la società, sia al desiderio socialmente indotto di aspirare sempre a qualcosa di più (spesso senza nemmeno un obiettivo preciso, vista la quantità di possibili scelte che il capitalismo ci mette a disposizione), escludendo così a priori la possibilità di trarre una qualche forma di gratificazione dalle risorse di cui già disponiamo. Allo stesso tempo, la logica della manifestazione riproduce gli stessi meccanismi strettamente neoliberisti all’origine del nostro malessere. Riconducendo la possibilità di raggiungere la felicità unicamente alla nostra capacità di allontanarci dalla realtà per rifugiarci nel nostro immaginario, infatti, essa opera di fatto sullo stesso individualismo iperbolico che rende il presente così difficile da apprezzare. La “Sindrome della ragazza fortunata” rifugge e replica al tempo stesso tutto ciò che vuole lasciarsi alle spalle: più che proiettarci verso un futuro più gratificante non fa che ossessionarci su ciò che ci manca nel presente. Purtroppo non basta il pensiero per cambiare le cose: ci abbiamo già provato tutti.