Provare ansia a tornare nel mondo esterno è normale. Si chiama “sindrome della caverna” e passerà. - THE VISION
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Aspettavamo questo momento con ansia. Mesi trascorsi in balìa di un’incertezza costante, la paura del contagio, la necessità di riorganizzare continuamente la propria quotidianità lavorativa, scolastica e familiare. La preoccupazione per la salute propria e degli altri, le immagini drammatiche dei telegiornali e la consapevolezza di non poter fare nulla – o meglio, di dover fare proprio quello. Le misure di emergenza hanno perso il carattere di temporaneità che avrebbe dovuto caratterizzarle e sono entrate a far parte di una routine sempre più soffocante per alcuni, quasi confortante per altri. Poi l’arrivo dei vaccini, la sospensione di alcuni, il terrorismo mediatico e il paradossale contraddittorio fra scienza e politica, iniziato con i primi casi di contagio e mai concluso. Lunedì 17 maggio il Consiglio dei Ministri ha reso pubbliche le disposizioni che, nel giro di alcune settimane, dovrebbero accompagnare la popolazione verso l’ultima e definitiva riapertura. Ma a guardarsi intorno, si percepisce meno entusiasmo del previsto. 

Gli esperti l’hanno chiamata “sindrome della caverna” (cave syndrome). Non importa se hai già ricevuto il vaccino, hai già contratto l’infezione da Covid o indossi tre mascherine; il solo fatto di interrompere l’isolamento e ricominciare a vivere anche all’esterno sarà comunque fonte di ansia. Stando all’ultimo report dell’American Psychological Association, quasi la metà degli statunitensi (49%) ha ammesso di sentirsi a disagio all’idea di immergersi nuovamente in un mondo fatto di incontri, spostamenti e interazioni verbali con altre persone, con una percentuale simile fra gli intervistati che si erano già sottoposti al vaccino e quelli ancora in attesa. 

Secondo lo psichiatra statunitense Arthur Bregman, primo a darle un nome, la sindrome della caverna ricorda per certi aspetti la più conosciuta agorafobia (la paura di doversi confrontare con situazioni potenzialmente pericolose, da cui è impossibile allontanarsi o chiedere aiuto). L’agorafobia interessa generalmente gli spazi aperti, dove la vicinanza di persone con cui non si è in confidenza, l’ambiente in continuo mutamento e la necessità di interpretare un ruolo compatibile con il contesto in cui ci si trova amplificano l’ansia legata al timore di non essere in grado di gestire un eventuale pericolo. Un fenomeno simile riguarda la paura del contagio: dopo mesi spesi a contrastare un “nemico invisibile” in un clima mediatico simil-bellico, l’idea di esporsi volontariamente alla minaccia del virus e, quindi, alla possibilità di ripiombare nell’incubo dell’isolamento, rappresenta nella nostra percezione un rischio notevole, tanto che nemmeno la consapevolezza di essere protetti dal vaccino è sufficiente a placare questi pensieri. 

La sindrome della caverna potrebbe presentarsi anche quando la minaccia del contagio appare più facilmente gestibile. Negli ultimi mesi le conseguenze psicologiche dell’isolamento sono andate via via intensificandosi, compromettendo sensibilmente il benessere emotivo e le capacità cognitive della popolazione. Dall’altra parte, però, stare a casa ha consentito a molti di riscoprire, o scoprire per la prima volta, benefici che prima della pandemia non si sarebbero mai immaginati potessero esistere – come partecipare a una lezione da remoto con i pantaloni del pigiama, o dedicare più tempo alla propria beauty-routine –, non avevano avuto l’occasione di sperimentare perché la propria quotidianità era organizzata diversamente – come nel caso dello smartworking –, o di cui non potevano godere a causa della mancanza di tempo. Il timore di dover improvvisamente abbandonare questi privilegi viene investito, in questi casi, di un potere dissuasivo che frena la risocializzazione tanto quanto la paura di contrarre il virus.

In entrambi i casi, la tecnologia è stata fondamentale nel ricreare, o simulare, la socialità perduta anche all’interno delle proprie mura domestiche. Essere fisicamente soli ma virtualmente connessi con il resto del mondo ha consentito di mantenere attive molte relazioni, aggirando allo stesso tempo l’ansia di dover apparire brillanti ed efficienti in ogni contesto. L’auto-confinamento volontario che sembra interessare molti individui, proprio ora che non è più obbligatorio, ricorda il fenomeno dell’hikikomori (da hiku, spingere, e komoru, fuggire), una forma di ritiro sociale prolungato individuata per la prima volta in Giappone, ma ormai diffusa anche nel resto del mondo. Gli hikikomori evitano qualunque interazione fisica non necessaria (rifugiandosi in quelle via internet) trascorrendo le proprie giornate in un mondo virtuale che non li obbliga a soddisfare le aspettative che la società impone loro. Con il passare del tempo, l’isolamento estremo favorisce l’insorgenza di ansia, depressione, disturbi del sonno e, nei casi più estremi, di pensieri suicidi. Secondo una ricerca, la quarantena potrebbe aver esasperato i sintomi di chi già soffriva di hikikomori e anche la sindrome della caverna presenta alcuni aspetti in comune con questa condizione, a partire dalla preferenza per l’interazione virtuale.

Fortunatamente, la sindrome della caverna è molto meno totalizzante del fenomeno giapponese e, soprattutto, più facilmente reversibile. Secondo Marney White, psicologa e professoressa di psicologia della salute presso la Yale School of Public Health, è essenziale che la risocializzazione avvenga gradualmente, soprattutto quando è la paura del contagio a frenarla. “Si può uscire di casa per una passeggiata, poi vedersi all’aperto con poche persone vaccinate, incontrarsi in casa tenendo la mascherina e così via”, afferma White. “Solo una volta abituati a una certa situazione, sarà possibile compiere il passo successivo”. Se si è spaventati dall’idea di contrarre il Covid, l’idea di immergersi nella folla o farsi largo nei centri commerciali il fine settimana non aiuta, soprattutto perché si tratta di attività non necessarie e tranquillamente evitabili. Essere comprensivi con se stessi, scegliendo attività brevi e gratificanti, renderà quindi il recupero della socialità meno traumatico.

Come scrive l’NBC è inoltre altrettanto importante dedicare a questo processo tutto il tempo necessario, senza lasciarsi condizionare da amici o familiari per i quali lo stesso obiettivo potrebbe apparire più facilmente raggiungibile. L’urgenza, d’altra parte, rappresenta una costante nel mondo occidentale, ma per ridimensionare la pressione che ne deriva non è sufficiente soffocare l’impatto dei commenti non richiesti. Cresciamo imparando che è importante completare ogni attività nel minor tempo possibile, per poter poi passare alla successiva. “Prima il dovere, poi il piacere”, dicono, ma il tempo dedicato al piacere, quando non manca, rimane comunque subordinato alle attività produttive o ne assimila la pressione performativa. Alla base dell’hikikomori si ritrova, in fondo, proprio la ricerca di un tempo che sembra perennemente assente e che si traduce, nei casi patologici, in un rifiuto nei confronti di tutti gli impegni che imporrebbero all’individuo una rigida e soffocante scansione della propria routine. Ma non è necessario rinchiudersi nella caverna per sfuggire all’ansia della fretta e, ora che l’isolamento ha dimostrato che prendersi cura di sé è possibile, abbiamo l’opportunità di scendere finalmente a patti con il nostro tempo, rivalutando la nostra quotidianità in un’ottica meno frettolosa e più gratificante.

A ciò si aggiunge, infine, la reticenza che gli esseri umani sperimentano quando sono costretti a modificare le proprie abitudini. Alan Teo, professore di psichiatria presso l’Università dell’Oregon, intervistato da Scientific American ricorda che “Abbiamo dovuto imparare a indossare mascherine, rispettare il distanziamento fisico, non invitare le persone in casa […] È molto difficile rompere un’abitudine una volta che la si forma”. Modificare il proprio comportamento significa abbandonare una condizione che garantisce stabilità, per sostituirla con meccanismi che non conosciamo o i cui reali effetti sono stati dimenticati. È naturale che l’incertezza spaventi e ciò è ancor più vero dopo un anno di pandemia, in cui la mancanza di certezze ha dimostrato di poter essere molto pericolosa sia per chi si è ammalato e non sapeva se sarebbe sopravvissuto, sia per chi è rimasto a casa soffocato da notizie contraddittorie. Di nuovo, la gradualità è indispensabile per recuperare abitudini che la scienza ha dimostrato essere sicure, a partire da una passeggiata all’aperto.  

Se affrontare questo processo da soli appare troppo impegnativo, non si può dimenticare che è sempre possibile rivolgersi a un professionista – scelta valida, e spesso necessaria nonostante un pregiudizio ancora troppo diffuso in larga parte della società. Chiedere aiuto non è solo un diritto, ma anche un’opportunità troppo spesso sottovalutata, e ora come non mai è necessario rivalutarla. Uscire dalla caverna non significa abbandonare le proprie abitudini per sostituirle con quelle pre-pandemiche, né rinunciare all’equilibrio raggiunto per immergersi in un mondo incerto e pericoloso. Integrare le proprie attività quotidiane con le interazioni che ci sono mancate ci consentirà, forse per la prima volta, di sperimentare una routine in cui la relazione umana acquisterà lo stesso valore del lavoro. La nuova normalità sarà simile a quella di prima ma non proprio la stessa, e una volta fuori ci accorgeremo che sarà meglio così.

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