Quando si parla di autismo vengono subito in mente Rain Man e Sheldon Cooper di Big Bang Theory: l’autismo è un mondo ancora avvolto da stereotipi e in cui la presenza femminile è sotto rappresentata, come è emerso da vari studi condotti negli ultimi anni. A lungo, la letteratura scientifica ha dato per scontato che la condizione dello spettro autistico riguardasse in prevalenza i maschi e si è concentrata sul loro funzionamento. I motivi di questo bias diagnostico sono vari: maggiori capacità di camuffamento e adattamento delle femmine rispetto ai maschi nello spettro; migliori capacità comunicative; meno comportamenti ripetitivi e stereotipati; una prevalenza di cosiddetti “interessi assorbenti” – passioni vissute così intensamente da egemonizzare tempo e attività mentale – ritenuti socialmente accettabili e dunque rinforzati nelle bambine; la scarsa conoscenza del fenotipo femminile anche nei clinici esperti di autismo a causa della diversa manifestazione delle caratteristiche autistiche femminili, che non corrisponde alla rappresentazione standard; bias di genere negli strumenti di screening e nei criteri diagnostici; il perpetrarsi di falsi miti e stereotipi – se hai una relazione di coppia stabile, hai figli, hai un lavoro, senso dell’umorismo, sei socievole, guardi le persone negli occhi e provi empatia, allora non puoi essere autistica.
Il rapporto di maschi diagnosticati nello spettro autistico rispetto alle femmine, variabile a seconda del gruppo di età, è attualmente indicato in due a uno per quanto riguarda gli adulti. In un articolo scritto insieme alla psicologa clinica Michelle Garnett, Tony Attwood – uno tra i maggiori esperti di autismo femminile – evidenzia come le femmine vengano diagnosticate più tardi rispetto ai maschi. Atwood e Garnett individuano tre percorsi comuni alle ragazze e donne con autismo di livello 1, prima di arrivare alla diagnosi: misdiagnosi o diagnosi che riconoscono solo le comorbidità – tipicamente ansia sociale, mutismo selettivo, disturbo da deficit di attenzione con e senza iperattività, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, disforia di genere, anoressia nervosa; diagnosi ottenuta in età adulta a seguito del percorso diagnostico dei figli; riconoscersi nelle testimonianze di donne asperger trovate online.
Ho avuto la prima epifania leggendo il memoir di John E. Robison, Guardami negli occhi. Io e la sindrome di Asperger. Quando ne ho parlato alla psicologa che mi seguiva allora, la risposta è stata che “avevo caratteristiche autistiche, ma non ero affatto autistica”, aumentando il mio senso di confusione e non appartenenza e alimentando la mia sindrome dell’impostore. Certo, non sfarfallo le mani, capisco i modi di dire e so addirittura come essere sarcastica, ma il fatto è che non siamo un esercito di cloni, non ci sono caselle da barrare per rientrare nel manuale dell’autistico perfetto, ma caratteristiche personali e criteri diagnostici da soddisfare. Finalmente, quest’anno, ho ottenuto la mia diagnosi di disturbo dello spettro autistico di livello 1 con caratteristiche riconducibili per convenzione clinica alla sindrome di Asperger.
Dalle esperienze riportate nei testi o nei forum sull’autismo, emerge che molte donne nello spettro si sono sentite dire “sei strana, ma non sei autistica”, trovandosi contemporaneamente sottoposte a giudizio sociale e alla negazione di un proprio modo di essere. Spiega la dottoressa Valentina Pasin – psicologa, coordinatrice Gruppo Empathie (Thiene, VI) e referente Servizio per lo Spettro Autistico e le altre Neuroatipicità Mi.Cal di Milano – “Non ricevere un’adeguata diagnosi di spettro autistico ha quasi sempre delle conseguenze negative sul benessere della persona: salvo rari casi nei quali l’ambiente in cui la ragazza/donna cresce è particolarmente accogliente e le sfide della vita molto basse, per tutte le altre vivere senza sapere di vedere il mondo con uno sguardo diverso dalla maggioranza delle persone apre alla costante sensazione di avere qualcosa che non va, di essere strana e sbagliata ma senza riuscire a individuare il perché. Nel tempo l’autostima si abbassa notevolmente e la persona difficilmente riuscirà a mettere in campo tutte le potenzialità positive che invece, se riconosciute e ampliate, permetterebbero una realizzazione piena e soddisfacente. Anche le ragazze e donne con grandi potenzialità cognitive o con specifici talenti fanno moltissima fatica nel trovare una strada di realizzazione personale autentica”.
Posso funzionare e rispondere alle richieste della società, ma per un periodo limitato e il farlo mi richiede un enorme sforzo. Se la mia routine viene seriamente compromessa, pure una funzione automatica come occuparmi dell’igiene personale diventa un compito che riesco a svolgere solo grazie alla compilazione di liste. Ho perso più di un’amicizia perché non sapevo spiegare il mio bisogno di periodi di pausa. Interagire in situazioni di gruppo è sfiancante: troppi stimoli, troppe conversazioni che si sovrappongono fino a che tutto si confonde in rumore di fondo e mi ritrovo messa all’angolo, muta. In una ricerca sulle donne nello spettro autistico pubblicata nel 2019 e coordinata da Francesca Happé, professoressa di Neuroscienze Cognitive presso il King’s College di Londra, viene evidenziato come le difficoltà nell’interazione sociale possano riflettersi nella vita di tutti i giorni. Quasi la totalità delle donne e ragazze intervistate ha menzionato quanto fosse estenuante gestire una vita “normale”.
Naturalmente ci sono anche aspetti positivi. Il focalizzarmi molto sui particolari mi ha impedito di cadere in una truffa e la mia rigidità cognitiva si risolve in un maggiore rispetto delle regole e a una ricerca maniacale di equità da cui si genera un profondo senso di giustizia a cui non rinuncerei mai. I problemi ricominciano quando devo spiegare alle amiche – chissà perché tendenzialmente scettiche e sospettose – che il mio interesse assorbente per una data persona non è di tipo prettamente romantico: il motore e la natura del mio interesse sono gli stessi che potrebbero spingere verso le carte topografiche o gli scacchi; e il coinvolgimento sentimentale è un optional. Spesso la scelta ricade tra costo sociale – non rientrare nel gruppo – o personale – quel che si definisce “masking”. “Passare la vita mascherando se stesse per adeguarsi alle richieste della società e alle modalità neurotipiche è estremamente stancante e nel tempo mette profondamente in discussione rispetto alla propria identità personale,” continua la dottoressa Pasin. “Chi sono io veramente se per la maggior parte del tempo è come se indossassi una maschera sociale? La conseguenza di ciò è che le ragazze/donne (ma può capitare anche agli uomini o persone non binarie) che attuano masking per lungo tempo senza rendersene conto vanno incontro con un’alta probabilità a vissuti depressivi, alti livelli di ansia, sovraccarichi che portano a meltdown (una risposta incontrollabile dovuta a sovraccarico sensoriale, emotivo, cognitivo o sociale) o shutdown (una risposta implosiva, sempre dovuta al sovraccarico) frequenti e, purtroppo, si sta riscontrando anche un aumento del rischio suicidario”.
Un altro aspetto che può creare diverse difficoltà è quello della comunicazione non verbale e dell’interpretare le espressioni facciali: quando si tratta di leggere tra le righe sono una straniera che deve continuamente ricorrere al vocabolario per capirci qualcosa, incorrendo più spesso di quanto sarebbe auspicabile in traduzioni maldestre. Così, quando l’uomo con cui avrei iniziato a vedermi mi ha preparato una cena a lume di candela, ero davvero convinta volesse risparmiare sulla bolletta. La tendenza a interpretare tutto alla lettera, però, può avere anche risvolti drammatici. Il tema della violenza e dell’abuso sessuale nel mondo dell’autismo femminile purtroppo è ancora poco considerato nel nostro Paese. Ci sono vari studi che mostrano come fino al 90% delle persone autistiche/asperger, soprattutto ragazze e donne, abbia subito nella propria vita un’esperienza di aggressione o abuso. Come mi spiega la dottoressa Pasin: “I motivi che espongono a un maggiore rischio sono: la difficoltà nella comunicazione espressiva dei propri pensieri, emozioni, bisogni, che può arrivare a episodi di mutismo selettivo nelle situazioni di tensione emotiva come possono essere degli approcci sociali/sessuali percepiti come sgradevoli o francamente violenti; la difficoltà di riconoscere in anticipo una situazione potenzialmente pericolosa e delle intenzioni negative nascoste, dovuta a una ‘ingenuità sociale’ tipica del funzionamento; la possibile mancanza di relazioni amicali di fiducia per farsi aiutare nel leggere correttamente i segnali o comportamenti che potrebbero indicare l’instaurarsi di una relazione di abuso; non avere chiaro che è sempre un proprio diritto rifiutarsi di prendere parte ad azioni delle quali non si è pienamente convinte e il dire di no in qualsiasi momento di una interazione sociale e sessuale; la mancanza di educazione affettiva e sessuale, aspetto che purtroppo riguarda tutte le donne e persone italiane ma che nel caso di una di una bambina/ragazza/adulta autistica può significare perdere l’unica fonte di informazione e confronto in età giovanile; per qualcuna ci può essere anche un problema di credibilità: la mancanza di validazione delle proprie esperienze da parte degli altri, non solo in ambito sessuale, è purtroppo molto diffusa tra le donne autistiche”.
Ricevere una diagnosi per me è stato come ritrovare il mio posto nel mondo. Prima di pensare di poter essere autistica, le mie difficoltà si trasformavano in una forte ansia sociale che mi portava a evitare situazioni e a sentirmi inadeguata. Ora so che sono caratteristiche del mio funzionamento, so che esistono strumenti per imparare a gestire le difficoltà e mi sento titolata a prendere i miei tempi e a togliere alcune maschere senza sentirmi stupida. Sapere come funziono e di essere parte di un gruppo mi sta insegnando ad accettarmi, a capire di cosa ho bisogno e a comunicarlo agli altri. Dopo la diagnosi, arriva anche il dilemma se dirlo, a chi e come. Fare coming out non è una decisione facile. Alcune persone, sviate dagli stereotipi sull’autismo, potrebbero sminuire o negare la diagnosi, innescando meccanismi d’ansia e autosvalutazione. Sensibilizzare la società è allora fondamentale per permettere a donne e ragazze autistiche di uscire dall’ombra, accedere al sostegno necessario e conquistarsi il diritto di essere se stesse.