In un’epoca già di per sé caratterizzata dal disorientamento e dalla perdita di appigli – ideologici, culturali, sociali –, viviamo con il timore di perdite più concrete nella quotidianità, quegli allontanamenti che determinano un trauma e la necessità di reinventarci per non soccombere. La sindrome dell’abbandono viene spesso confusa con la paura atavica di “restare da soli”, ma in realtà presenta un quadro molto più complesso a livello psicologico, che porta chi ne soffre a manifestare sintomi di varia natura e a vedere di fatto deteriorata la qualità della sua vita.
La sindrome dell’abbandono è strettamente collegata a un processo di dipendenza affettiva scaturita da ciò che abbiamo vissuto nei nostri primi anni di vita. In particolar modo è collegata alla teoria dell’attaccamento, teorizzata per la prima volta negli anni Cinquanta dallo psichiatra John Bowlby, che ha svolto molti studi con i bambini negli orfanotrofi, e poi strutturata dalla psicologa Mary Ainsworth, che ha dato forma all’impianto sperimentale prima per validarla e poi per delineare quattro diverse tipologie di attaccamento vissute dall’adulto, derivate da quelle sviluppate da neonati e da bambini. A un attaccamento sicuro, caratterizzato dalla fiducia negli altri e dalla capacità di relazionarsi senza alcuna remora, seguono tre attaccamenti insicuri, tutti legati al timore di perdere una persona cara, di non essere amati o di essere costretti a una vita di solitudine. Nel tempo sono stati fatti molti studi per cercare di considerare meglio la portata del temperamento del bambino, analizzando anche gli attaccamenti multipli ad altri caregiver oltre al primario (che di solito è la madre) e, per esempio, il ruolo del padre fin dalla nascita.
Abbiamo l’attaccamento insicuro-evitante, che nasce dalla convinzione di un bambino – spesso in seguito a un trauma – di non ricevere aiuto da chi lo accudisce. È solitamente collegata a soggetti con genitori poco presenti o privi di empatia. In tal modo l’adulto cresce facendo affidamento solo su se stesso e prova una paura anticipatoria quando si trova davanti all’opportunità di instaurare qualsiasi tipo di relazione, che sia amicale o sentimentale. Il soggetto fa di tutto per evitare i legami più intimi proprio perché ha già conosciuto l’abbandono, seppur in declinazioni diverse. E se decide ugualmente di lanciarsi va incontro a quella che in psicologia viene definita “profezia che si autoavvera”: ovvero, inizia un rapporto con la certezza talmente granitica di essere abbandonato da instaurare inconsciamente un meccanismo di respingimento e di chiusura, portando infine il partner, l’amico o il parente a una distanza reale.
L’attaccamento insicuro-ansioso scaturisce invece dall’esitazione del bambino di fronte alle mosse dei genitori. È tipico l’esempio del primo giorno d’asilo, quando molti bambini piangono di fronte al distacco dalla madre, in quanto non sono sicuri che lei verrà a riprenderli. Se è fisiologico per quanto riguarda i primi giorni, alcuni bambini continuano a patire il distacco più a lungo, mettendoci più tempo ad abituarsi al pensiero di non essere effettivamente abbandonati. Non hanno ancora introiettato la figura genitoriale e tireranno un sospiro di sollievo quando vedranno di nuovo la madre dopo qualche ora, pronta a riportarli a casa. L’adulto reagisce in maniera simile: rispetto all’evitante è più propenso alle relazioni, ma le vive con la costante ricerca del controllo, poiché titubante e insicuro. Inizia a monitorare i movimenti dell’altra persona, a sospettare che possa esserci una trappola, premonitrice di un abbandono. Questo comporta il bisogno di una conferma nell’altra persona e se non arriva o non viene percepita dà vita ad azioni che vanno dall’attaccamento morboso per mantenere la relazione, fino alla violazione della privacy, sfociando nei casi più estremi anche nello stalking.
Il terzo tipo di attaccamento è quello disorganizzato, ed è una crasi tra gli altri due attaccamenti insicuri. Facendo un parallelismo con il mondo animale, potremmo pensare all’immagine del gatto che cerca una carezza e contemporaneamente la schiva. Il bambino in questione ha un urgente bisogno di attenzioni, ma poi le rifiuta. Crescendo, l’adulto mostrerà un’incoerenza emotiva che lo porta alla spasmodica ricerca di un pilastro affettivo, frenata però dalla paura di perderlo, fino a tenere una sorta di distanza di sicurezza. L’individuo è conscio della sua ambiguità nella sfera dei sentimenti e preferisce vivere le relazioni con un paracadute sempre a portata di mano, come se da un momento all’altro la caduta, e quindi l’abbandono, potesse coglierlo di sorpresa. Costruisce quindi un’armatura su se stesso e viene spesso percepito come distaccato, quasi anaffettivo, quando in realtà, dentro di sé, brama la vicinanza – seppur momentanea e calcolata.
Eppure, non tutti i casi di sindrome dell’abbandono nascono da un retaggio infantile. Come spiega la psichiatra e neurologa Anandhi Narasimhan, le problematiche possono innescarsi in qualsiasi momento della vita, in seguito a un evento traumatico, come la perdita di una persona cara. Altre cause scatenanti possono essere un divorzio, un rifiuto o un maltrattamento in ambito affettivo o professionale.
Quasi tutto, nella nostra vita può essere riconducibile all’abbandono, anche la perdita di popolarità su un social network, l’essere cancellati da un gruppo su Whatsapp o il timore di essere irrilevanti dietro uno schermo come nella vita reale. Il tentativo compulsivo di essere apprezzati, come nel fenomeno del people pleasing, è un modo che gli stessi soggetti affetti da sindrome di abbandono usano per restare aggrappati a un legame non più personale, ma collettivo. “Far parte di qualcosa” diventa così un modo per combattere la solitudine, ma se il problema non viene risolto alla radice rischia di sedimentarsi fino all’insorgere di sintomi anche fisici. La paura di legarsi (attaccamento evitante) o di essere lasciati (attaccamento ansioso) causano un forte stress nel soggetto, quindi disturbi psicosomatici ma portano anche all’incapacità di gestire i rapporti con le altre persone. Per esempio, coloro che soffrono della sindrome dell’abbandono sono i primi indiziati a mantenere una relazione tossica, perché la paura di restare da soli impedisce la separazione da un partner sbagliato, a costo magari di subire vessazioni e di condannarsi all’infelicità, e al tempo stesso illudendo, sfruttando e prendendo in giro l’altra persona.
La sindrome dell’abbandono, nonostante i possibili tratti che possono renderla un disagio invalidante, non è considerata una patologia clinica primaria, e lo psichiatra Harold Hong spiega come un professionista della salute possa diagnosticare soltanto “una condizione correlata, come ansia o depressione”. Eppure, è alla base della nostra personalità. Nell’immaginario cattolico, l’umanità nasce dall’abbandono dell’Eden, dal trauma di Adamo ed Eva costretti ad abbandonare un paradiso per affrontare i dolori del mondo. Lo stesso Gesù Cristo in croce, nel Vangelo secondo Matteo, urla “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, mostrando al suo stesso padre la paura di essere lasciato da solo. Troviamo esempi del trauma dell’abbandono anche nella mitologia greca, su tutti Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Nasso dopo l’uscita dal labirinto. Le realtà storiche, mitologiche e del tempo che stiamo vivendo ci portano alla stessa conclusione: l’unico modo per superare il trauma dell’abbandono è viverlo.
Nell’archetipo dell’Orfano di Gustav Jung, troviamo una risposta simile quando è in atto l’abbandono delle proprie origini con la conseguente destabilizzazione. La perdita di un appiglio genera insicurezza, ansia e voglia di tornare a quel punto d’origine abbandonato, ma Jung spiega che l’Orfano ha bisogno dell’abbandono, deve viverlo in pieno per poter aprirsi al mondo e guardare se stesso con una nuova forza. Concretamente, chi soffre della sindrome dell’abbandono necessita di un percorso psicoterapico, e spesso la direzione che viene proposta è proprio quella consapevolezza del distacco e di una nuova apertura. Accettare la possibilità di un abbandono vuol dire accettare la vita stessa e la sua inevitabilità, arrivando persino a trasformare la crisi in cambiamento. Non a caso la parola crisi deriva dal greco antico κρίσις, ovvero “separazione” ma anche “punto di svolta”. Questo doppio significato ci offre l’opportunità di vedere la separazione e con sé l’abbandono, come il ponte per un nuovo futuro, libero dalle dipendenze affettive e dalla paura di perdere ciò che abbiamo e chi ci circonda.