Il prossimo 20 novembre ricorrerà un anno dal rapimento della cooperante italiana Silvia Costanza Romano, della quale non si hanno notizie sicure da più di 11 mesi.
Per essere il più fedele possibile alla ricostruzione delle dinamiche mi sono rivolta a uno dei pochi professionisti costantemente presenti in Kenya sui luoghi frequentati da Silvia Romano prima del sequestro: Massimo Alberizzi. Alberizzi è un ex corrispondente dall’Africa del Corriere della sera, ha fatto parte del panel sull’investigazione del traffico d’armi in Somalia per il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e attualmente è il direttore della testata Africa express, giornale che con grandi sforzi, grazie all’attivazione di un crowdfunding, si sta occupando di proseguire le indagini giornalistiche sul caso della giovane dottoressa di Milano.
“Silvia arriva per la prima volta in Kenya il 22 luglio del 2018. Aveva conosciuto un italiano, Davide Ciarrapica, che gestisce un centro per bambini”, esordisce Alberizzi. Ciarrapica è un trentenne italiano che negli ultimi mesi ha avuto problemi con la legge, fondatore della Onlus Orphans’s Dreams di Likoni, una località a pochi chilometri da Mombasa. I rapporti tra lui e Romano si guastano in fretta a causa del disaccordo sulla gestione dell’associazione, come testimoniato da un’amica e da un audio inviato dalla stessa Silvia.
Silvia Romano in quella prima occasione rimane in Africa un mese. Dopo un periodo a Milano, torna in Kenya il 5 novembre per lavorare con la Onlus italiana Africa Milele che ha la sua sede keniota a Chakama, un villaggio a 70 km da Malindi, e si occupa di aiutare i bambini orfani della zona. A Chakama Silvia Romano prende possesso di una camera condivisa in una piccola pensione – “ma è un eufemismo definirla così”, ammette Alberizzi – da tempo utilizzata dai volontari dell’associazione.
Il lavoro di Romano viene turbato quando si accorge che un pastore anglicano che soggiorna nel suo stesso edificio ha atteggiamenti molesti verso le bambine ospiti dell’associazione. “L’11 novembre 2018, nove giorni prima di essere rapita, Silvia Romano si reca alla centrale di polizia a denunciarlo”. Il 20 novembre 2018 la cooperante viene sequestrata da un gruppo di cinque uomini armati (altre fonti parlano di otto) che, a detta dei testimoni intervistati, hanno agito con il preciso obiettivo di sequestrare la giovane italiana: verso le otto di sera hanno creato scompiglio nel mercato di Chakama sparando all’impazzata e ferendo cinque persone, si sono recati nella camera di Silvia, che occupava temporaneamente da sola in attesa che dall’Italia arrivassero altri colleghi, e l’hanno portata via in spalla.
Dal giorno del rapimento, le versioni sui possibili mandanti si sono succedute e confuse con rapidità. In un primo momento, sia in Kenya che in Italia, si è pensato che il rapimento fosse opera di delinquenti comuni per chiedere un riscatto. Successivamente è stato ipotizzato che il sequestro sia stato organizzato dal gruppo fondamentalista islamico Al-Shabaab, o che Silvia Romano sia stata venduta a loro per poi essere portata in Somalia – notizia riportata da molte testate italiane, ma smentita dal governo di Mogadiscio.
Il quadro prospettato nelle prime ore dopo il sequestro era sconfortante, ma una pista seguita nei giorni successivi dalla redazione di Africa express ha dato forza a una terza ipotesi. Della denuncia di Silvia Romano ai danni del pastore anglicano non ci sono tracce e senza il lavoro di Alberizzi e dei suoi collaboratori che si sono recati personalmente dalla polizia keniota, non avremmo neanche prova del fatto che l’accusa è stata effettivamente depositata da Silvia, come dimostra un messaggio audio Whatsapp che ha inviato a un’amica.
L’accusa della ragazza “è stata raccolta dalla ispettrice di polizia sul suo blocco di appunti personali e mai riportata sui faldoni ufficiali perché Silvia non aveva dato i nomi del pastore e dei bambini molestati”, ricorda Alberizzi, aggiungendo che identificare il pastore protestante non sarebbe stato per niente complicato. Non risulta invece che sia mai stato arrestato ed è ancora lecito pensare che la denuncia di Silvia Romano potrebbe essere la causa del suo rapimento per metterla a tacere.
Un’altra circostanza che desta sospetti è quella per cui all’aeroporto di Mombasa, dove Romano è atterrata il 5 novembre 2018, il file con la sua fotografia e impronte digitali, “pratica che avviene per ogni persona che arriva nel Paese ”, è scomparso. Intanto durante i primi mesi successivi al sequestro, dalle autorità keniote sono stati arrestati tre uomini accusati di essere tra gli esecutori materiali: Abdulla Gababa Wario, Moses Luwali Chembe e Ibrahim Adan Omar, “il più pericoloso dei tre, perché trovato in possesso di armi automatiche e di diversi proiettili”. Gli avvenimenti sospetti, però, non si esauriscono con l’arresto degli accusati: il telefono di Silvia, abbandonato nella sua stanza dopo il rapimento, “è scomparso insieme alle due schede telefoniche keniote e a quella italiana”. Il dispositivo è stato anche acceso e il 6 aprile 2019 qualcuno lo ha usato per uscire da un gruppo WhatsApp.
Un’altra situazione da chiarire riguarda le cauzioni disposte dai giudici kenioti per due dei tre arrestati: gli inquirenti italiani avevano chiesto che non venisse loro concesso il diritto alla cauzione, anche se questa ammontava a ben 26mila euro, una cifra astronomica per quelle zone. Eppure i due presunti rapitori hanno trovato la cifra necessaria, nonostante i garanti di Moses dichiarino un guadagno di cento euro al mese, mentre il benefattore di Ibrahim sia il padre di un presunto terrorista, come rivelato sempre dall’inchiesta di Africa express, che ha visionato il documento di rilascio.
Alberizzi è chiaro: “qualche forte pressione diplomatica potrebbe portare a una chiara definizione della questione”. Più passano i mesi, più il rapimento di Silvia Romano si infittisce di domande irrisolte e ipotesi sulle reali dinamiche del rapimento.
Il 17 novembre prossimo Amnesty International ha organizzato un evento dedicato a Silvia Romano nel quartiere Trotter di Milano, dove è cresciuta con la famiglia. Daniel Timis, responsabile del gruppo giovani di Amnesty a Milano, ha detto che in quell’occasione “non entreranno nei dettagli del suo caso”, ma faranno “un discorso ampio su attivismo, arte e diritti umani”, perché “Amnesty International Italia, in accordo con la famiglia e cercando proprio di rispettarne la volontà non ha mai preso posizione sul caso, né sul ruolo dell’Italia”.
Purtroppo la situazione politica, sociale ed economica del Kenya, per non parlare della vicina Somalia dove si concentra un filone delle indagini, non favorisce il lavoro degli investigatori, così come l’assenza di un trattato di cooperazione con l’Italia non permette una proficua collaborazione tra gli inquirenti: basti pensare che ai carabinieri del Ros non è stato permesso di arrivare a Chakama prima dello scorso 21 agosto. I problemi del Kenya sono la povertà, il fondamentalismo islamico, la corruzione e la criminalità, aggravati dal traffico di droga: “Il Kenya è un hub della cocaina, da lì passano tonnellate di droga”, dice Alberizzi, che sta seguendo gli sviluppi del caso che nel dicembre 2004 ha coinvolto i due italiani Angelo Ricci e Estella Duminga Furuli, accusati insieme a cinque cittadini del Kenya del traffico di 1,2 tonnellate di cocaina. Secondo recenti rivelazioni, il traffico che ha portato all’ingiusta detenzione di Ricci e Furuli avrebbe coinvolto anche figure di alto livello del governo del Paese africano.
L’Italia deve affrontare anche il caso di presunta corruzione che coinvolge i costruttori della Cmc di Ravenna, firmataria di un contratto in Kenya per la costruzione di due dighe mai realizzate, nonostante il pagamento da parte del governo di Nairobi di un’ingente somma di denaro. “Una delegazione keniota è venuta in Italia per parlare della Cmc di Ravenna”, dice Alberizzi, “ma nessuno ha menzionato la questione di Silvia Romano”. È lecito pensare che sia in atto un braccio di ferro tra i rappresentanti dei due Stati, ognuno interessato a risolvere casi che implicano la cooperazione dell’altro.
La speranza di tutti coloro che hanno espresso solidarietà a Silvia Romano e a chi aspetta il suo ritorno a casa è che questi 11 mesi di silenzio da parte delle istituzioni italiane possano permettere alle indagini di fare luce su quello che è veramente successo nei giorni successivi al 20 novembre di un anno fa e portare nel minor tempo possibile alla liberazione della cooperante milanese. La scelta di lasciare i piccoli vizi e comodità della propria vita quotidiana per aiutare chi ha meno di noi non può mai avere il prezzo di quanto sta vivendo in questi mesi una ragazza di appena 24 anni.