I libri che leggiamo sono spesso frutto di lavoratori sfruttati. La cultura non può essere un alibi. - THE VISION

Dopo oltre un anno di indagini, sono state arrestate undici persone accusate di essere in un giro di sfruttamento e caporalato nell’azienda Grafica Veneta di Trebaseleghe, in provincia di Padova, dove vengono stampati i libri a larga tiratura delle principali case editrici italiane e straniere. Oltre all’amministratore delegato Giorgio Bertan e al responsabile dell’area tecnica Giampaolo Pinton, che sono ai domiciliari, altre nove persone sono in carcere in custodia cautelare. I Carabinieri hanno infatti scoperto che i lavoratori dell’azienda trentina BM Services, che forniva manodopera a Grafica Veneta per il confezionamento dei libri, subivano gravi abusi ed erano costretti a lavorare 12 ore al giorno – eccedendo i regolari contratti – senza pause e senza alcuna tutela. I gestori della BM Services, Arshad Mahmood e Asdullah Badar, avrebbero inoltre ricattato i loro dipendenti, tutti connazionali pakistani, appropriandosi di gran parte dei loro stipendi, fornendo alloggi sovraffollati e punendoli con percosse e abusi. Le indagini sono cominciate dopo che alcuni lavoratori erano stati trovati legati e con segni di percosse lungo il ciglio della strada, picchiati per essersi rivolti al sindacato di categoria. A quanto risulta dalle indagini, i manager di Grafica Veneta non solo erano a conoscenza della situazione, ma avrebbero anche manomesso alcuni dati per eludere i controlli sulle condizioni di lavoro.

La vicenda somiglia a tante altre storie di sfruttamento emerse negli ultimi mesi e legate in particolare al settore della logistica dove, secondo quanto riferito dal ministro del Lavoro Andrea Orlando, il tasso di irregolarità delle aziende supera il 71,8%. In un mercato in cui le merci si devono spostare sempre più velocemente, la logistica garantisce ampi margini di guadagno e consente di comprimere i costi del lavoro, non specializzato e poco qualificato. I grandi hub spesso sfruttano cooperative multiservizi e appalti al ribasso per non dover assumere direttamente i lavoratori, che si trovano così con contratti pessimi e di breve durata, con salari molto bassi e poche tutele. In questo contesto, la storia di Grafica Veneta è ancora più significativa perché riguarda un settore, quello dell’editoria, che è spesso idealizzato e distinto dagli altri solo perché contribuisce alla creazione e circolazione della cultura, come se il prodotto finale libro, per la sua stessa natura positiva, lo mettesse al riparo dai problemi che ormai riguardano praticamente tutto il mondo del lavoro. Questi fenomeni non si limitano solo ai magazzini, ma ormai interessano tutta la filiera produttiva dei libri, da chi ne cura gli aspetti immateriali – correggendoli, traducendoli, promuovendoli – a chi li produce e li trasporta come beni materiali. 

A giugno di quest’anno, i lavoratori del più grande magazzino dell’editoria italiana, la Città del Libro di Stradella, in provincia di Pavia, hanno organizzato un grande sciopero per protestare contro le condizioni di lavoro imposte dalla C&M Books Logistics, nata dalla fusione tra l’azienda internazionale Ceva Logistics e Messaggerie Libri, il più grande distributore di libri del nostro Paese. Lo sciopero ha bloccato la distribuzione dei volumi in tutta Italia ed è stato  il culmine di una serie di proteste iniziate nel 2019: dopo dieci giorni di picchetto, i lavoratori hanno ottenuto il riconoscimento delle loro istanze. Nel 2018, quaranta cooperative del consorzio Premium Net operanti all’interno di Ceva Logistics erano già state al centro di indagini per intermediazione illecita e sfruttamento dei lavoratori, con l’accusa di violare “reiteratamente la normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, alle ferie, in totale dispregio delle norme di igiene e del lavoro”. La vicenda ha portato l’anno successivo al commissariamento temporaneo dell’azienda e al sequestro di beni per diciassette milioni di euro. 

Lo sfruttamento nel settore dell’editoria non si limita però soltanto alla distribuzione e alla logistica, ma arriva anche in tutte quelle fasi della produzione del libro che vengono considerate le più prestigiose e desiderate, come l’editing, la traduzione, la grafica o la promozione. Anche questi sono lavori che le case editrici tendono a esternalizzare sempre di più, servendosi di una manodopera ad alta specializzazione ma pagata poco. Secondo l’indagine sull’editoria libraria Redacta condotta da Acta, l’Associazione italiana dei freelance, il 93% dei rispondenti impiegati nel settore lavora come freelance per più di un committente e oltre il 70% a fronte di una media di 40 ore settimanali, percepisce un reddito annuo lordo inferiore a 15mila euro. Una situazione che va avanti da almeno dieci anni: nel 2012, l’inchiesta Editoria invisibile commissionata dal Sindacato lavoratori della comunicazione della Cgil denunciava come oltre il 92% dei contratti stipulati nel settore librario fosse diverso da quello subordinato. La situazione economica degli operatori dell’editoria negli anni sembra essere peggiorata: nel 2012 a percepire un reddito inferiore ai 15mila euro era “soltanto” il 55% del totale delle persone intervistate. 

Il precariato che affligge queste mansioni si alimenta anche grazie a un circolo vizioso, dato che moltissime persone desiderano lavorare nell’editoria e sono disposte ad accettare regimi di sfruttamento pur di realizzare il sogno di contribuire alla creazione di un libro. In generale, come denunciava anche la copywriter e attivista di Redacta Silvia Gola su Il Tascabile, la romanticizzazione del lavoro editoriale fa sì che la cura del libro sia considerata più una passione che un lavoro vero e proprio, dando consistenza all’idea che per ripagare un buon editing o una buona correzione di bozze bastino gratificazione e prestigio sociale. Questi pregiudizi sono molto radicati in tutti i lavori creativi e culturali, privano di legittimità le istanze politiche di chi vive grazie a questi mestieri e scoraggiano la sindacalizzazione, oltre a fornire un alibi morale a chi li sfrutta. In molti casi, infatti, si instaura una dinamica in cui lavorare in una casa editrice o in un’agenzia viene considerato non un impiego ma un privilegio (“Come sei fortunato a lavorare con i libri!”) che così come può essere concesso, può essere revocato. 

Tutto questo è possibile perché anche le case editrici, le agenzie e i distributori sono aziende che devono massimizzare il profitto, una verità spesso difficile da riconoscere anche da chi è immerso nel lavoro editoriale. Così anche l’editoria libraria è costretta a inseguire tutte quelle pratiche che riguardano qualsiasi altro settore economico in un sistema neoliberista le cui conseguenze pesano soprattutto sui diritti sociali: la concentrazione, la riduzione dei costi del lavoro e la sovrapproduzione. Basta guardare a quanti (e forse pure a quali) libri vengono prodotti ogni anno: stando agli ultimi dati dell’Associazione italiana editori, nel 2019 sono stati pubblicati 78.279 titoli (erano 30mila nel 2000). L’anno precedente, dei 130 milioni di volumi arrivati sugli scaffali delle librerie 65milioni erano rimasti invenduti: si tratta evidentemente di una produzione eccessiva per un Paese dove 6 italiani su 10 non leggono nemmeno un libro all’anno, questione che dovrebbe farci riflettere anche sulla sostenibilità ambientale dell’editoria. Se il numero dei libri aumenta, il prezzo medio di copertina (19,93 euro) continua a calare ed è diminuito di un euro e cinquanta rispetto al 2010. L’accessibilità della cultura è qualcosa di positivo, ma è sempre più evidente che ciò avviene a discapito di chi i libri li crea, li inscatola e li porta negli scaffali delle librerie o a casa nostra. Se si considera poi che la maggior parte di questo prezzo è determinata dalla quota che va alla distribuzione, la parte della filiera dove più facilmente possono verificarsi situazioni come quelle di Grafica Veneta o della Città del Libro, la domanda che dobbiamo farci è chi davvero guadagna grazie a questa enorme mole di libri. 

Di sicuro a farlo non è la cultura, che non può essere tale finché continuerà a chiudere un occhio sullo sfruttamento di chi contribuisce alla sua creazione, a ogni livello.

Segui Jennifer su The Vision | Facebook