Nel 2018 le persone sfollate, fuggite da guerre e persecuzioni, sono state a livello globale 70,8 milioni, di cui la metà bambini: l’anno scorso 25 persone ogni minuto sono state costrette a fuggire dalle loro case. I dati riportati dal Global Trends Report 2018 dell’Unhcr dimostrano anche che il numero degli sfollati nel mondo, passato dai 43,3 milioni del 2009 al record di 70,8 milioni del 2018 è in continuo aumento.
Mentre i profughi aumentano, i fondi per accoglierli o creare le condizioni perché non siano costretti a partire non crescono con la stessa rapidità. Negli ultimi cinque anni, solo il 60% degli appelli umanitari ha ricevuto fondi dall’Occidente e dalle organizzazioni internazionali, contro il 72% del periodo compreso tra il 2007 e il 2009. La comunità internazionale è sempre meno attiva nei progetti umanitari che puntano a migliorare la qualità della vita nei Paesi di partenza dei profughi, così come in quelli per permettere un loro ritorno nei Paesi di origine. Nel 2018 solo il 3% dei profughi è riuscito a ritornare a casa, bilancio che non contempla i milioni di venezuelani che hanno abbandonato il loro Paese dal 2015 in poi: al momento sono 4 milioni, ma potrebbero diventare 5 entro la fine dell’anno.
Anche il rapporto della onlus Agire, Il Valore dell’Aiuto. Risorse per le risposte alle emergenze umanitarie, ha sottolineato che oltre il 40% dei bisogni delle popolazioni colpite da conflitti e catastrofi naturali non sono garantiti, nonostante lo stanziamento record raggiunto nel 2016 di 27,2 miliardi di dollari tra fondi pubblici e donazioni da privati. Il 97% di questi fondi umanitari proviene dai governi di 20 Paesi, con gli Stati Uniti prima della presidenza Trump che da soli hanno coperto il 31% dell’assistenza umanitaria totale. Nonostante i tagli seguiti alla sua elezione, gli Stati Uniti continuano a essere il maggior finanziatore, seguiti da Gran Bretagna e Germania. Ruolo fondamentale, invece, è sempre più quello rivestito da fondazioni, aziende e singoli individui, che contribuiscono al totale con circa 6,9 miliardi di dollari, con un aumento del 5%.
L’Italia non raggiunge neanche la top ten, posizionandosi nel 2016 al 15° posto con 420 milioni di dollari complessivi stanziati. Nel nostro Paese, prima della campagna contro le Ong dei partiti sovranisti queste hanno raccolto 596,21 milioni di euro. Le accuse infondate sulla loro complicità con i trafficanti di esseri umani hanno fatto crollare, soprattutto nel 2018, le donazioni che ricevono da parte dei privati. La situazione peggiora se si considerano i fondi messi a disposizione dalle istituzioni: secondo il recente rapporto di Oxfam e Openpolis, il governo gialloverde ha autorizzato un taglio di oltre un quinto degli aiuti. Una decisione che contraddice il vice premier Di Maio e la sua promessa di qualche settimana fa di raggiungere il traguardo dello 0,30% del Pil devoluto alle Aps (associazioni di promozione sociale) entro il 2020. Gli ultimi dati Ocse hanno invece confermato che l’Italia si è fermata allo 0,24% del Pil nazionale, con un calo del 21,3% dei fondi rispetto al 2017 e una diminuzione di oltre 860 milioni di euro.
Questa politica di tagli non farà altro che aumentare la portata dei flussi migratori, alimentati non solo dalla guerra e dall’instabilità politica, ma sempre più spesso dall’emergenza climatica. Nel 2050 il numero dei profughi potrebbe raggiungere i 143 milioni a livello globale, molti dei quali costretti a spostarsi per gli sconvolgimenti ambientali. Secondo un report della Banca Mondiale, delle le persone costrette a spostarsi all’interno del proprio Paese per ragioni legate al cambiamento climatico 86 milioni saranno originarie dell’Africa Sub-sahariana, soprattutto per siccità, carestie cicliche, desertificazione del suolo e scarsità delle risorse idriche. In America Latina e Asia meridionale le stime parlano rispettivamente di 17 e 40 milioni di persone costrette a spostarsi. La questione ambientale è sempre più spesso il motivo del conflitto tra gli Stati: come riporta il programma internazionale Unep delle Nazioni Unite, almeno il 40% dei conflitti combattuti in Africa negli ultimi 60 anni erano causati dalla volontà di sfruttare risorse naturali come l’acqua.
Nel frattempo i profughi (coloro che, a differenza degli sfollati, dopo aver perso la propria casa lasciano il Paese di origine), superano i 30 milioni, mentre sono 3,5 milioni i richiedenti asilo e 41,3 milioni gli sfollati interni. A preoccupare maggiormente in questo momento sono gli sviluppi in Medio Oriente (11,7 milioni di siriani dipendenti dall’assistenza umanitaria) e nell’Africa subsahariana (7,4 milioni di sfollati). L’instabilità nelle province anglofone del Camerun, ad esempio, secondo la Ong norvegese Norwegian Refugee Council, ha causato più di 450mila sfollati, 780mila bambini che non frequentano la scuola e circa un milione di persone che ha bisogno – per il momento senza riceverli – di aiuti umanitari. L’emergenza inizia a pesare anche sui Paesi vicini che accolgono i profughi, soprattutto nell’Africa orientale dove l’Uganda, il Kenya e la Tanzania hanno visto un taglio molto pesante dei fondi destinati all’accoglienza: la Tanzania, che ospita 318.000 rifugiati dalla Repubblica Democratica del Congo e dal Burundi, riesce ad assisterne con efficacia solo il 27%.
Ad aggravare la situazione, alle guerre e ai disastri climatici si è affiancato negli ultimi anni il land grabbing. La pratica dell’accaparramento delle terre, venduta ad aziende o governi di altri Paesi e sottratta alle comunità locali che vi abitano, è nata dopo la crisi finanziaria del 2008 per conoscere un aumento del 1000%, danneggiando le aree meno sviluppate del Pianeta e spingendo alla fame e all’esodo coatto migliaia di contadini. Negli ultimi 18 anni, secondo il report I padroni della Terra. Il land grabbing, realizzato da Focsiv e Coldiretti, 88 milioni di ettari di terra fertile, equivalenti a circa 8 volte la grandezza dell’intero Portogallo o tre volte quella dell’Ecuador, sono stati sottratti agli abitanti dei Paesi in via di sviluppo. A guidare il saccheggio ci sono gli Stati Uniti con 10 milioni di ettari, seguiti da Malesia (4,1) e Cina (3,2).
Anche l’Italia ha comprato o affittato negli ultimi anni un milione e 100mila ettari di terreno con 30 contratti in 13 Stati. Spesso l’operazione viene mascherata da aiuto umanitario, come accaduto con la costruzione della diga Gibe III in Etiopia. Realizzata con la benedizione dello Stato Italiano dalla ditta Salini Impregilo nella valle dell’Omo, la struttura avrebbe dovuto garantire la produzione di energia elettrica e, grazie a un sistema di irrigazione, la rigogliosità delle piantagioni intensive di canna da zucchero a valle. La seconda parte del progetto è andata incontro a un fallimento tale da costringere una parte dei 700mila abitanti del luogo a lasciare la zona, con un impatto demografico che avrà ripercussioni della durata di decenni. Già un anno dopo l’inaugurazione della diga nel 2016, alcuni report hanno denunciato quello che è stato definito come un grande inganno ai danni delle popolazioni locali. Nonostante le ripetute denunce di Survival International (movimento mondiale per i diritti dei popoli indigeni) all’Ocse, nel triennio 2013 – 2015 l’Italia ha finanziato in Etiopia progetti simili alla diga Gibe III per un valore di quasi 100 milioni di euro.
L’interesse predatorio nei confronti dell’Africa e degli Stati in via di sviluppo cresce con la stessa rapidità del consenso dei partiti xenofobi e nazionalisti nei Paesi di destinazione dei flussi migratori, dove in molti ignorano o fingono di ignorare le cause reali di questa emergenza. Contrastando l’arrivo di migranti, ma non i gravi problemi all’origine delle loro partenze, si è innescato un cortocircuito del sistema no profit: ridurre il supporto delle casse statali e fare guerra alle Ong significa indebolire la loro capacità di attrarre le donazioni dei privati e, di conseguenza, l’efficacia nel fornire sostegno umanitario nelle zone del mondo dove questo è più necessario. Nonostante la propaganda di chi semina falsità e odio per il suo tornaconto elettorale, tornare a investire le giuste risorse nei programmi di sviluppo e cooperazione è l’unico modo per arginare un’emergenza migratoria che, se non esiste per l’Italia come singolo Stato, è sempre più evidente nella sua dimensione internazionale.