Gli scandali che hanno travolto il mondo del cinema nelle ultime settimane per molti commentatori nostrani sono poco più che scemenze ingigantite dalla sessuofobia dei bigotti. Harvey Weinstein, Kevin Spacey, Louis C.K e Fausto Brizzi sarebbero, alla fin fine, tutti capri espiatori su cui si è esercitato lo strapotere mediatico del politically correct. Tra gli opinionisti – di destra e di sinistra, giovani e anziani – sono in molti ad aver provato a minimizzare: sono stati approcci maldestri – hanno scritto – avances sfortunate, alla fine, insomma, robetta. Se sta succedendo tutto questo – ci spiegano questi aspiranti sociologi del long form – è perché impera il moralismo. L’ipocrisia dei puritani americani – e di noi italiani copioni – dà di matto per po’ di aneddotica genitale. In tanti ci stanno marciando, è la caccia alla streghe, il delirio antimaschilista che ora va tanto di moda, la nuova ideologia accecante.
In questi termini si sono espresse penne più o meno famose, provenienti dalle più diverse estrazioni culturali e politiche. I soliti Feltri e Facci, ma anche un insospettabile come Matteo Bordone, che nel suo articolo “Kevin Spacey l’altro giorno non ha sbagliato niente” ha spezzato una serie di lance a favore dell’attore di American Beauty e House of Cards, reclamando l’assenza di “sfumature” nelle ricostruzioni mediatiche, ovvero di quei dettagli – leggi “attenuanti” – che ci permetterebbero di vedere che abbiamo tutti preso un grosso abbaglio. No, certo, non è morto nessuno ma molte e molti riferiscono di essere morti dentro, di aver sviluppato reazioni psicologiche drammatiche e indelebili a causa di quei fatti, di quelle mani, di quegli organi sessuali inflitti a sorpresa. Di essersi sentiti sporchi, usati, violati. Ci sono un sacco di vite e carriere appassite, mutilate, e le “sfumature” di cui parla Bordone in certi casi sono arrivate a far sostenere che la colpa è dei molestati.
Abbiamo visto che ci sono sempre ottimi motivi per non solidarizzare con le vittime: nel caso di Weinstein perché hanno ricevuto benefici lavorativi; nel caso di Spacey e C.K. perché gli accusati sono attori che amiamo e ci stanno simpatici; nel caso di Fausto Brizzi perché l’attricetta in cerca di fama in Italia è bollata come zoccola per definizione. E insomma: tanto peggio per chi ha vissuto quel che ha vissuto. The show must go on.
C’è un gap, un vuoto percettivo e sentimentale tra le violenze e le opinioni del pubblico e dei commentatori, che non può essere riempito, perché i fatti in questione sono avvenuti in camere private o di hotel, ma non tra adulti consenzienti e piacevolmente coinvolti. Sui letti di quelle camere donne, ma anche uomini, si sono sentite sopraffatte, sopraffatti. Hanno ricevuto assalti o proposte indecenti. Qualcuna è fuggita via (e forse non ha più lavorato), qualcun’altra è rimasta paralizzata dalla paura e dal timore di contrariare il capo, la star, il guru dell’entertainment. Non so se ha ragione chi ha definito questa delle molestie una “rivoluzione”: sicuramente è un fenomeno rivelatore, che ha tagliato in due la società.
Da una parte, infatti, c’è chi si ferma all’evidenza delle (disturbanti) testimonianze, le accetta o almeno sospende il giudizio, provando a mettersi nei panni di chi ha subito; dall’altra invece ci sono quelli che vogliono fare gli originali a tutti i costi e che provano a spacciarsi per sagaci critici di costume. Nella delirante fantasmagoria dei punti di vista, editorialisti e opinion maker, per darsi un tono e passare per quelli che che la sanno più lunga degli altri, tentano di negare o sovvertire i termini del discorso. Bypassano buona parte di quel che il buon senso e la pietà suggerisce, per esibire la lettura più sgamata. Personalmente questi sono quelli che a me fanno più paura: mettono il proprio bisogno di visibilità davanti alla solidarietà umana che dovrebbe portare a condannare, non solo il singolo episodio, ma un intero sistema tossico e oppressivo.
Questo piccolo esercito di opinionisti e aspiranti tali, che mira ad avere molto senso dell’umorismo ma ben poca empatia, ritiene che sia noioso perorare la cause delle vittime. Non è non è intellettualmente stimolante, non è figo: il cinismo eccita di più, è più divertente. Le vittime sono tali solo per i puritani, dicono, per le anime belle che si scandalizzano per una sega e quattro pompini. Allora i termini del discorso devono cambiare: i fatti vengono ridimensionati attraverso una lettura che di fatto si schiera con chi ha abusato, perché intrattiene meglio, ci stufa di meno (visto che si tratta a volte anche di beniamini cinematografici). L’intera lotta al maschilismo diventa allora ideologia, mania, fissazione. Le femministe diventano bersagli umoristici, le testimonianze convogliate dall’hashtag #quellavoltache, esponendosi così intimamente sui social, si prestano bene a essere parodiate, ridicolizzate. Si vuole ricavare intrattenimento, piacere umoristico e allora giù di meme, battute, sfottò. Dai nostri scaltri editorialisti al vetriolo impariamo che stiamo vivendo una “pandemia moralistoide” che merita di essere rifiutata e anzi irrisa.
Chi parla di sessofuobia, bisogna dirlo: va fuori strada. Sessuofobico è accanirsi contro l’esposizione, il racconto della vita sessuale delle persone, ma gli scandali in questione non hanno affatto questa radice. Queste storie ci parlano di agguati e ricatti, assalti e vendette. Qui si parla del potere e del suo abuso: la sessualità in queste storie di molestie e abusi c’entra ben poco: era il mezzo. Il fine era la sottomissione, l’esercizio di un dominio: illecito, malato eppure abituale, sistematico, vecchio come il mondo, e non solo del cinema. Sessuofobia è fastidio per la sfera sessuale, ma il problema degli scandali cinematografici è che il sesso è stato messo dove non dovrebbe stare. È stato reso inopportuno, velenoso, malato. È stato inserito nei rapporti professionali, lo si è mischiato al timore reverenziale e ai sogni delle debuttanti. La colpa dei molestatori è l’abuso di potere, mica il sesso.
Lo scandalo diventa “da perbenisti, non è roba seria”. E cosa, invece, sarebbe serio? È forse serio il delirio di chi chiede di “rispettare le differenze”, ovvero imparare a tollerare che ci sia gente che ti obbliga ad assistere alle sue pratiche onanistiche? “È sgradevole vedere genitali controvoglia,” scrivono sul Foglio, ma la soluzione “non può essere uccidere ogni manifestazione del desiderio”. Sbucano dappertutto gli abili e sbrigativi risolutori degli abusi degli altri, ma qua non si parla di “sesso” e “desiderio”. Come ha scritto Giulia Bongiorno: “La violenza è presente non soltanto se l’uomo prende d’assalto la vittima. Anche se la donna accetta, il consenso è alterato dal dover scegliere tra due mali minori: o accetta o viene esclusa. Non c’è libertà di autodeterminazione: c’è una violenza”.
Come al solito, non sono certo solo i maschi a supportare la tradizione maschilista. Sono state tante le uscite imbarazzanti di quelle donne che sono sembrate preoccupate a non incasinare troppo lo status quo. Sandra Milo ha urlato tutta la sua preoccupazione per il futuro della seduzione: “A noi donne non toccherà più nessuno”. Mentre secondo l’autrice TV Irene Ghergo “Entro certi limiti un gesto di apprezzamento è anche lusinghiero” e “se una non ha la forza di ribellarsi, se ne faccia una ragione”. Insomma: sono le vittime a esagerare o a non saper reagire. Precisazioni un po’ fuori luogo anche da parte di Monica Bellucci, che ha voluto distinguere le avances dalla molestia, dimenticando forse che in molti casi ciò che è qualificante non è tanto l’atto in sé, quanto piuttosto il contesto e i termini impliciti del contratto invisibile che ti viene proposto dal potente di turno.
I tanti articoli che hanno gridato, e ancora gridano, al delirio perbenista hanno sollevato un sacco di polvere per celare la loro mossa primaria, che è quella di decidere che la vittima non è poi così vittima. Gli opinionisti sono indignati: ci sono carriere distrutte ora per una sega, per una “leccatina”, per una mano sul culo. Si vuole “trasformare lo spiacevole e l’improprio in un delitto orrendo […] cosa che non mi sembra sia,” ha scritto Bordone. Il punto è che questi episodi erano parte integrante di quelle carriere, anche se in modo invisibile, occulto: gli abusi si sono potuti compiere proprio grazie al potere legato al successo e alla fama. Si continua a ripetere che “i processi non si fanno in TV”: vero, ma la popolarità porta soldi e successo perché, in vario modo, la gente si fa un’idea di te, inizia a ritenerti speciale. Ed è proprio della gestione di questo potere carismatico che queste vicende ci parlano. Che se ne discuta pubblicamente mi sembra semplicemente organico, connaturato ai personaggi coinvolti. Viviamo nell’epoca dalla sovraesposizione identitaria: che c’è da stupirsi? Nella maggior parte dei casi poi le abitudini di questi molestatori celebri erano ben note nell’ambiente, anche se tutti tacevano e insabbiavano. Più che una caccia alle streghe, sembra si sia creata ora l’occasione per mettere in chiaro le cose. Ed è naturale che adesso, anche se in ritardo, le conseguenze di quegli atti ricadano anche su ciò che in passato li ha permessi e alimentati: la fama, i soldi, il prestigio.
Il comico Louis C.K. ha diffuso un mea culpa che in molti hanno apprezzato: “Se hai del potere una domanda può essere vissuta come un’imposizione”. È spesso il contesto relazionale che crea l’abuso: abuso che in alcuni casi sarà perseguibile penalmente, ma che in ogni caso può essere raccontato, anzi deve essere raccontato, per spezzare il circolo vizioso della paura. Ognuno prenda la posizione che vuole ma parlare di sessuofobia non ha proprio senso. Non è la fobia del sesso a legittimare quest’ondata di denunce: è semmai l’indignazione verso chi usa il sesso per sottomettere quelli che si trovano in una posizione di inferiorità.
È arrivata l’occasione – fruttuosa o meno si vedrà – per dire che i provini in camera da letto non riceveranno più (si spera) la copertura che finora è stata loro offerta da un sistema fondato su terrore e omertà. Molte e molti stanno parlando solo ora perché adesso la gente si sente al sicuro, protetta dalla visibilità. Le denunce pubbliche aiutano a fare gruppo: rendono visibile chi l’ha già fatto e incentivano a liberarsi di un peso che si pensava di dover sotterrare per il quieto vivere. È bene, anche per le nuove generazioni, chiarire – e a caratteri cubitali – che nessun maschio, etero o gay che sia, può permettersi atteggiamenti da padrone: non è normale, non si può fare. E se succede denunciare dev’essere facile, sicuro. Qualsiasi cosa ne dicano i nostri opinionisti appassionati di cinema e serie TV.
Foto di copertina: Domenica Melillo