C’è una cosa che amo particolarmente dell’Italia e non è né il cibo, né le spiagge e nemmeno il suo patrimonio artistico – tutte cose stupende, sia chiaro – ma la convinzione e la determinazione con cui ognuno di noi, più o meno, è disposto a difenderne la superiorità quando si tratta di metterle a confronto. Non mi è mai capitato di conoscere un mio connazionale che non avesse qualcosa di incredibile da offrirmi originario della sua città, del suo borgo sperduto, della sua regione: in ogni angolo del Paese ci sarà sempre qualcosa da proporre, che si tratti di un formaggio o di pietre disposte in un qualche modo particolare dagli antichi greci. Anche quando questo sentimento da membro onorario della Pro Loco diventa in qualche modo competitivo – dal più classico degli scontri tra Roma e Milano, ai duelli linguistici sui generi di appartenenza dei prodotti di rosticceria ripieni di riso e ragù – trovo che ci sia una spinta divertente e folkloristica di un sentimento nazionale che nonostante le mille differenze alla fine ci rende tutti simili. Sfidarsi sulla bellezza con ironia – e soprattutto autoironia – non ha niente di nocivo, anzi, sottolinea la storia frammentata e complessa del nostro Paese. L’Italia però, proprio per questa sua storia così particolare, si porta da un secolo e mezzo il peso di una discontinuità di sviluppo troppo grande per far finta che non esista più, e trovo che sia molto emblematico che oggi, con la pandemia ancora in atto, il livello del discorso pubblico rispetto a ciò che sta succedendo ed è successo negli ultimi mesi sia ridotto dall’idea fuorviante che esista un “sentimento anti-lombardo”.
Come tutti sappiamo molto bene, rispetto al resto d’Italia il coronavirus ha colpito in modo incredibilmente più forte la Lombardia, che tutt’oggi detiene il triste primato di contagi e morti. Ricordo bene quando la notizia dell’ormai dimenticato paziente uno, il trentottenne di Codogno, ha invaso i nostri notiziari: mi trovavo a Milano per lavoro, come capitava spesso prima del lockdown, e dovevo prendere un treno per tornare a Roma. Alla stazione Centrale l’atmosfera era spettrale, le persone si coprivano il volto con la sciarpa mentre i microfoni annunciavano il cancellamento di alcune corse. Tornando nella capitale, parlando con i miei genitori al telefono, nessuno da lontano in quel momento sembrava cogliere davvero quel senso di angoscia che ha finito per attanagliarci da ormai molte settimane.
Chi ha vissuto in Lombardia questi ultimi mesi ha avuto una percezione di ciò che è stata questa pandemia per l’Italia decisamente diversa dagli altri, e se da un lato possiamo solo essere grati che il contagio non si sia diffuso così tanto nelle regioni che pensavamo meno pronte da un punto di vista sanitario, dall’altro dobbiamo tutti, indistintamente, pretendere di conoscere le ragioni per cui la “locomotiva d’Italia” non ha retto a questo colpo come ci si sarebbe aspettati. Detto questo, trovo che sia a dir poco miserabile porre i termini della questione su una battaglia di Schadenfreude, che sposta per l’ennesima volta il focus dalle vere ragioni che hanno determinato ciò che è successo: così come i runner, i “furbetti” della quarantena, i giovani assassini promotori della movida armati di Spritz non sono i reali responsabili di ciò che è accaduto ma solo degli spaventapasseri per concentrare rabbia e impotenza verso un obiettivo comodo e innocuo, allo stesso modo non si può fare l’errore di trasformare un senso di legittima e sana indignazione nei confronti di una gestione politica scellerata in un sentimento di odio campanilista.
La deresponsabilizzazione verticale che abbiamo avuto modo di osservare durante i mesi di lockdown e nel periodo in cui ci troviamo al momento, è infatti un tema cardine della pandemia di COVID-19. Leggere interviste, editoriali e opinioni di personaggi stimabili e culturalmente preparati come giornalisti con lunghe carriere alle spalle che si avvalgono della tesi secondo cui in Italia saremmo tutti contro la Lombardia, come se si trattasse di una squadra di calcio per cui tifare, mi sembra l’ultimo tassello di questo puzzle allucinante di informazioni contrastanti e piani d’azione contraddittori a cui abbiamo assistito e di cui siamo stati vittime.
Per analizzare la questione si può partire dal momento in cui, all’inizio dell’epidemia molti meridionali frettolosi sono scappati da Milano. Al di là della facile indignazione che è seguita bisognerebbe chiedersi come mai migliaia di persone abbiano preferito tornare alla propria terra d’origine invece di affrontare una quarantena nella città dove vivono e lavorano: un gesto sconsiderato e irresponsabile, ovvio, ma anche molto emblematico. Se nel panico suscitato da una situazione ignota e pericolosa così tante persone preferiscono “fuggire” verso quella che evidentemente considerano casa propria, probabilmente è anche dovuto al fatto che la maggior parte di loro non sente che la città che li ospita sia un luogo familiare e sicuro. Una città che, come è ben noto, offre sì lavoro e opportunità a chi sa trovarle, ma che impone anche costi di vita elevatissimi rispetto al resto d’Italia – basti pensare agli affitti – e che si trasforma per molti solo in una sorta di ufficio a cielo aperto, niente a che vedere con un luogo di accoglienza, ma solo l’unica alternativa possibile a una situazione di partenza di svantaggio irrecuperabile, come quella di tante zone del Sud Italia, in cui semplicemente il lavoro non c’è. Il “sentimento anti-lombardo” – di cui si riempie la bocca chi vuole spostare l’attenzione dal vero sentimento di incredulità e indignazione che dovremmo avere tutti noi italiani verso una gestione regionale vergognosa dell’emergenza sanitaria – altro non è che una reazione spontanea e automatica nata dalla subalternità che vive una parte dell’Italia rispetto a un’altra.
“Invidia sociale”, trame della sinistra contro l’industrializzazione e la ricchezza, meridionali che non vedevano l’ora di sputare sul piatto in cui mangiavano, abbiamo sentito diverse scuse. Quella della sinistra non è invidia né disprezzo per il benessere, ma una semplice logica di riscatto redistributivo nei confronti dell’accentramento della ricchezza; un sistema che porta – come emerge da ciò che è successo e succede da sempre in Lombardia, al prevalere dispotico di pochi e raramente buoni – non mi sembra il caso di riesumare il Cavaliere e le sue prodezze. Rossana Rossanda, una politica e scrittrice esemplare, nel suo libro La ragazza del secolo scorso racconta proprio la Lombardia delle fabbriche, delle lotte operaie, dei circoli del Pci, dello sforzo di un sogno che molti come lei coltivavano in un periodo della storia in cui questo tipo di alternativa era considerata ancora viva e plausibile. Dunque Milano non è solo la città del ricco bauscia, ma anche quella degli uomini e delle donne che fanno i lavori più duri senza ottenere niente, pur avendo reso possibile coi loro sacrifici questo sogno di sviluppo. La gratitudine verso una terra che ti accoglie, però, non può essere una scusa per far accettare un sistema dispari, basato su stereotipi anacronistici per cui se da un lato si fanno le cose serie, dall’altro si batte la fiacca e al massimo si va per le spiagge, il sole, la bella vita. È un modello che, come abbiamo visto tutti chiaramente, ha dei buchi enormi che si sono manifestati uno dopo l’altro in modo drammatico, proprio sulla regione più colpita d’Italia.
Se Milano è la città del progresso, dello sviluppo e dell’accoglienza, una sorta di piccola America, non si può ignorare il fatto che la Lombardia, quindi tutto ciò che sta attorno al capoluogo, è a gestione della Lega Nord. Attilio Fontana, che dal 2018 governa la regione e che ha inaugurato la sua carica con affermazioni sulla razza bianca e sulla volontà di difenderla dalla minaccia degli immigrati è ormai da diversi mesi al centro della bufera per quanto riguarda la lunga sfilza di errori commessi nella gestione dell’epidemia. Proprio in questi giorni, tra le altre cose, è emerso infatti un altro capitolo controverso della gestione di Fontana che riguarda una fornitura di camici per un valore di mezzo milione assegnata senza nessun appalto all’azienda di suo cognato, che ha detto essere stata fatta “a sua insaputa”. Un’inchiesta portata avanti dalla trasmissione Report e che, anche in questo caso, ha subito stimolato una reazione vittimista da parte del Presidente della Regione che, sulle note dell’ormai classico paravento del “sentimento anti-lombardo”, ha detto di essere bersaglio della Rai, aggredito da un piano nazionale volto a smantellare la sua giunta. Una giunta di cui fa parte anche Giulio Gallera, l’assessore alla Sanità e al Welfare che che nel corso di pubbliche dichiarazioni ha fatto emergere come non possieda le basi di conoscenza scientifica indispensabili per poter comprendere lo sviluppo del contagio, avallando una tesi a dir poco personale sull’indice di Rt. E questa non è “solo una gaffe”, ma qualcosa di ben più grave: errori di questo tipo possiamo aspettarceli da una conversazione al Bar Sport, non da un politico che ha in mano la gestione della regione d’Italia più colpita dal COVID-19. Per non parlare poi dell’amministrazione delle Rsa, per cui Fontana ha dichiarato di non avere alcuna responsabilità, o della poca trasparenza sui dati comunicati, limitando l’accesso ai documenti ufficiali, o ancora dei tamponi, per cui serve un discorso a parte. Questi errori hanno inciso sulle sorti delle tante persone colpite dal virus in questa Regione.
Ormai è chiaro che non ne siamo usciti migliori, non avremo nessuna epifania di fratellanza e rispetto, e non si potranno riparare gli errori che hanno fatto sì l’Italia diventasse un simbolo negativo di questa pandemia, sebbene in ottima compagnia tra Regno Unito, Stati Uniti e Brasile. Appellarsi al sentimento anti-lombardo, per nascondere le proprie malefatte sotto la coltre del vittimismo è un po’ fare riferimento al razzismo al contrario, dopo secoli di abusi di potere. Continuare a cavalcare stereotipi e guerre intestine per distrarre l’attenzione mediatica dalle responsabilità – specialmente di alcuni partiti che hanno fondato la loro identità sul razzismo e sul disprezzo per una parte dell’Italia – non solo è deleterio, ma è anche imbarazzante. D’altronde molte persone adulte e senzienti che si occupano di politica in Italia sembrano avere un’idea piuttosto sfumata della dignità.