Accuse ritirate, tanti accordi di patteggiamento e molte assoluzioni nei casi in cui gli agenti, anche grazie alle testimonianze favorevoli dei colleghi, riuscivano a dimostrare di aver usato la forza solo perché la situazione non lasciava alternative. Negli Stati Uniti le condanne agli agenti di polizia per il loro comportamenti violenti e arbitrari verso la popolazione afroamericana negli ultimi dieci anni si contano sulle dita di una mano. È facile quindi immaginare perché la condanna di Derek Chauvin – dichiarato colpevole di omicidio di secondo grado, di omicidio di terzo grado e di omicidio colposo di secondo grado – sia considerata già solo per questo una vittoria da chi chiede giustizia per un uomo ingiustamente ucciso, ma anche per tutti coloro che sono stati vittima della violenza ingiustificata della polizia e non sono riusciti a dimostrarlo davanti alla corte di un tribunale.
Negli Stati Uniti il fenomeno è tutt’altro che sporadico. Succede e continua a succedere soprattutto ai neri, anche davanti a un’opinione pubblica impotente e indignata, come dimostrano i fatti accaduti a pochi chilometri di distanza dalle aule di tribunale di Minneapolis in cui si stava svolgendo il processo a carico di Derek Chauvin. Daunte Wright aveva appena 20 anni quando l’11 aprile la polizia di Brooklyn Center, in Minnesota, gli ha sparato involontariamente, confondendo la pistola in dotazione con il teaser che avrebbe voluto usare per immobilizzarlo durante un controllo stradale, dopo aver scoperto che non si era presentato in tribunale per un’udienza in cui era accusato di reati minori. Un tragico errore che ancora una volta, come nel caso più eclatante di George Floyd, morto per soffocamento mentre chiedeva aiuto perché non riusciva più a respirare, è stato compiuto a danno di un uomo nero da un agente di polizia bianco.
Perché allora Floyd ha avuto giustizia e molti altri no? In questo caso gli stessi agenti del corpo di polizia di Minneapolis – come quasi mai nella storia era accaduto, visto che le forze di polizia statunitensi sono composte per il 78,7% da agenti bianchi, come Derek Chauvin – hanno testimoniato contro i propri colleghi ammettendo che quello che era stato compiuto non era un errore di valutazione, né tanto meno legittima difesa, ma un atto di deliberata e irresponsabile violenza. Nelle settimane che hanno preceduto l’arrivo del verdetto del processo con imputato Chauvin, i giornalisti del New York Times hanno passato in rassegna decine di altri casi simili accaduti non cento, non cinquanta, ma solo 5 o 10 anni fa. Episodi di scontro violento fra agenti di polizia e cittadini afroamericani finiti in tragedia o con gravi conseguenze mediche, ma quasi mai con una condanna penale, anche quanto le vittime erano disarmate.
Il caso forse più eclatante di violenza a carico di un uomo nero disarmato che non aveva nemmeno opposto resistenza durante il fermo si è verificato nel marzo 1991 a Los Angeles, in California. Rodney King, che guidava in stato di ebbrezza e non si era fermato alle richieste della polizia di Los Angeles, fu vittima di un pestaggio estremamente violento che costrinse a ricoverarlo in ospedale con 11 fratture al cranio e un rene compromesso. La scena fu ripresa con una telecamera amatoriale da una persona che viveva nella zona in cui avvenne il pestaggio, ma anche di fronte a una prova simile il dipartimento della polizia di Los Angeles si rifiutò di prendere in considerazione il documento. Il caso fu aperto solo dopo che il video venne reso pubblico dai media. Il dipartimento, nonostante questo, non ammise mai il fatto e al processo gli agenti furono assolti, provocando tra il 29 aprile e il 4 maggio 1992 le proteste violentissime passate alla storia come i Los Angeles Riots, che scossero l’opinione pubblica statunitense come non era mai successo prima di allora.
Tutto questo accadeva prima dell’avvento degli smartphone e la vittima era sopravvissuta all’assalto ingiustificato dei poliziotti, ma è evidente che non è solo l’enorme indignazione dell’opinione pubblica davanti a un episodio simile ad aver decretato da sola un finale differente per il caso Floyd. La sua morte e il successivo movimento di opinione che ha scatenato sembrano aver abbattuto quello che gli statunitensi chiamano “the blue wall of silence”, il tacito principio secondo cui in caso di incidente un poliziotto ha il dovere morale di coprire le spalle ai colleghi o quantomeno tacere. La sentenza di condanna dell’ex poliziotto di Minneapolis è importante storicamente perché è una delle prime volte in cui, dopo un primo goffo tentativo di copertura, il comando di polizia ha invece deciso di collaborare con un gran numero di suoi membri, che hanno testimoniato contro il collega sotto accusa, ribaltando il codice d’onore fra agenti secondo il quale gli errori, le mancanze e le scorrettezze non si denunciano per principio.
Il primo comunicato stampa emanato dal comando di Minneapolis il 25 maggio 2020 sembrava però andare nella consueta direzione: negare la violenza gratuita, affermare che si era trattato di un incidente e invocare la legittima difesa dell’agente coinvolto. Nelle dichiarazioni ufficiali si affermava quanto poi il processo ha stabilito essere falso, ovvero che Floyd stesse “resistendo fisicamente agli agenti” e che l’ambulanza fosse stata chiamata non appena era stata notata una “condizione di sofferenza fisica” della persona ammanettata. Prima del precedente creato dal caso Floyd si può dire che l’impunità garantita agli agenti di polizia violenti fosse sistemica, che fosse una modalità con cui questi proteggevano se stessi ritenendosi “i buoni” sempre e comunque, al di là di ogni sospetto.
Non basta un caso a cambiare una mentalità profondamente radicata, figlia della cultura Wasp su cui si fondano si fondano gli Stati Uniti d’America. Una cultura in cui i bianchi sono per natura buoni perché portatori di civiltà e moralità, mentre le minoranze sono destinate a cadere nel peccato più facilmente in quanto non appartenenti al gruppo dei “predestinati” a portare democrazia e civiltà nel nuovo mondo.
Ora Derek Chauvin rischia dai 12 ai 40 anni di prigione. L’accusa ha chiesto che venga applicata la pena più severa per via della crudeltà dell’atto e per l’abuso di potere che ha rappresentato. La sentenza verrà comunicata fra un paio di mesi, ma la sua attesa ha già messo in moto negli Stati Uniti alcuni cambiamenti, guidati dal movimento per i diritti civili “Black Lives Matter”. Il più importante è sicuramente la volontà espressa dal presidente Joe Biden di voler tornare sul “George Floyd Justice in Policing Act”, la proposta di legge che la Camera aveva avanzato nel giugno 2020 e che era poi stata bloccata al Senato dai Repubblicani.
Biden ha spiegato di voler mettere mano a una legge che oggi vede la grandissima parte dei corpi di polizia degli Stati Uniti ricadere sotto l’autorità delle istituzioni locali, cittadine, distrettuali e statali, invece che di quelle federali. Il nuovo sistema vorrebbe promuovere alcune importanti novità fra cui il divieto di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine e una revisione dei regolamenti che prevedono la cosiddetta “immunità qualificata” per le forze dell’ordine, il divieto a livello federale (e quindi valido in tutti gli Stati e a tutti i livelli) di applicare manovre di strangolamento durante gli arresti, in quanto violazione dei diritti civili, e l’istituzione di un registro nazionale dei comportamenti illeciti della polizia gestito dal Dipartimento di Giustizia di Washington. Se queste novità dovessero essere approvate rappresenterebbero, come ha affermato Biden, “un passo da giganti nella marcia verso la giustizia negli Stati Uniti”. Un atto di giustizia verso George Floyd e tutti coloro che hanno subito lo stesso destino, oltre che per tutti quelli che potrebbero viverlo se il sistema restasse quello che fino a oggi ha tutelato le azioni violente di agenti come Derek Chauvin in tutti gli Stati Uniti.