Un pomeriggio di qualche settimana fa Freddy McConnell stava passeggiando con suo figlio SJ sul lungomare di Brighton, nel Sud dell’Inghilterra, quando un signore che passava di lì si è fermato e ha sorriso al piccolo chinandosi verso di lui: “Avete lasciato la mamma a casa a fare un riposino, eh? Buona passeggiata!”. Freddy ha sorriso, così come il piccolo SJ, che si è subito rimesso a correre, indaffarato com’era a canticchiare in una lingua tutta sua. Freddy è il padre di SJ, ma è anche la persona che lo ha partorito: alla domanda di quel signore non c’era, in effetti, una risposta adatta.
Freddy è un seahorse dad, come si autodefiniscono gli uomini trans (“female to male”) che scelgono di intraprendere una gravidanza. Seahorse dad significa “papà cavalluccio marino”: il cavalluccio marino è infatti il simbolo dei papà trans, perché in natura è il maschio dell’animale a portare le uova nella propria tasca incubatrice fino al momento della nascita. Freddy è nato con un apparato riproduttivo femminile e ha poi intrapreso un percorso di transizione, intervenendo chirurgicamente sul proprio corpo tramite la mastectomia ma conservando l’utero. Quattro anni dopo ha interrotto la somministrazione di testosterone, poi ripresa dopo la gravidanza, per concepire e partorire suo figlio. Sulla storia di Freddy è uscito anche un bel documentario nel 2017, intitolato Seahorse: The Dad Who Gave Birth e diretto dalla documentarista britannica Jeanie Finlay.
La storia di Freddy è quella di tanti altri, e forse non esiste storia migliore per pensare che la distinzione tra uomo e donna non sia poi un passaggio così netto e che le categorie a cui siamo abituati non bastino più a descrivere la realtà. La comunità LGBTQ+ dà molta importanza alla visibilità come strumento di consapevolezza, e dunque ai social media e alla rete. Interagendo tra loro sui social network, aprendo blog o canali Youtube (qui, qui, qui e qui ne trovate alcuni), i seahorse dads raccontano cosa significhi vivere la maternità come uomini trans, in che modo la gioia di costruire la propria famiglia porti con sé un rapporto complicato e spesso conflittuale col proprio corpo e come essere un papà trans porti a oscillare tra l’invisibilità e la spettacolarizzazione. I loro racconti sono accomunati soprattutto dalla condivisione di alcune ricorrenti difficoltà, legate al binarismo di genere che caratterizza la società.
I seahorse dads, per esempio, pensano che ci sia una grave mancanza di informazione medica sulla loro possibilità di procreare, perché gli stessi medici non prendono in considerazione che un uomo trans possa decidere di concepire un figlio. Spesso hanno scoperto per caso di poter concepire e portare a termine una gravidanza. A volte i medici che si occupano del percorso di transizione danno per scontato che una donna che diventa uomo non desideri procreare e al tempo stesso, per seguire i protocolli, suggeriscono di sottoporsi a isteroctomia (la rimozione dell’utero).
Per questa ragione Trystan Reese, un seahorse dad americano che vive col compagno e i tre figli a Portland, ha creato Trans Fertility, un portale online che insieme ad altri diffonde informazione e ricerca sulla fertilità trans. Su Instagram la loro pagina organizza eventi mensili sulla gravidanza trans: questo mese l’ospite è Kayden X Coleman, un seahorse dad Nero di New York che ha due figlie, Azaelia e Jurnee, e organizza a sua volta eventi informativi sulla gravidanza trans. “C’è molta disinformazione e stigmatizzazione della fertilità trans, nonostante la disponibilità di ottima ricerca medica sull’argomento”, scrive Trystan Reese, che ha concepito suo figlio Leo dopo 15 anni di terapia ormonale col testosterone. Molti seahorse dads raccontano infatti che è stato detto loro che il trattamento ormonale col testosterone avrebbe compromesso la loro fertilità, solo di recente la ricerca medica ha cominciato a indicare il contrario.
Un’altra difficoltà, per molti, riguarda il mancato riconoscimento della propria identità di genere sui documenti dei figli. Dopo la transizione gli uomini trans possono aggiornare i loro documenti personali con la nuova identità di genere, ma si vedono comunque registrati come “madre” sui certificati di nascita dei figli, perché fino a ora nessuno ha contemplato l’idea che un uomo possa partorire. L’incongruenza tra i documenti crea problemi di vario tipo: outing forzati e mancanza di privacy, spesso discriminazione, in alcuni casi impossibilità di viaggiare. Come ha sottolineato Transgender Europe (TGEU), organizzazione non governativa fondata nel 2005 a Vienna per i diritti delle persone transgender, casi legati a questo problema emergono sempre più frequentemente nei tribunali europei. L’anno scorso lo stesso Freddy McConnell ha portato avanti una battaglia legale per vedersi riconosciuto come “padre” sui documenti di SJ e per la definizione di “maternità” come la condizione di gravidanza e parto indipendentemente dal sesso di nascita. Anche se Freddy ha perso la causa, la sua storia e quella di tanti altri seahorse dads ci obbliga a ripensare i parametri con cui definiamo il concetto di maternità e di paternità.
I seahorse dads, infine, raccontano anche difficoltà meno pratiche, legate invece all’immaginario e alla cultura binaria con cui le nostre società concepiscono la maternità. Nelle sue storie su Instagram, per esempio, Freddy parla del linguaggio poco inclusivo negli ospedali: per quanto la sua gioia di star costruendo una famiglia fosse più forte della disforia, per lui la gravidanza ha significato “essere quasi sempre travisato rispetto alla mia identità di genere”. Questo non ha riguardato tanto i comportamenti delle persone singole – Freddy racconta infatti di aver avuto un’ottima esperienza con il personale medico e infermieristico – quanto la cultura in senso più ampio: “tutto quello che è scritto, tutto quello che è online, tutto quello che ti circonda sembra semplicemente non riguardarti, e anche solo un minimo di consapevolezza in più sulla gravidanza degli uomini trans potrebbe fare un’enorme differenza”. Un linguaggio più inclusivo e meno connotato dal punto di vista del genere potrebbe aiutare anche perché, per molti uomini trans, la gravidanza comporta un aumento della disforia di genere. L’interruzione del testosterone necessaria al ritorno dell’ovulazione, infatti, fa regredire la mascolinizzazione del corpo, ammorbidendo la pelle, arrotondando le forme dei fianchi e del viso, e diradando la peluria. Anche se non è così per tutti, per alcuni l’interruzione del testosterone durante la gravidanza è un piccolo inferno da attraversare, un “essere riportato costantemente in un luogo dove non vuoi tornare”.
Per risolvere questo problema un ospedale di Brighton ha recentemente introdotto nei reparti maternità alcune linee guida per rendere più inclusivo il proprio linguaggio, utilizzando parole come “genitore partoriente” (birthing parent) o “allattamento al petto” (chestfeeding). Questa decisione ha però scatenato un dibattito molto acceso in ambiente femminista: molte donne – le femministe radicali note come TERFs, cioè Trans Exclusionary Radical Feminists – si oppongono a queste decisioni, che considerano un tentativo di cancellare le donne dalla sfera pubblica. In un post su Instagram dell’estate scorsa Trystan Reese ha scritto: “Non so come spiegare alle donne che io non sono una minaccia per loro. Che la mia capacità di riprodurmi non toglie nulla alla loro. Che la mia volontà di affermare la mia presenza negli spazi legati al parto non è un attacco”, che “anche io posso dare la vita, e che la mia consapevolezza di me come uomo non toglie nulla a loro”.
In Italia, la realtà dei seahorse dad è sostanzialmente invisibile. La legge che regola la rettificazione di attribuzione di sesso è la legge 164, del 1982, e solo nel 2015 la Corte Costituzionale l’ha modificata stabilendo che il trattamento chirurgico non era più un requisito necessario per il cambio dell’identità di genere all’anagrafe – fino a due anni fa ancora obbligatorio in 19 Paesi europei. Questo requisito era molto controverso perché, di fatto, equivaleva a una vera e propria sterilizzazione. Per questo motivo, campagne come Un altro genere è possibile, organizzata dal Movimento Identità Transessuale (MIT), hanno duramente combattuto per la sua abolizione. “Vorremmo comunque una legge completamente nuova”, mi ha detto Christian Leonardo Cristalli, che insieme a Milena Bargiacchi fa ora parte dell’associazione bolognese Gruppo Trans e che ha preso parte alla campagna del MIT, “Una legge che dica in modo più chiaro e specifico che l’intervento chirurgico non è obbligatorio e che, in generale, superi la patologizzazione del mondo trans per cui è necessaria una diagnosi per il riconoscimento legale della propria identità di genere”.
Per ora, la realtà dei seahorse dad è ancora largamente sconosciuta in Italia, un Paese in cui la transfobia è un problema serio e radicato, il che non incoraggia i seahorse dad esistenti a raccontarsi e a rendersi visibili. Conoscere la realtà dei seahorse dads significa anche capire come la rete e i social abbiano permesso a questa comunità di diventare unita e sempre più consapevole rispetto ai propri strumenti. “Il mio obiettivo quando ho deciso di raccontare la mia storia era di aprire delle porte”, scrive Trystan Reese, “non ero sicuro di esserci riuscito, ma poi mi sono trovato in una stanza piena di altri compagni trans, a fare un workshop sulla fertilità trans in un centro LGBT di San Diego”. Trystan racconta che un ragazzo tra il pubblico lo ha ringraziato perché senza la sua condivisione non avrebbe trovato il coraggio di costruire una famiglia, di capire che non era solo e c’erano altre persone come lui. Ce ne sono tante altre di storie come queste, storie che ci spingono a riflettere e a riconsiderare una serie di categorie con cui diamo forma ai nostri pensieri, alla vita sociale e alla famiglia.