Hanno ancora senso le scuole private?

Negli ultimi anni le scuole private hanno subito un calo di iscritti, che tra 2012 e 2016 è stato del 13%, con la chiusura di oltre 400 istituti complessivi. Nell’attuale penuria di concorsi, poi, si sono trovate senza insegnanti abilitati, dovendo così assumere personale sulla sola base del colloquio, contrariamente a quanto previsto dalla legge. Ma c’è spesso confusione: in questo tipo di calcoli si considerano senza distinzione sia le scuole private che quelle paritarie. Le prime, raccolte in elenchi aggiornati ogni anno, non possono rilasciare titoli di studio con valore legale né attestati con valore di certificazione legale, per cui gli studenti devono sostenere degli esami di idoneità al termine di ogni ciclo di istruzione per trasferirsi in una scuola statale. Le paritarie, invece, sono quelle la cui parità rispetto alle scuole statali è riconosciuta, svolgono un servizio pubblico e possono essere a gestione privata o pubblica; sono paritarie a gestione pubblica, ad esempio, le scuole dell’infanzia non statali e le scuole comunali di altri ordini, come il Liceo Manzoni di Milano, retaggio di un tempo in cui i licei comunali erano numerosi. La crisi riguarda per lo più le private e in particolare quelle a gestione religiosa. Da anni, infatti, sono in calo gli italiani che si dichiarano cattolici e soprattutto i praticanti, salvo poi difendere strenuamente la presenza del crocifisso nelle aule. I difensori della scuola privata si appellano alla libertà di scelta delle famiglie e alla libertà educativa, che in realtà non è necessariamente garantita dalle istituzioni private, che possono applicare i propri principi al momento di assumere insegnanti e di accettare le iscrizioni.

In un contesto di crisi generalizzata del settore, in proporzione aumentano leggermente gli iscritti con genitori stranieri. Le famiglie di origine non italiana che possono permetterselo preferiscono sempre di più le scuole private, che evitano loro i ritardi nel percorso scolastico che i ragazzi di origine straniera – per difficoltà vuoi linguistiche, vuoi di integrazione – hanno con più probabilità nella scuola statale, o perché ci tengono che i figli imparino bene le lingue straniere, in modo da poter abbandonare l’Italia senza problemi per andare a studiare all’estero e radicare la propria vita in un Paese che garantisce loro più sicurezze. Nell’anno scolastico 2017-2018 gli studenti con cittadinanza non italiana con un percorso di studi irregolare, segnato da ritardo, erano il 30,7%, contro il 9,6% degli gli studenti italiani. Il massimo divario si riscontra nella scuola secondaria di secondo grado, dove le percentuali sono rispettivamente del 58,2% e del 20%, secondo i dati raccolti dal rapporto del Ministero Gli alunni con cittadinanza non italiana, pubblicato a luglio scorso. I genitori stranieri, volendo integrare i propri figli con maggiore successo, sono attirati, probabilmente, dall’esclusività delle cerchie sociali offerta dalla frequentazione di una privata e dalla minore incidenza di bocciature e incidenti di percorso di questa rispetto alla scuola pubblica e sono disposti a fare anche grandi sacrifici per far sì che i figli le frequentino, in nome di un possibile miglioramento della loro condizione.

Nonostante, infatti, le scuole private debbano garantire lo stesso grado di istruzione fornito dallo Stato, sono frequenti i trasferimenti alla privata di studenti bocciati nella statale e che hanno alle spalle percorsi di studio non lineari, cosa che spiega il picco di iscritti alle paritarie nel quinto anno di superiori. La media dei voti finali degli studenti nelle paritarie è più alta di quelli delle statali alle elementari e alle medie, mentre alle superiori la situazione è ribaltata, perché le secondarie private accolgono, appunto, molti alunni con difficoltà, che vogliono evitare la bocciatura, il cui rendimento abbassa la media complessiva. I voti in pagella, però, non sempre sono indicatori affidabili: contano di più le competenze e i risultati raggiunti. E anche qui, per l’Ocse – contrariamente a quanto avviene in molti altri Paesi, dove le migliori performance scolastiche negli istituti privati sono legate allo status socio-economico di provenienza – in Italia la performance di lettura degli studenti propende nettamente a favore della scuola pubblica, dove anche il clima disciplinare è migliore; tanto che l’abbandono degli studi prima del diploma è maggiore tra studenti della privata, forse anche per ultimatum imposto dai genitori, che non vogliono continuare a sborsare denaro per la retta se il rendimento del figlio non migliora. 

L’accusa che spesso si è tentati di muovere alle scuole private – che siano, cioè, dei “diplomifici” che vendono il pezzo di carta senza troppi sforzi in cambio della retta scolastica – è stata parzialmente e involontariamente confermata dall’ex sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, che ha ricordato come negli ultimi anni siano stati chiusi circa 60 istituti proprio a seguito delle ispezioni che hanno riscontrato un eccesso di studenti agli ultimi anni rispetto ai pochi iscritti dei primi. Nonostante il calo di iscritti, infatti, in Italia circa uno studente su 20 frequenta una scuola paritaria o una privata non paritaria, con il record in Lombardia, dove frequenta questi istituti oltre l’11% degli studenti, sia in provincia di Milano che di Monza. A livello nazionale, la distribuzione demografica dei diversi istituti varia: i ragazzi delle scuole paritarie e private godono di una migliore posizione sociale, con almeno un genitore laureato nel 43,2% dei casi (più del doppio che tra coloro che frequentano gli istituti ministeriali) e un reddito familiare medio di oltre 25mila euro annui, contro i 15mila dei nuclei familiari dei ragazzi iscritti alle scuole statali.

Gabriele Toccafondi

Se alle superiori il (vero o presunto) minore impegno richiesto attira verso la privata, alle medie e alle elementari, invece, la scelta è dei genitori, che probabilmente la vedono come un ambiente più protetto ed esclusivo, dove i bambini sono più seguiti e dove anche chi ha qualche difficoltà o una personalità più fragile può trovare le giuste condizioni per imparare. Il sovraffollamento delle classi a cui spesso si assiste nella scuola statale, infatti, va da un massimo di 26-27 alunni nella primaria, ai 30 e più delle superiori, mentre le cifre nella scuola paritaria e privata possono essere la metà ed è, quindi, minore il numero di studenti per ciascun insegnante. È innegabile che le cifre delle scuole statali rendano più difficile il lavoro dell’insegnante e impossibile la reale inclusione di allievi con disabilità o difficoltà linguistiche, ragioni che hanno motivato una proposta di legge presentata lo scorso anno per risolvere il problema delle “classi pollaio”, una necessità confermata dal Documento di Economia e Finanza (Def 2019), che parla di politiche per limitare l’eccessivo affollamento delle classi.

Un altro fattore decisivo nelle scelte delle famiglie poi è sicuramente la maggiore disponibilità di orari prolungati e tempo pieno, più favorevoli ai genitori che lavorano. In certi casi, quindi, è una scelta quasi obbligata quella che fa propendere per gli istituti privati, che per alcune famiglie mettono una pezza alle lacune sociali lasciate dallo Stato.

Se in Gran Bretagna, dove le scuole private sono fortissime, elitarie e molto care, si è recentemente aperto il dibattito sull’opportunità della loro abolizione, in Italia l’istituzione della scuola privata, per certi versi in crisi, non è in discussione. Il centro della discussione è, se mai, il suo finanziamento. Mentre nella grande maggioranza dei Paesi europei le scuole private ricevono fondi statali – tanto che solitamente per le famiglie sono gratuite quanto quelle pubbliche – da noi l’articolo 33 della Costituzione vieta alla scuola privata di costituire un onere per lo Stato. Alcuni però pretendono che, non esplicitando il divieto di finanziamenti successivi, la norma si riferisca solo alla fase istitutiva di una nuova scuola, ma di fatto, proprio non essendo esplicito, il divieto sembra riferirsi alla scuola privata in toto.

Comunque sia – anche con lo spettro dell’incostituzionalità – i finanziamenti si fanno: da circa una decina d’anni le scuole paritarie (che possono essere, ricordiamo, a gestione pubblica o privata) ricevono quasi 500 milioni di euro, corrispondenti circa a 500 euro annui per singolo studente, come finanziamento. Lo Stato, infatti, grazie a queste scuole risparmia, dato che ogni studente di scuola statale gli costa circa 6mila euro annui, che invece nella privata sono pagati in gran parte dalle famiglie degli alunni, attraverso la retta. Ma se da un lato lo Stato risparmia, dall’altro deve farsi carico dei costi burocratici imposti dalle verifiche, dovendo vigilare su questi istituti. La sua priorità dovrebbe essere finanziare le sue stesse emanazioni, perché soddisfino le necessità di tutti i cittadini e raggiungano la massima qualità possibile, e solo successivamente occuparsi delle istituzioni private, se avanzano fondi. Ma nella situazione in cui ci troviamo le cose non stanno così, dato che lo Stato non riesce nemmeno a garantire a tutti l’accesso all’istruzione e ai servizi sociali pubblici, a partire da quelli per la prima infanzia.

I cittadini che scelgono per i propri figli la scuola privata, poi, non sempre fanno un un investimento valido, dato che da un lato non sempre hanno garanzia di un servizio di migliore qualità e dall’altro pagano due volte il diritto all’istruzione dei figli: attraverso le tasse e attraverso la retta scolastica. Se è innegabile che in alcuni casi le scuole private offrano servizi di alto livello, che purtroppo le scuole pubbliche oggi non riescono a garantire – con attività speciali, mense dal menù ben calibrato che usano materie prime biologiche, insegnanti madrelingua stranieri e visioni pedagogiche curatissime – in alcuni altri, però, le rette sembrerebbero andare a finanziare uno sconto sull’impegno richiesto agli studenti. Andrebbero corrette queste ambiguità, tra cui l’incoerenza tra l’articolo 34 della Costituzione (“La scuola è aperta a tutti”), rispettando il principio di gratuità e inclusività dell’istruzione, ed evitare la possibilità, almeno sulla carta, per i dirigenti delle scuole private di accettare o meno un’iscrizione, e di lamentare che la presenza “seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza”, come ha fatto lo scorso anno nel rapporto di autovalutazione dell’Istituto S. Giuliana Falconieri di Roma. Andrebbe anche ripensato il criterio del risparmio che le scuole private consentirebbero allo Stato, che non può sussistere davanti alla scarsità dei fondi per la scuola pubblica. I difensori dell’istruzione privata si appellano alla libertà di scelta delle famiglie, ma la libertà deve essere garantita dalla scuola statale, dove chiunque può andare, dove l’insegnante può essere di qualsiasi colore politico e fede religiosa e soprattutto avere le stesse qualità di quelli delle scuole privata. Nei fatti lo Stato lascia alla scuola privata libero campo dove lui non arriva, perdendo grosse opportunità, oltre alla fiducia dei cittadini.

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