Quattro miliardi: questo è quanto il governo prevede di risparmiare sulla scuola nei prossimi tre anni. Non sarà il taglio all’istruzione più clamoroso della storia della scuola italiana, ma è comunque un taglio. L’opposizione non ha dubbi nel definirlo così; anche alcuni sindacati sono piuttosto critici e si preparano già alla mobilitazione – altri sonnecchiano. Per il governo invece no, non ci sarà nessun risparmio: anzi, questa finanziaria spenderà per la scuola persino di più di quanto stava spendendo il governo Gentiloni.
Di fronte a due versioni tanto diverse, si tratta di scegliere: una delle due dev’essere falsa per forza. Qualcuno non dice la verità, il governo o l’opposizione. Un osservatore serio, distaccato, competente, dovrebbe riuscire a capire da che parte sta la ragione. Temo di non essere quel tipo di osservatore. Quella di cui si sta parlando in questi giorni non è la solita manovra discussa e sviscerata. Quella che è approdata alla Camera prima della pausa natalizia è un vero e proprio pacco-sorpresa, che i deputati della maggioranza hanno dovuto scegliere se prendere o lasciare – e chi ha lasciato è già stato espulso. Il dibattito sulla legge è stato, per forza di cose, più superficiale che in passato: anche gli addetti ai lavori hanno avuto meno tempo per sviscerare ogni comma; quel che comunque salta agli occhi, anche a un rapido sguardo, è che scuola e ricerca non sono stati individuati come settori strategici.
Anche se i finanziamenti non dovessero essere sensibilmente inferiori a quelli degli ultimi anni, non si può nemmeno dire che siano sensibilmente maggiori; e soprattutto manca il senso di una direzione: si tira a campare sperando che non crollino troppe scuole e non si facciano male troppi studenti e insegnanti. È un’evidenza che non sorprende nessuno, ma è utile confrontarla con le roboanti promesse elettorali di uno dei due partiti di governo, il M5S. Un anno fa Di Maio prometteva di abolire Buona Scuola e legge Gelmini: siamo ancora lontani. Niente più prove Invalsi: le prove sono ancora lì. L’alternanza scuola-lavoro sarebbe sopravvissuta soltanto su base volontaria: non è andata così. E più fondi, più assunzioni, più contratti a tempo determinato, non solo per gli insegnanti, ma anche per il personale non docente, una categoria molto spesso snobbata anche dai politici a caccia di voti, e che invece è fondamentale per il benessere di tutti i frequentatori delle scuole. A un certo punto il M5S aveva persino ventilato l’ipotesi di abolire i finanziamenti alle scuole private.
Forte di queste promesse, il M5S è andato alle elezioni e ha conquistato il voto di una parte sensibile dei lavoratori della scuola, molti dei quali delusi dal Pd ed esasperati da alcune assurdità burocratiche della Buona Scuola. Poi il M5S è andato al governo e al ministero dell’Istruzione ha installato un leghista, Marco Bussetti. Non l’ultimo arrivato, bisogna ammetterlo: per quanto il suo nome sia conosciuto dal grande pubblico soprattutto per una circolare in cui chiede agli insegnanti di assegnare pochi compiti per le vacanze, Bussetti ha fin qui dimostrato di saper procedere con la sua agenda. Che non è sicuramente l’agenda del M5S – per fare un semplice esempio: i fondi per le scuole private, sotto forma di bonus alle famiglie senza limite di reddito, sono rimasti invariati. La Lega è ormai il più antico partito politico italiano, con una più che ventennale esperienza di governo. È la prima volta che si insedia in un Ministero che evidentemente fin qui non aveva mai considerato strategico. Anche in campagna elettorale Salvini non si era particolarmente speso per le scuole: le sue priorità (le conosciamo tutti) erano la sicurezza, la flat tax, la rimessa in discussione della zona Euro. Il fatto che nella complessa trattativa primaverile l’istruzione sia finita nelle mani del partito a cui in teoria interessava meno, la dice lunga su quanto poco gli stessi eletti M5S credessero nelle loro promesse. La scuola pareva il fronte più sacrificabile.
Questo rende ancora più penosi gli affanni dei deputati pentastellati che in questi giorni cercano di spiegare una finanziaria che hanno appena finito di leggere, sforzandosi di trovare qualcosa di progressivo negli artifici contabili del ministero. Il tentativo più maldestro è quello di Luigi Gallo, presidente della Commissione cultura, scienza e istruzione, che chiede agli attivisti di condividere nelle università e nelle scuole un video interminabile, amatoriale, in cui cerca di sbugiardare i perfidi giornalisti e il perfido Pd accostando alla webcam numeri che restano sfocati e che comunque no, non gli danno ragione. Quando, dopo aver tergiversato per ben 7 minuti, si riduce ad ammettere che nei prossimi due anni è previsto un calo degli investimenti, si difende ricordando, letteralmente, che per quei due anni “non abbiamo ancora fatto la legge di bilancio”: insomma se i numeri non vi piacciono non disperate, magari l’anno prossimo li cambiamo. Salvo che nell’ufficio dove cambiano i numeri non c’è il povero Gallo, e difficilmente ci sarà l’anno prossimo. Lui al massimo può improvvisarsi youtuber di lotta e di governo: e mentre si sbraccia davanti alla webcam, qualcun altro nella stanza dei bottoni continuerà probabilmente a scegliere dove mettere i soldi. A Gallo e compagnia toccherà spiegare che tra breve le cose cambieranno, ci saranno più soldi per le università, per il tempo pieno anche a sud, e per riportare a casa i precari. Più di così non può fare né Gallo, né in generale la classe dirigente M5S: a chi non ha reali competenze di amministratore non resta che amministrare gli slogan (e amministrarli generosamente). La campagna elettorale permanente è una scelta obbligata, e non è detto che non continui a pagare ancora per un po’. Dopotutto si vota anche questa primavera, per le europee.
Per l’occasione voteranno anche gli insegnanti italiani, e sarà interessante verificare se il M5S avrà già dissolto il capitale di fiducia incassato con le elezioni di un anno fa. Se questo non succederà, non sarà soltanto per la fatica di ammettere di essersi illusi. Il fatto è che tutto sommato questa manovra non tocca gli insegnanti di ruolo; in compenso mantiene in un limbo vergognoso molti collaboratori scolastici e docenti a tempo determinato, tra cui quelli di sostegno. Tutto questo contribuirà a rendere più difficile la vita scolastica per tutti. Può darsi che nell’immediato i docenti di ruolo non ci facciano caso, e che si tratti di problemi, per così dire, sotterranei, che inquinano l’ambiente senza essere sempre percepiti: uno studente disabile che cambia ogni anno il docente di sostegno; o uno studente con abilità speciali che fino a quest’anno riusciva ad avvalersi di un insegnante di potenziamento che il prossimo anno perderà la cattedra; un’ala della scuola che dovrà fare a meno dei servizi (pure indispensabili) di un collaboratore. Le criticità che docenti e studenti avranno sempre davanti sono altre, e purtroppo in molti casi sono ancora identificate con la Buona Scuola di Renzi. La prova Invalsi, l’alternanza scuola-lavoro, i bizantinismi dei Piani Triennali e così via. Tutte queste cose, molte delle quali a ben vedere esistevano già prima dell’arrivo di Renzi, ma che con il lancio della Buona Scuola si sono per così irrimediabilmente incollate alla sua figura – in quel processo di personalizzazione della politica che alla fine ha reso Renzi colpevole anche di aberrazioni che non aveva né previsto né introdotto, ma nemmeno abolito. L’insegnante di ruolo che non capisce la necessità del Piano Triennale o della programmazione per competenze, tendenzialmente non se la prenderà con Di Maio, che pure aveva promesso di abolire tutto questo, per poi defilarsi.
Che lasci la politica o no – in questi ultimi giorni si direbbe di no – Renzi resterà ancora per qualche anno uno spauracchio inevitabile per i docenti italiani: lui stesso del resto ha ammesso più volte di avere sbagliato qualcosa sulla scuola. Anche se, non smette di ribadire, lui nella scuola ci credeva, e in effetti, a guardarla oggi, la sua riforma non era il solito pastrocchio di promesse elettorali e gestione al risparmio delle spese correnti, che continuiamo a fare i conti con lui. La sua Buona Scuola aveva un contenuto ideologico, era qualcosa di cui si poteva discutere e che si poteva criticare (in particolare la pazza idea di imporre un approccio manageriale ai dirigenti delle scuole dell’obbligo). Con leghisti e M5S c’è poco da dire: vogliono semplicemente mandare un po’ avanti la carretta senza spenderci troppo, ma neanche senza scontentare troppi elettori. È una missione quasi impossibile, ma se Bussetti resta a sorvegliare i conti, e se gli agit-prop del M5S continuano a difendere ogni sua scelta, può perfino funzionare.