A marzo del 2019 a San Donato Milanese, due ragazzini rispettivamente di origine marocchina ed egiziana, Ramy Shehata e Samir, riuscirono a chiamare il 112 sventando la tentata strage architettata dal conducente dell’autobus su cui viaggiavano con i loro professori e compagni di classe, intenzionato a dare fuoco al mezzo. Samir era già cittadino italiano, mentre per Ramy fu chiesta a gran voce la cittadinanza “onoraria”, che ottenne un mese dopo insieme a un altro compagno di classe, Adam El Hamami. L’idea che i diritti politici siano qualcosa che ci si deve meritare, magari con un atto eroico, è ancora molto diffusa nella nostra società spesso intrisa di preconcetti riconducibili al cosiddetto razzismo benevolo su come le minoranze si dovrebbero comportare per essere integrate. Ramy e Samir sono diventati per una manciata di giorni i “piccoli eroi egiziani”, non solo i perfetti “immigrati modello” (nonostante fossero entrambi nati in Italia), ma anche un esempio per gli altri bambini stranieri.
Secondo gli ultimi dati disponibili, riferiti all’anno scolastico 2017/2018, in Italia gli studenti senza cittadinanza sono circa 842mila (il 9,7% del totale). Il 63% di loro è nato nel nostro Paese, ma dovrà attendere il compimento dei 18 anni di età prima di essere considerato italiano anche dallo Stato. Negli ultimi 25 anni si è passati dallo 0,6% di alunni stranieri del 1995 al quasi 10% attuale, rendendo sempre più rilevante il tema dell’integrazione, tanto da rendere plausibili (anche se politicamente osteggiate, e quindi cadute nel vuoto) misure come lo ius culturae, cioè l’acquisizione automatica della cittadinanza italiana dopo il completamento di un ciclo scolastico di almeno 5 anni. La scuola è celebrata come il luogo dove questi bambini “diventano italiani” – non politicamente ma culturalmente –, cioè come la sede in cui le loro origini devono necessariamente passare in secondo piano nell’ottica dell’assimilazione culturale. A volte questo appiattimento si evolve in conflitto: i genitori di bambini musulmani che chiedono menù halal per la mensa scolastica vengono subito descritti dai media come gli “islamici in rivolta”, mentre per la Lega si tratta di una richiesta “dannosa” che “è tutto tranne che un segno di integrazione”, perché “chi sceglie l’Italia sposa le nostre tradizioni”.
Episodi del genere sono funzionali per riflettere sul ruolo che la scuola ha all’interno della società. Se già per i bambini nati da genitori italiani la scuola spesso si trasforma in un luogo dove si imparano soprattutto la disciplina e il rispetto delle regole, questo destino è forse ancora più segnato per i bambini nati da genitori stranieri: le aspettative su di loro sono duplici, perché oltre al rispetto verso l’istituzione scolastica questi alunni devono dimostrare anche di rispettare quelle che la Lega chiama “le nostre tradizioni”, per non essere percepiti come difficili o problematici. La cosa più auspicabile per uno studente straniero è che somigli il più possibile a uno studente italiano, che diventi indistinguibile e che le caratteristiche della sua identità vengano sospese fino a quando non torna a casa. Per questo alcune abitudini religiose, l’abbigliamento (specialmente l’hijab) e a volte persino una capigliatura diversi da quelli della cultura occidentale, bianca e cattolica vengono malvisti se non apertamente osteggiati nelle scuole.
La teorica e filosofa femminista bell hooks (pseudonimo di Gloria Jean Watkins), che per anni è stata anche un’insegnante, ha riflettuto molto su questa difficoltà di vivere ed esprimere un’identità diversa da quella dominante nel contesto scolastico. Nata negli anni Cinquanta, hooks fu educata nelle scuole segregate senza rendersi conto di cosa significasse per la sua educazione l’essere nera, almeno finché non si iscrisse in una scuola mista. Il conflitto che visse in prima persona si tradusse in una pedagogia molto particolare, illustrata nella raccolta di saggi Insegnare a trasgredire. hooks si ispira alle teorie di Paulo Freire, pedagogista brasiliano che per tutta la vita si oppose a quella che lui chiamava educazione depositaria, secondo cui l’insegnante ha il compito di depositare nell’alunno, come in una banca, le nozioni e le conoscenze, separando chi sa (ed è quindi migliore) da chi non sa. Di contro Freire credeva nella coscientizzazione, il principio per cui la conoscenza è un campo in cui ognuno ha un proprio ruolo, e l’apprendimento un percorso che si realizza insieme. E soprattutto si realizza attraverso la problematizzazione di tutti quei processi culturali e sociali che sono responsabili delle disuguaglianze e dell’oppressione.
L’esperienza diretta di hooks, che da un anno scolastico all’altro si ritrovò in una scuola “di bianchi”, è emblematica di ciò che si aspetta da una minoranza: la filosofa racconta che il processo di desegregazione fu fatto non mettendo in discussione i paradigmi razzisti delle scuole bianche, ma scaricando sulle spalle dei bambini neri la responsabilità dell’“integrazione”. La scuola per neri era stata chiusa, e così hooks e i suoi compagni dovevano svegliarsi un’ora prima per poter raggiungere quella che era stata loro imposta. Venivano lasciati nella palestra prima dell’inizio delle lezioni per evitare che nell’atrio si verificassero scontri e conflitti con quegli alunni bianchi che poi sedevano nel banco vicino al loro durante le lezioni. Lo stesso avviene ancora oggi nei confronti dei bambini di origine straniera: è a loro che viene chiesto di integrarsi, senza che nessuno si interroghi sugli sforzi che l’istituzione sta facendo nei loro confronti. Se ripenso a quando andavo a scuola io, dalle elementari alle scuole superiori, mi accorgo che non ho mai saputo nulla dei Paesi di origine dei miei compagni di classe, della loro storia e cultura.
All’università, che hooks frequentò all’inizio degli anni Settanta, durante la genesi degli studi culturali, la teorica per la prima volta si rese conto che la sua identità faceva parte del processo di apprendimento, e che poteva essere un oggetto di conoscenza. Se per lei questa fu la possibilità di sperimentare l’“educazione come pratica di libertà” – come la chiamava Freire – “per molte persone fu difficile accettare l’idea che il riconoscimento della differenza richiede anche la volontà di accogliere il cambiamento in classe […]. Ciò a cui assistettero non fu la confortante idea di ‘melting pot’ della diversità culturale, la coalizione arcobaleno in cui tutti erano uniti nella propria differenza con lo stesso sorriso rassicurante”.
Questa “fantasia colonizzante” della cancellazione delle differenze è debitrice di una società ossessionata dal rispetto delle regole. Le regole uniformano e omologano, ma sono anche l’espressione della classe e del pensiero dominante, senza contare che ne esistono anche di ingiuste. Dai bambini e dagli adolescenti di origine straniera ci si aspetta che siano ancora più osservanti di queste norme, perché scatta anche l’obbligo della gratitudine: siete abbastanza fortunati da essere qui nel nostro Paese, quindi dovete accettare senza riserve tutto, anche quello che ritenete ingiusto. Se è vero che la scuola deve essere anche il luogo dove si forma la coscienza civile, allora è necessario che si impari che anche le regole possono essere criticate e messe in discussione: questa idea fa parte di quel processo di coscientizzazione di cui parlava Paulo Freire. Per questo, osserva bell hooks, è necessario che la scuola insegni anche a trasgredire.
La pedagogia della libertà di cui parla la filosofa si basa su un concetto semplice quanto fondamentale: l’esperienza. Imporre a una studentessa musulmana di togliersi l’hijab quando fa educazione fisica, assegnare un nomignolo a uno studente perché il suo nome è “troppo difficile da pronunciare”, ritrarre su un libro di testo delle elementari un bambino con la pelle scura che dice “Io vuole imparare italiano bene” non significa integrare, né tantomeno far “diventare italiani”. Significa esercitare il privilegio di poter cancellare le esperienze di questi bambini, amalgamandoli nell’univoca categoria dello “straniero”. Nelle scuole italiane ci sono studenti originari della Romania (18,8%), dell’Albania (13,6%), del Marocco (12,3%) e della Cina (6,3%), Paesi che non potrebbero essere più diversi tra di loro, per non parlare degli “africani” – che quasi sempre concepiamo come una singola nazione e non un Continente con 54 Stati diversi al suo interno.
Ci ripetiamo in continuazione che i bambini non sono contenitori in cui riversare nozioni e che il ruolo della scuola deve essere quello di formare i cittadini di domani, ma continuiamo a non impegnarci abbastanza per mettere al centro le storie degli studenti attraverso quella coscienza problematizzante che ci mette in relazione con il potere. Perché essere bravi cittadini, a prescindere dalla propria origine etnica, non significa soltanto seguire le regole. A volte significa anche riconoscerne l’ingiustizia.