Ogni anno, alcuni milioni di studenti si siedono sui banchi di scuola in attesa di un’istruzione valida, come ci si aspetterebbe da diritto costituzionale, eppure chi dovrebbe impartirla spesso non è messo in condizione di esercitare al meglio il proprio lavoro. Le carenze strutturali della scuola italiana, infatti, sono anche legate ai problemi che affliggono il corpo docenti, che risulta essere tra i più bistrattati d’Europa.
Quello del vecchio professore non è uno stereotipo: i dati dimostrano che il corpo docente italiano è il più anziano d’Europa. Secondo l’annuale report Education at Glance, condotto nei Paesi dell’area Ocse, solo l’1% dei docenti italiani ha meno di trent’anni, e poco più del 40% ne ha meno di cinquanta. Più della metà degli insegnanti italiani, quindi, ha più di cinquanta o sessanta anni. Lo scompenso è particolarmente accentuato se prendiamo in considerazione il liceo: il 2% degli insegnanti ha fra i venti e i trent’anni, il 35% meno di cinquanta, e ben il 63% – praticamente due su tre – ha superato la mezza età.
Un quadro che ci restituisce la fotografia del sistema scolastico italiano, dominato dall’immobilismo e impossibilitato al naturale cambio generazionale, come molti altri settori. Nel frattempo ci sono migliaia di precari che aspettano settembre con un misto di sconforto e rassegnazione, terrorizzati all’idea di non vedersi assegnata una cattedra neanche quest’anno. Peggio ancora se la passano i neolaureati, che attendono il concorso ordinario, un’attesa che sembra essere vana, perché è quasi certo che verrà rinviato. Il ministro Lorenzo Fioramonti, a pochi giorni dall’insediamento, ha dichiarato che sta lavorando a un concorso straordinario per 24mila posti. Una soluzione d’emergenza che non risolve però i problemi strutturali dell’occupazione nel settore scolastico, e anzi testimonia la scarsa programmazione – a cortissimo raggio, frammentata come i governi che si susseguono – in tema di assunzioni pubbliche.
Alla fine dello scorso anno scolastico sono andati in pensione 42mila docenti, 22mila dei quali per effetto di Quota 100. Si stima che quest’anno ci siano 120mila cattedre libere, che verranno in gran parte occupate dalle supplenze e le assunzioni previste non sono certo sufficienti per compensare queste carenze. Fabrizio Manca, direttore dell’Ufficio scolastico del Piemonte, afferma che nella sua regione 8 insegnanti su 10 sono precari: “Da anni ci sono difficoltà nel trovare docenti in matematica e nell’area scientifica più in generale, ma si aggiunge un deficit anche in italiano, storia e geografia”. La situazione è così grave che non bastano più neanche le graduatorie d’istituto e molti presidi devono attingere ai neolaureati che hanno fatto la messa a disposizione, ma che chiaramente non hanno esperienza. Al di là di questo aspetto, però, la deriva più problematica sta nella segmentazione della didattica. Supplenze di qualche mese, o addirittura di poche settimane, e cattedre passate di mano in mano, fra supplenti con approcci diversi e con programmi che si accavallano, non contribuiscono certo a creare la situazione ideale per l’apprendimento.
Lo stesso problema si presenta in Lombardia. In provincia di Milano mancano 15mila professori di ruolo, anche in questo caso si tapperanno i buchi con le supplenze. Per Calogero Buscarino, coordinatore provinciale della Gilda degli insegnanti, quello che manca è “una politica scolastica di lungo periodo che miri ad avere concorsi per diventare docenti di ruolo ogni due o tre anni, e non ogni nove come accaduto in passato“.
Al Sud la situazione non è migliore. In Sicilia, secondo i dati della Cgil, solo il 62% dei posti disponibili è andato a docenti di ruolo, più di un terzo sarà appannaggio dei supplenti. Un quadro paradossale in una regione che registra quasi il 34% di disoccupazione giovanile nella fascia dai 25 ai 34 anni. In Molise, per mancanza di graduatorie e candidati, non è stata assegnata una cinquantina di posti in materie scientifiche: matematica, informatica e tecnica.
Rino Di Meglio, coordinatore nazione della Gilda, rileva nella mancanza di fondi la causa della lentezza e dell’inefficienza delle procedure concorsuali: “Le procedure dovrebbero durare un anno e invece durano due o tre anni, proprio perché non si trovano i commissari. E quando li trovano, questi commissari vanno a rilento con il lavoro”. L’infrastruttura del ministero è inadeguata a sostenere la mole di lavoro necessaria per l’avviamento dei concorsi: “L’amministrazione periferica del Miur è ridotta all’osso. Alcuni Uffici scolastici sono ridotti a cinque o sei dipendenti”.
Marcello Pacifico, presidente dell’Associazione nazionale insegnanti, dipinge con toni foschi la situazione attuale: “Non si ricorda, negli ultimi 50 anni, una carenza di docenti così vasta e generalizzata, a livello territoriale”. La mancanza di fondi ha impedito l’organizzazione di concorsi ordinari, la conseguenza è stata l’allungarsi delle graduatorie, soprattutto per quanto riguarda le materie umanistiche. Nuovi precari, infatti, si sono aggiunti alle liste, senza che i vecchi venissero stabilizzati tramite il naturale processo di selezione dei concorsi. Una meccanica che ha creato una schiera di supplenti e precari, nonostante i posti disponibili. Questa è una dinamica simile a ciò che sta succedendo nella sanità in cui la carenza di medici è frutto di una carenza di posti nei corsi di specializzazione, anch’essa dovuta allo stanziamento insufficiente di fondi per la loro realizzazione.
D’altronde, almeno per quanto riguarda le materie scientifiche, molti laureati preferiscono trovare lavoro nel settore privato, perché in quel campo le retribuzioni sono più alte. E’ dimostrato che i docenti italiani ricevono uno stipendio al di sotto della media europea. Ancora un volta ci viene in soccorso il rapporto Ocse: secondo le statistiche – fra elementari, medie e superiori – i nostri insegnanti guadagnano circa 30mila euro all’anno, nella parte bassa della classifica, fra Slovenia e Polonia. Gli insegnanti olandesi, invece, percepiscono in media 66mila dollari – circa 60mila euro – e anche gli insegnanti francesi e inglesi superano i 40mila euro annui.
Allo stesso modo, la retribuzione stenta a salire a seguito degli scatti di anzianità. Negli Stati Uniti, a fronte di uno stipendio iniziale di 40mila dollari l’anno, al massimo retributivo si possono superare i 60mila; in Germania, dai 55mila euro iniziali si può arrivare ai 75mila. Gli scatti di carriera sono notevoli anche in Francia, in cui si parte da una base non di tanto superiore a quella italiana – 35mila euro – ma si può arrivare a sfiorare i 60mila euro. In Italia, invece, si parte da poco meno di 30mila euro e anche all’apice della carriera non si guadagno più di 45mila euro.
Segnati dalle incertezze e delegittimati nel proprio ruolo, gli insegnanti italiani si trovano in una situazione di grave difficoltà. E non è raro che la risposta sia uno scompenso sul piano psicologico. La categoria è infatti una delle più colpite dalla sindrome da burnout. Lo stress generato dal dover gestire classi numerose, unito alla consapevolezza di non ricevere il giusto compenso, diventa un importante fattore d’alterazione dell’equilibrio psicologico personale. A questo si aggiunge poi la situazione di precariato cronico, che impedisce a gran parte dei professionisti di fare piani a lunga scadenza, sia nella sfera personale, che nell’ambito dell’intervento educativo. Una cornice perfetta per far sì che si manifestino i sintomi dell’esaurimento.
La scuola italiana è minata dal precariato: supplenti stressati che ogni anno cambiano classe, istituto, città e mansioni e che devono assumersi la responsabilità dell’educazione delle nuove generazioni. Con queste premesse è impossibile pensare che l’istruzione italiana possa mantenere ancora per molto standard di qualità elevati. A rimetterci sono i più giovani, che di anno in anno devono adattarsi a personalità, programmi e metodi formativi diversi, e che, complice la mancata continuità educativa, faticano a identificare il docente come un interlocutore a cui affidarsi. Allo stesso modo, insegnanti e laureati capaci e motivati sono impossibilitati ad accedere all’insegnamento, a causa della carenza di fondi e della burocrazia.
Impegnata a tappare i buchi con concorsi straordinari, la politica italiana sembra non avere un piano a lungo termine per sistemare le storture del sistema scolastico. Diventare di ruolo non è più solo questione di bravura e competenza, ma è ormai diventato un colpo di fortuna, dato che i concorsi pubblici sono sempre più simili alla lotteria. Fra tante incertezze l’unica cosa che appare chiara è che a farne le spese sono gli alunni a cui viene insegnato sempre meno, in modo sempre più frammentario e con sempre più a fatica fra una cattedra vacante e l’altra.