Il 10 dicembre del 1948 il Palais de Chaillot, un imponente edificio neoclassico nel cuore di Parigi, è al centro della cronaca internazionale. Il secondo conflitto mondiale è terminato, ma l’orrore della Shoah e delle bombe atomiche è ancora fresco nei ricordi di popolazioni e capi di Stato. La terza assemblea dell’Onu si riunisce per votare la Dichiarazione universale dei diritti umani, a presiederla è l’ex first lady Eleanor Roosevelt. Il documento è il risultato di un processo iniziato nel Diciottesimo secolo, all’indomani delle rivoluzioni americana e francese. Con un preambolo e trenta articoli, 48 Stati mettono nero su bianco un principio fondamentale, fino ad allora rinnegato dai vari dittatori del Diciannovesimo secolo: ogni uomo, donna o bambino è titolare di una serie di diritti universali inalienabili, che nessuno Stato può negare.
Quest’anno si è celebrato il settantesimo anniversario di quel giorno fondamentale e, nonostante i progressi siano evidenti sotto molti aspetti, non si può certo dire che l’umanità sia arrivata a testa alta all’appuntamento. L’annuale rapporto dell’Economist già a inizio anno aveva diffuso un dato preoccupante: solo il 4,5% degli abitanti del Pianeta vive in uno Stato di democrazia piena; il 45% vive in una “democrazia difettosa” (fra questi anche gli italiani), mentre la metà della popolazione mondiale si trova in un sistema ibrido o autoritario. Il rapporto per il 2018 non è ancora uscito, ma per chi ha seguito la cronaca politica negli ultimi dodici mesi, è facile prevedere che non attesterà un particolare miglioramento.
Così, mentre una parte del mondo discute dell’opportunità di aggiornare i diritti umani fondamentali, includendo tra questi ad esempio la privacy o l’accesso a internet, un’altra, quella dei sovranisti e dell’estrema destra, in tutto il mondo mette in discussione anche quelli più basilari, come il diritto alla vita, alla libertà e alla scelta, sacrificati sull’altare di una sovranità non meglio definita se non dalla necessità di mascherare l’assenza di contenuti dietro la presunta difesa di un’appartenenza comune.
Le prime vittime del giro di vite sui diritti sono i migranti: coloro che, a causa delle conseguenze di una globalizzazione gestita male e di un cambiamento climatico praticamente ignorato, della guerra, delle persecuzioni o delle iniquità, lasciano la loro casa per trovare la felicità altrove. Potrà suonare strano – specialmente a Giorgia Meloni – ma anche questo è un diritto sancito dalla Dichiarazione universale dei diritti: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese. […], ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni […], ha diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia.” Questo significa che ha anche diritto a spostarsi soltanto “Perchégli va”. Eppure, questo diritto è costantemente messo sotto attacco. Persino la firma di un accordo di buon senso come il Global Migration Compact, se in Italia ha generato l’ira di qualche personaggio folcloristico della destra nostrana, in Belgio ha addirittura causato una crisi di governo e le dimissioni del premier.
Di esempi in merito, purtroppo, il 2018 è pieno. Impossibile non nominare la recente decisione del governo danese che, in un provvedimento esposto con una freddezza inquietante e illustrato in un video di gusto ancora peggiore, prevede de facto l’imprigionamento arbitrario di persone che o hanno già scontato la loro pena, oppure hanno commesso il solo reato di provenire da un Paese che non ne accetta il rimpatrio. E tutto questo su un’isola che al momento ospita laboratori di sperimentazione sui virus. Un tale atroce trattamento non è purtroppo una novità del 2018, se consideriamo il modo in cui i rifugiati e i migranti vengono trattati a livello globale, ma lo è in Europa. Dovrebbe farci preoccupare il fatto che il nostro stesso ministro dell’Interno abbia dichiaratamente elogiato il noto No Way australiano.
Il diritto a spostarsi in cerca di una vita migliore sembra appartenere solo agli occidentali benestanti anche secondo Donald Trump: tra il primo ottobre 2017 e il 31 maggio 2018, almeno 2.700 bambini sudamericani sono stati separati dai propri genitori, rinchiusi in centri di detenzione per aver tentato di entrare illegalmente nel Paese. A oggi, nonostante il dietrofront dell’amministrazione in seguito alla sentenza di un giudice federale, sono ancora 500 i ragazzini tenuti lontani dalle loro famiglie, che in alcuni casi sono state rimpatriate, mentre in altri non sono state nemmeno identificate. Sempre della stessa opinione sono anche tutti gli amici-nemici del nostro vicepremier Matteo Salvini, riuniti nel meraviglioso gruppo di Visegrad. Primo fra tutti Viktor Orbán, che si è beccato un richiamo ufficiale dall’Alto commissario Onu per i Rifugiati per via di un pacchetto di leggi che ha reso praticamente impossibile fare richiesta di asilo in Ungheria, fa dell’immigrazione illegale un reato, punisce con il carcere fino a un anno chiunque faccia “propaganda per l’immigrazione” e rifiuta preventivamente qualsiasi ricollocamento di “popolazioni aliene” nel suo Paese.
Ci sono poi i video che mostrano le regolari violazioni da parte della polizia di confine croata e i fatti di casa nostra: con il Decreto Sicurezza, la Lega e il M5S hanno abolito il visto per protezione umanitaria internazionale e negli scorsi giorni decine di persone con regolare permesso si sono ritrovate in mezzo a una strada da un giorno all’altro. E rischiano di diventare migliaia. Difficile poi dimenticare la vicenda della nave Diciotti, quando il ministro dell’Interno ha lasciato che 177 persone, di cui molte già sottoposte a orribili violazioni dei diritti umani nei campi di detenzione in Libia, rimanessero bloccate nel porto di Catania per giorni. Una prova di forza che per di più, nel concreto, non si è rivelata risolutiva: a oggi non c’è nessun accordo per la riforma del trattato di Dublino e gli Stati dell’Ue non sembrano avere un atteggiamento più referente nei confronti del nostro Paese, né sembrano essere più propensi ad accettare un eventuale ricollocamento.
“A me non interessa nulla dei diritti dei migranti, io non voglio emigrare e anche se lo facessi sarebbe diverso, non sono neg…”, qualcuno dirà. Ma è piuttosto facile notare che i governi che si pongono in contrasto rispetto ai diritti degli stranieri, siano essi migranti o rifugiati, non sono particolarmente liberali nemmeno con i propri concittadini. Un esempio tra tutti è, di nuovo, il sodale di Salvini, Viktor Orbán. Lo scorso settembre, 448 europarlamentari hanno votato a favore dell’attivazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona nei confronti del governo ungherese per gravi violazioni dei valori fondamentali dell’Unione. Tra questi non sono presenti quelli della Lega perché, secondo Matteo Salvini (che, ricordiamo, è un quasi-laureato in Storia), “Non si processano i popoli e i governi liberamente eletti”. Giusto. E infatti non è mai successo che un governo liberamente eletto si trasformasse in una dittatura repressiva. Le leggi sotto accusa sono state oggetto di contestazioni da parte dell’Onu, della Corte europea dei diritti dell’uomo e dell’Osce e sono parte di un processo di smantellamento delle tutele democratiche che Orbán ha iniziato già nel 2012, con la riforma dei poteri della Corte costituzionale, passando per quella sull’informazione, sulle università straniere e sul diritto a manifestare. L’ultima novità a firma del parlamento a maggioranza Fidesz sono due leggi, una soprannominata “legge sulla schiavitù” – che riguarda la normativa sul lavoro e diminuisce le tutele dei lavoratori, eliminando persino la mediazione sindacale sulle ore di straordinario – e una sul sistema giudiziario – che istituisce un tribunale parallelo direttamente dipendente dal Ministero della Giustizia, che dovrà decidere di questioni delicate come la legge elettorale e i reati di corruzione.
Nella Polonia di Andrzey Duda e Mateusz Morawiecki, entrambi esponenti del partito ultra-conservatore Diritti e Giustizia, il Parlamento ha varato una riforma che prevede il prepensionamento di buona parte dei giudici della Corte Suprema, sostituiti da altri di nomina governativa. Anche in questo caso, come in Ungheria, l’ingerenza del potere esecutivo su quello giudiziario è parte di una politica che va avanti da diverso tempo: già nel 2015, secondo Amnesty International, il governo si era assicurato “il totale controllo di tutti i mezzi di informazione pubblici” e aveva spinto al licenziamento oltre 200 giornalisti.
Ancora una volta è poi necessario citare il decreto Sicurezza, che aldilà della facciata anti-migranti, sbandierata per mero fine elettorale, nasconde anche misure che vanno ad attaccare i diritti degli stessi italiani. Ha fatto inorridire la comunità medica l’introduzione del Daspo dagli ospedali pubblici, ad esempio: una misura incostituzionale che colpisce i più deboli, sia italiani che stranieri. Allo stesso modo, anche la circolare emanata dal Ministero in tema sgomberi è lesiva di uno dei diritti più importanti, il diritto alla casa, e ha già causato lo sfratto di moltissime famiglie, anche italiane. Per non parlare poi del modo discutibile e controverso in cui Marcello Foa è stato messo a capo del Cda della televisione di Stato, ancora la principale fonte di informazione per gli italiani. Poi ci sono tutte quelle idee che non sono ancora diventate legge, ma che dovrebbero farci preoccupare: dall’ostilità del ministro della Famiglia verso i diritti delle persone LGBTQ+ e delle donne, passando per la bizzarra concezione che il ministro Bonisoli ha del diritto alla Cultura.
In seguito alla recessione, ormai più che decennale, innescata dalla crisi finanziaria del 2007, la classe media, protagonista nella seconda metà del secolo scorso, si è vista cadere la terra sotto i piedi: incertezza economica, precarietà, impossibilità di garantire ai figli un futuro migliore del proprio. Così, in misura sempre maggiore, si è lasciata guidare da chi indicava spiegazioni e soluzioni facili a problemi complessi, a chi riusciva a identificare un nemico, un responsabile. E, come sempre è avvenuto nella storia, il capro espiatorio è sempre ricercato tra i più deboli. Il problema è che l’etichetta di debole non è fissa, né universale, ma relativa. E se oggi a essere vulnerabile è il richiedente asilo, domani potrebbe essere l’immigrato di seconda generazione, poi il nullatenente, ma il giorno dopo ancora potresti tranquillamente essere tu.