Nei giorni scorsi è diventata virale una nota diffusa da Burger King Uk, e poi rilanciata in tutto il mondo, intitolata “Ordinate da McDonald’s”. L’obiettivo sarebbe quello di sostenere la ristorazione nelle difficoltà economiche provocate dalle restrizioni tornate in vigore in tutta Europa. L’azienda di fast food ha voluto dipingersi come una multinazionale capace di essere solidale anche con la concorrenza in nome della tutela dei lavoratori del settore. Il messaggio ben chiaro nella nota è che l’home delivery aiuta cuochi, cassieri e rider a continuare a percepire il proprio stipendio. Burger King fa leva sull’immaginario della crisi, quello fatto di serrande abbassate e chilometriche file davanti alla Caritas, per poi dirigere la nostra empatia verso orizzonti piuttosto discutibili, ossia quelli dei più ricchi.
Nella nota, infatti, le aziende citate sono tutte colossi: KFC, Subway, Taco Bell, Five Guys, Pizza Hut. Multinazionali in realtà poco o per nulla danneggiate dalla pandemia, ancora in grado di far fronte a enormi risorse finanziarie, al contrario di tante piccole e medie realtà. L’home delivery – che secondo Burger King avrebbe bisogno di essere incoraggiato – è poi in realtà in crescita in ogni Paese, proprio per via delle limitazioni di prevenzione sanitaria. Secondo un recente report dell’Osservatorio e-commerce del politecnico di Milano, il settore del cibo a domicilio, tra il 2019 e il 2020, è cresciuto del 56% e il suo valore attuale in Italia corrisponde a 1,6 miliardi di euro. Dietro questi dati c’è però il dramma dello sfruttamento dei rider.
La nota di Burger King è arrivata in Italia proprio nella settimana di grande mobilitazione dei rider, in particolare nella città di Milano, visti gli ultimi sviluppi sul contratto collettivo nazionale. Il contratto avrebbe dovuto rispondere ai parametri che il governo, con l’allora ministro del Lavoro Luigi Di Maio, aveva stabilito lo scorso anno nella legge 128, ma così non è stato. Il problema principale continua a essere il mancato riconoscimento ai rider dello status di lavoratori subordinati, cioè dipendenti, e la conseguente esclusione dalle varie tutele e garanzie cui avrebbero diritto. La classificazione dei rider come lavoratori autonomi continua ad apparire come un mero espediente contrattuale usato dalle aziende del settore che fanno leva sulla presunta flessibilità del lavoro, cioè sulla possibilità di poter scegliere liberamente quanto e quando lavorare. È tuttavia palese che questo meccanismo flessibile finisca con l’essere uno strumento nelle mani di coloro che a tutti gli effetti ne approfittano e che sembrano voler ignorare la realtà delle cose. È infatti proprio la mancata garanzia di paga minima a obbligare i lavoratori a sostenere turni infiniti per arrivare ad accumulare un salario dignitoso, cosa che annulla nella maggior parte dei casi – ovvero tutti quelli in cui il lavoro di rider è quello principale e non un extra – la libertà di scegliere. I fattorini dei grandi colossi di food delivery – JustEat, Glovo, Deliveroo, Ubereats – sono poi in tutto e per tutto condizionati dagli algoritmi delle piattaforme che segnalano le consegne da fare, dal sistema di rating che stabilisce turni e diverse possibilità di guadagno e dalle aziende che si occupano della loro paga. Nonostante l’interesse mostrato dal governo italiano verso questa dinamica, la promessa fatta da Di Maio non è stata totalmente mantenuta e le condizioni salariali dei rider sono peggiorate dopo l’entrata in vigore del contratto collettivo nazionale. Ubereats paga 1,99€ a consegna, Glovo 1,30€ più una retribuzione variabile di 0,50€ per chilometro, Deliveroo ha tolto i turni costringendo i lavoratori a restare online in attesa di clienti e senza guadagnare nulla, mentre Just Eat ha portato la paga minima sotto i 6€. La legge 128 prevedeva l’introduzione di una paga oraria di 10€ per tutte le aziende del food delivery, ma queste continuano a non garantire un salario minimo dignitoso, a non stipulare contratti di lavoro subordinato che comportino diritti come le ferie e la malattia, e a pagare a cottimo piuttosto che per il tempo di servizio.
Un portavoce di Deliverance Milano – il sindacato metropolitano che sta portando avanti le proteste dei rider di questi giorni – ha spiegato in un’intervista che la situazione è peggiorata dopo il contratto stipulato tra Assodelivery e Ugl. Si sta ancora discutendo riguardo l’effettiva legittimità di questo documento, nonostante la sua entrata in vigore il 3 novembre. Infatti, tutti i sindacati più rappresentativi della categoria – tra cui Cgil, Cisl e Uil – si sono ben guardati dal siglare l’accordo. Il contratto nazionale sui rider è in realtà frutto di un’intesa tra Assodelivery – l’associazione che rappresenta JustEat, UbearEats, Deliveroo, Glovo e gli altri – e il sindacato Ugl, molto poco rappresentativo della categoria e, secondo Deliverance Milano stessa, figlio di Glovo. Data l’oggettiva scarsa rappresentanza del documento, ancora oggi il governo sembra titubante nell’accoglierlo a pieno e aprirà un tavolo di confronto con i rider a breve.
Il testo, firmato alle spalle dei rider, contiene miglioramenti solo formali. Non è infatti previsto nessun salario minimo garantito, ma sarà la piattaforma a calcolare il tempo stimato per la consegna e a retribuire 10€ nel caso in cui il delivery impieghi un’ora. In caso la piattaforma stimi un tempo inferiore, la consegna verrà pagata sulla base di tariffe liberamente calcolate dall’azienda. Di nuovo, si tratta di un meccanismo che non guarda a quella che è la realtà del lavoro dei rider, che nella maggior parte dei casi si svolge in un perimetro ridotto in cui è praticamente impossibile che una consegna richieda un’ora intera. Questo meccanismo spingerebbe i rider a rallentare e fermarsi per far scattare il pagamento orario, cosa che sta già accadendo, lasciando insoddisfatto il cliente e quindi danneggiando il proprio punteggio, che influisce sulla possibilità di lavorare nelle fasce orarie più redditizie. Deliverance Milano ha poi fatto notare che la paga per ogni consegna si aggirava già intorno ai 5€ lordi e due consegne in un’ora ne farebbero quindi 10€. Si tratterebbe quindi di una situazione non molto diversa da quella di prima, ma completamente discordante rispetto alle richieste dei sindacati di categoria per introdurre turni e paga oraria. Infatti nonostante Assodelivery e Ugl dicano che il loro contratto rispetta le indicazioni imposte dalla legge 128, in realtà si raggira la regola della paga minima oraria e si continua a non riconoscere lo status di lavoratore subordinato.
Tra le concessioni ai rider il contratto prevede 7€ lordi se in un’ora non si ricevono consegne da fare, ma non se vengono rifiutate dai rider, alcuni premi in denaro e degli incrementi per chi lavora in condizioni meteorologiche avverse o nei festivi, oltre all’obbligo per le aziende di fornire protezioni come caschi e vestiti ad alta visibilità. Queste concessioni però non sono in grado di risanare il mancato riconoscimento della categoria come subordinata e il raggiro dell’obbligo di paga oraria. L’attuale ministra del Lavoro, Nunzia Catalfo, secondo Fanpage.it avrebbe contattato direttamente Assodelivery e Ugl spiegando che il contratto viola le indicazioni della legge 128 e non è abbastanza rappresentativo e ora ha in programma un tavolo con i sindacati, previsto per l’11 novembre.
Il manager di Assodelivery, Matteo Sarzana, si lamentava già lo scorso anno della legge 128. Sarzana ha negato l’esistenza di dinamiche di sfruttamento all’interno del food delivery, incolpando il governo di essere poco “flessibile” e “all’avanguardia” su un settore completamente nuovo. La logica è quella che ogni imprenditore sogna di potersi permettere, ossia quella del lavoro a cottimo, in cui vieni retribuito sulla base di quanto lavoro svolgi. Un sistema che incoraggia la produttività, l’efficienza e lo stakanovismo senza limiti, senza però tutelare in alcun modo il lavoratore né preoccuparsi di garantirgli i diritti che gli spetterebbero. I fattorini, secondo Sarzana, sarebbero soprattutto universitari e genitori che usano le piattaforme per arrotondare. Tuttavia i dati su cui il capo di Assodelivery basa le sue dichiarazioni sorvolano sul documentato fenomeno di caporalato interno al settore, e quindi sull’ampia presenza di immigrati irregolari a cui vengono venduti gli account in cambio di una percentuale sui guadagni e sul fatto che per molti il lavoro di rider sia la principale fonte di guadagni, e quindi non un extra.
L’arrivo delle grandi multinazionali nel mercato dell’home delivery ha fatto emergere gran parte del lavoro nero legato al mondo delle consegne, spingendo solo ora il legislatore a interessarsi al problema, quando ormai le piattaforme sono all’apice del successo – proprio grazie alla pandemia – e valgono sempre di più, eppure i diritti dei lavoratori andavano garantiti anche prima. Nel frattempo, in attesa del tavolo con la ministra Catalfo, i rider si sono mobilitati principalmente nella nuova zona rossa del Nord Italia. Rivendicano pagamento orario, condizioni di lavoro più sicure e un contratto collettivo che non venga firmato alle loro spalle. Martedì scorso si è creato un corteo spontaneo nel centro di Milano che si è poi trasformato in una manifestazione non autorizzata. Deliverance Milano ha proclamato cinque giornate di sciopero nel delivery e lo stato di agitazione permanente. I rider hanno bloccato alcune strade, rifiutato gli ordini di cibo o tenuto il cibo sul posto. Nonostante non abbiano avuto grandi riflettori mediatici, se non per alcuni episodi di violenza durante la mobilitazione, lo sciopero ha spinto a trattare diversi colossi del food delivery. Stando a quanto comunica Deliverance milano, Gabriele De Giorgi di UberEats avrebbe dato la colpa delle paghe basse a un errore di calcolo nel sistema, promettendo di risolverlo e garantendo un bonus di 2,50€ per ogni consegna portata a termine e altri premi. Glovo, dopo pochi giorni di sciopero, ha annunciato che sarebbe tornata ai pagamenti precedenti all’entrata in vigore del nuovo contratto collettivo. JustEat ha invece comunicato di essere pronta ad assumere tutti i suoi fattorini.
In questi giorni di mobilitazioni nel Nord il fatto che Burger King Italia abbia invitato all’uso dell’home delivery per sostenere la ristorazione è quindi suonato ipocrita e fuori luogo. Mentre una categoria vittima di una sorta di caporalato legalizzato chiedeva ai cittadini di non ordinare cibo, il fast food colosso invitava a fare il contrario proprio con la giustificazione di avere sulle spalle “migliaia di dipendenti”. Nel tentativo di sembrare un’azienda etica, Burger King Italia con la sua mossa di marketing ha messo in risalto il divario tra sé stessa e la realtà di un settore in cui si combatte contro lo sfruttamento. Nonostante la comunicazione faccia leva proprio sull’enorme quantità di persone alle dipendenze della grande catena di ristoranti, né Burger King Italia né le sue concorrenti, che si appoggiano proprio sui servizi di delivery al centro delle contestazioni, si sono espresse a favore dei rider. Questo ci porta a osservare che anche se in questa situazione le grandi aziende cercano di affiancarsi al nostro immaginario della crisi, fatto di piccoli imprenditori in difficoltà e famiglie operaie, bisogna ricordare che in realtà si tratta di un mondo molto distante. Quello delle multinazionali è un sistema che si sta arricchendo grazie alla crisi, che trae beneficio dallo sfruttamento, che non riconosce le proprie responsabilità e le nasconde al grande pubblico attraverso i prestigi del marketing e i calcoli degli algoritmi.