Ascoltare Santoro parlare di resa dell'Ucraina per ottenere la pace, e temere che sia stato clonato - THE VISION

Fino a una decina d’anni fa, l’elettorato di sinistra sapeva di poter contare su un’oasi in mezzo alla televisione berlusconiana. Il trio composto da Michele Santoro, Marco Travaglio e Vauro Senesi rappresentava un punto di riferimento politico e identitario, soprattutto ai tempi della trasmissione Annozero. Il giornalista intransigente, l’uomo con l’archivio e il vecchio compagno vignettista si amalgamavano alla perfezione, contrastando le politiche scellerate del centrodestra. C’è da dire che già allora su Travaglio c’era un equivoco di fondo: pur dichiarandosi un liberale di destra di stampo montanelliano, infatti, per via delle sue battaglie contro Berlusconi nell’immaginario collettivo veniva considerato – per usare le stesse parole del Cavaliere – “il solito povero comunista”. Ad ogni modo, si pendeva dalle labbra di questi tre uomini perché li consideravamo nel giusto; riuscivamo a orientarci nella palude della Seconda Repubblica perché potevamo contare sulla loro guida, credibile e affidabile. Anche oggi, d’altronde, con la guerra in Ucraina, li ritroviamo esporsi mediaticamente, ma in questo caso fanno qualcosa che non ci saremmo mai aspettati, si espongono infatti, ma “non a sostegno di chi è vittima delle smanie di potere altrui”. 

Michele Santoro e Marco Travaglio

Delegittimare la resistenza ucraina e non fare distinzioni tra aggressore e aggredito (arrivando persino a criticare più Zelensky che Putin), secondo i sondaggi europei apparirebbe una tendenza tipicamente italiana. Eppure, da certe figure mediatiche ci saremmo aspettati un approccio diverso, che potesse confortarci come ai tempi di Annozero. Tutto ciò, però, non è avvenuto. Vero è che per Travaglio e per Vauro possiamo trovare, facendo un piccolo sforzo, delle motivazioni. Il primo, infatti, è ormai da anni il megafono del Movimento Cinque Stelle, segue quindi la linea della creatura di Grillo – e a volte l’impressione è che sia addirittura lui a dettarla – su qualsiasi argomento. Essendo noti i legami tra Russia Unita e il M5S, le posizioni del Fatto Quotidiano e del suo direttore non devono sorprendere più di tanto. Per Vauro vale invece il protocollo del veterocomunista. Come per la leggenda del giapponese convinto di essere ancora in guerra, Vauro sembra vivere in un mondo in cui il Muro di Berlino non è mai caduto, la Russia di Putin è in realtà la rossa Unione Sovietica e tutto ciò che viene da quel mondo deve essere difeso. In pratica è intrappolato nel film Good Bye, Lenin!.

Vauro Senesi

Pur cercando una giustificazione, risulta invece inspiegabile la presa di posizione di Santoro, soprattutto perché sembra deviare dal suo pregresso percorso da giornalista. Lo scorso anno avevo scritto un articolo in cui lodavo la sua carriera, il suo modo arrembante e diretto di fare televisione, con programmi che hanno cambiato la prospettiva e la considerazione dei talk show politici. Nessun timore reverenziale davanti agli ospiti, nessuno sconto o acquiescenza di alcun tipo nel contrastare le controversie del potere. Eppure, in questi ultimi due anni e mezzo abbiamo assistito a qualcosa di simile alla caduta degli dei, dei nostri “dei”, almeno, causata dalle uscite sgangherate di personaggi di spessore che avevamo sempre stimato e che ora ci hanno invece esposto a una sorta di iconoclastia, rifiutando la precedente raffigurazione di idoli che avevamo attribuito loro. È successo durante la pandemia con Massimo Cacciari o con Carlo Freccero, impegnati in una crociata contro i green pass, e adesso, con la guerra in Ucraina, con un Santoro che mi sembra irriconoscibile. Per usare una similitudine, visto che il giornalista in passato ha condotto diverse inchieste contro la mafia: è come se adesso non ci si rendesse conto che criticare Zelensky perché non è disposto a cedere è come criticare il commerciante che si rifiuta di pagare il pizzo, accusandolo di mettere a rischio tutti i condomini perché il mafioso potrebbe far saltare in aria l’intero palazzo.

Intervistato di recente da Giovanni Floris a DiMartedì, Santoro ha infatti sbottato contro la decisione di inviare armi all’Ucraina, spiegando che se stiamo dando questo aiuto alla loro resistenza “vuol dire che siamo in guerra anche noi”. Questo stesso concetto è stato ampliato e approfondito da Santoro anche nel suo libro Non nel mio nome, dove critica senza mezzi termini il sostegno militare all’Ucraina, in quanto non la considera una guerra tra Russia e Ucraina, ma una terza guerra mondiale. Il giornalista, però, omette un dettaglio non irrilevante: se non avessimo inviato le armi a Kiev, l’Ucraina oggi non esisterebbe più, fagocitata dalla Russia, che infatti aveva in programma un’operazione lampo. Inoltre, si sarebbe creato un precedente pericolosissimo, lasciando a un dittatore la libertà di poter conquistare territori con la forza senza ricevere la minima opposizione.

Se è assolutamente lecito che Santoro abbia il diritto di esprimere le sue opinioni, noi abbiamo quello di spiegare perché le consideriamo dannose e fuorvianti. Intervistato da Bianca Berlinguer a Carta Bianca, Santoro si è detto preoccupato per l’invio delle armi in quanto “l’orso ferito potrebbe usare la bomba tattica nucleare”. Ma secondo questo ragionamento, allora, dovremmo vivere d’ora in poi sotto l’eterna minaccia della bomba atomica. Pungolato da Berlinguer, Santoro, stizzito, ha ammesso: “C’è un invasore, Putin, lo abbiamo capito. Ma io non posso riconoscere la necessità di dare armi al popolo ucraino perché è invaso”. Alla richiesta di una spiegazione, si è appellato agli esempi delle guerre degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan e ai bombardamenti in Serbia durante la guerra nei Balcani. Una dialettica che si focalizza sulla mera diffidenza nei confronti dell’operato degli Stati Uniti che potevamo aspettarci da un Alessandro Di Battista, ma non da un giornalista che in passato ha dato prova di una capacità di analisi più ampia. 

Non per fare dietrologia, ma la giravolta di Santoro è stata radicale e apparentemente sembrerebbe collegata anche alla nostra politica interna. A luglio di quest’anno dichiarò addirittura di scendere in politica fondando un nuovo partito per potersi alleare con Conte, definendo il M5S “la vera sinistra”. Il progetto, poi, non andò in porto, ma rimane tutt’ora inspiegabile il suo endorsement a una forza politica che un tempo definiva “di destra pura”, con critiche pesantissime a Beppe Grillo e al populismo del M5S. Il punto comune attuale tra Santoro e la compagine grillina è la richiesta di una pace piuttosto ambigua. Quando ero un ragazzino, ai tempi della guerra in Iraq ricordo che scendevamo in piazza con le bandiere della pace con una richiesta ben precisa: il ritiro delle truppe dall’Iraq. Adesso, però, il concetto di pace promosso da Santoro, Alessandro Orsini e dalla galassia grillina non si rifà a quello a cui eravamo abituati e per cui manifestavamo, ovvero il ritiro delle truppe russe dall’Ucraina, ma, di fatto, alla resa dell’Ucraina. L’ha spiegato lui stesso da Myrta Merlino a L’aria che tira, dichiarando: “Dovete fare una domanda a Zelensky: perché di fatto non parla di una concessione sulle regioni russofone?”. È semplice: perché anche quelle sono regioni ucraine e un dittatore non può annetterle con le bombe e con i referendum farsa.

Eppure, continua a persistere l’equivoco sulla pace-resa, come quando, all’inizio del conflitto, Orsini scrisse il suo “Manifesto per la pace”, pubblicato ovviamente dal Fatto Quotidiano, in cui di fatto dettava la linea a Kiev spiegando all’aggredito come doversi comportare con l’aggressore e cosa dovergli concedere. Lo stesso Santoro, sempre da Floris, è sembrato incline a dar lezioni di Resistenza, come quando ha detto che se “Zelensky pretende l’allargamento del teatro di guerra non sono più con lui”. Nessuno obbliga Santoro a perorare la causa ucraina, ci mancherebbe, ma considerare un “allargamento del teatro di guerra” la richiesta di aiuto di una nazione (per quanto comprenda anche l’invio di armi) significa semplificare, se non mistificare, un discorso che, per dirla à la Orsini, “è più complesso”. Rifiutarsi di inviare le armi fa molto “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, sessantottismo spicciolo e pacifismo di facciata, soprattutto considerando che le armi vanno a una nazione invasa. Se noi siamo oggi una Repubblica e non una provincia nazista, è anche perché, di pari passo alle battaglie sovietiche contro i tedeschi, gli Stati Uniti e gli altri alleati hanno inviato armi ai nostri partigiani.

Santoro, poi, non si è limitato a esprimere la sua opinione sulle reti nazionali, ha anche dato vita a Pace Proibita, una serata trasmessa in streaming (su Byoblu, canale già conosciuto in passato per la diffusione di informazioni non accurate) al motto “Siamo contro il pensiero unico sull’Ucraina”. Artisti e giornalisti si sono riuniti spiegando come la colpa della mancata pace sia degli Stati Uniti e della Nato. Non dell’invasore, ovviamente. È l’antiamericanismo che oggi accomuna un po’ tutti, destra e sinistra, e che racchiude dunque una platea estesa pronta a sparare a zero sugli yankee. 

Se da Freccero, che considerava una messinscena la strage di Bucha, non potevamo aspettarci niente di diverso, la posizione di Santoro ci colpisce di più rispetto a quelle degli altri perché la associamo a una sorta di tradimento. La generazione cresciuta con Annozero adesso si ritrova con tre moschettieri allergici alle resistenze estere e chiassosi nel loro tentativo di trasformare la frase “Fate la pace e non la guerra” in “Arrendetevi, ucraini”. Ci viene proposto un pensiero ambiguo che fa a botte con le battaglie ideologiche del passato. È come se una parte della nostra adolescenza, quella dei primi sussulti politici e sociali, fosse stata rinnegata. All’epoca Santoro era dalla nostra parte e adesso non più. Libero di non esserlo ovviamente, ma in questo mondo all’incontrario, dove non si riesce a distinguere un aggressore da un aggredito, ci consegniamo alla mestizia rendendoci conto che nel 2022 ci sono ancora guerre imperialistiche e i nostri vecchi eroi non chiedono più il ritiro delle truppe, ma la consegna delle terre altrui a un invasore. Nessuno vieta loro di farlo, ma almeno smettessero di chiamarla “pace”.

Segui Mattia su The Vision | Facebook