Nel cuore del distretto conservatore di Fatih di Istanbul, di fronte all’edificio storico di Santa Sofia (o Hagia Sophia, in turco Ayasofya), una schiera di sostenitori si raduna in attesa di ascoltare il discorso del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan sul futuro del monumento. Sul profilo dell’ex-cattedrale millenaria, le bandiere turche sventolate dalla folla si confondono con quelle raffiguranti lo stemma dell’antico Impero ottomano: simbolo che, in accordo con la nuova visione politica propugnata dal “sultanato” di Erdogan, il nuovo nazionalismo turco si è opportunamente congiunto con il neo-ottomanismo. La scena, avvenuta nella sera dello scorso 10 luglio, è stata forse il presagio del futuro di Santa Sofia.
In seguito all’annuncio del presidente turco, per celebrare l’avvenuto passaggio dell’ex-cattedrale da museo a luogo di culto islamico, i manifestanti hanno svolto la preghiera serale di fronte a Santa Sofia in attesa che, venerdì 24 luglio, le sue porte siano aperte alle funzioni religiose per la prima volta dopo quasi un secolo.
Santa Sofia nasce 1500 anni fa come principale cattedrale cristiano-ortodossa dell’Impero Romano d’oriente. A seguito della conquista di Costantinopoli per mano dei Turchi Ottomani nel 1453 la chiesa fu convertita in moschea, per poi diventare museo nel 1935 per volontà del padre della Turchia moderna Mustafa Kemal Atatürk, durante quella che fu forse la più incisiva fase di occidentalizzazione e laicizzazione nella storia del Paese.
Una realtà sempre più messa in discussione dalle politiche di Erdogan, fino all’atto simbolico dello scorso 10 luglio: facendo seguito a una petizione iniziata nel 2005, Il Consiglio di Stato turco (massimo tribunale amministrativo del Paese) ha dichiarato illecita la precedente conversione in museo della moschea di Santa Sofia, annullando così, in una sentenza destinata a fare storia, l’editto del 1935. Il verdetto, accolto con sentimenti contrastanti nel mondo, si basa sull’incontestabilità dei voleri del Sultano conquistatore di Costantinopoli Mehmet II (1432-1481), che stabilì per la moschea di Santa Sofia, sua possessione personale, un uso esclusivamente religioso.
Al di là delle reazioni di scontento e indignazione emerse da istituzioni religiose e politiche (soprattutto occidentali), la preoccupazione forse più legittima era quella di coloro che si interrogavano sugli effetti in termini di accessibilità e conservazione di Santa Sofia in quanto patrimonio mondiale Unesco dotato di “eccezionale valore universale”. In un’intervista al National Geographic, Jonathan Bell, vicepresidente del programma del World Monuments Fund, dichiara che la ritrovata religiosità del luogo non rappresenterebbe una minaccia al suo valore universale quanto lo sarebbe un accesso non contingentato al sito e alle sue opere. Nel frattempo, le autorità religiose turche di competenza hanno ribadito che i luoghi sacri della moschea di Santa Sofia e le sue opere rimarranno aperte gratuitamente ai visitatori all’infuori degli orari di preghiera, assicurando anche che le icone cristiane, coperte durante le funzioni religiose, saranno propriamente conservate.
Ma l‘elemento determinante di questa vicenda rimane il valore politico della scelta di re-islamizzare Santa Sofia. Se l’annuncio di restituirla all’uso di moschea ha infiammato l’indignazione e la preoccupazione dell’opinione pubblica occidentale, c’è chi nella riconversione di Santa Sofia vede una riappropriazione storica capace di mettere fine, almeno simbolicamente, a un’ingerenza occidentale che sa di colonialismo informale.
In effetti, al di là delle questioni religiose, Santa Sofia è oggetto di una contesa politica di lunga durata. Per molto tempo le discussioni sull’uso di Santa Sofia sono rimaste un punto di confronto tra Turchia e potenze occidentali: prima di Erdogan, altri avevano timidamente sperato di ri-convertirla in moschea; tra questi, l’ex primo ministro turco Necmettin Erbakan (in carica dal 1996 al 1997) che, nonostante le promesse elettorali, era stato costretto a fare marcia indietro di fronte alle proteste interne ed esterne al Paese. Non è perciò la prima volta che Santa Sofia si trova nel mezzo di questa guerra fredda culturale e non solo.
Santa Sofia è diventata un territorio di scontro tra Erdogan e le potenze occidentali: il presidente turco ha deciso da tempo di non curarsi della loro opinione, portando avanti una politica nazionale e regionale in contrasto con l’agenda Nato, di cui la Turchia fa ancora parte, almeno a livello formale. Così, il simbolo per eccellenza di incontro e riconciliazione tra religioni, continenti e culture, si trasforma in arma tra stati che si confrontano per il dominio geopolitico sulla regione mediorientale. Non è forse un caso che, parlando della ri-conversione della cattedrale, venga spontaneo il parallelismo con la moschea di al-Aqsa a Gerusalemme est, terzo luogo sacro dell’Islam, attualmente minacciata dai piani di appropriazione del governo israeliano – gesto criticato dallo stesso Erdogan che, di recente, ha giurato di difendere lo status quo che riguarda l’edificio.
Come se non bastasse, la questione di Santa Sofia sembra voler riaffermare al mondo l’impronta nazionalista di natura neo-ottomana della politica di Erdogan, portando a interrogarci sul paradosso della nascita di un sultanato in un sistema democratico dichiaratamente e costituzionalmente laico come la Turchia: un paradosso che affonda le sue radici nella mancata interiorizzazione del processo di laicizzazione di inizio Novecento in parte del Paese, e che prosegue con la frustrazione identitaria di un popolo costretto ad adeguarsi a un panorama politico di fine secolo dominato da un esasperato nazionalismo di impronta laicista.
In effetti, all’inizio degli anni 2000, periodo di affermazione ed esordio di Erdogan e dell’Akp (il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, in turco Adalet ve Kalkınma Partisi), l’ingrediente vincente fu la vena “moderatamente religiosa” mostrata dal partito, in opposizione a partiti caratterizzati da un laicismo intollerante. Un Islam moderato, insieme a un’agenda dichiaratamente democratica e pro-europea, permisero all’Akp di canalizzare il malcontento di un’ampia fetta di elettorato proveniente da etnie e classi sociali diverse.
Durante la prima legislatura avviata nel 2002, l’Akp predilesse un’agenda politica che favorì la stabilità economica del Paese rispetto al perseguimento di riforme di stampo islamico, evitando così che il suo elettorato, etnicamente e ideologicamente vario, si frammentasse. Solo intorno al 2007 l’anima islamica e nazionalista del partito iniziò a emergere, portando alla deriva autoritaria che caratterizza le politiche turche odierne.
A favorire l’ascesa di Erdogan e dell’Akp è stato il lungo periodo di crescita economica del Paese coinciso con il loro arrivo al potere. Anche se il merito è più da attribuire alle politiche dei suoi predecessori, queste circostanze permisero all’Akp di sopravvivere con i voti che un’economia stabile gli garantiva. Eppure, ora che la Turchia è colpita dalla crisi economica e da tassi di disoccupazione in ascesa, l’inattaccabilità del Sultanato viene meno e le politiche dell’Akp iniziano a dover far fronte a una critica e opposizione crescenti. La perdita di consensi è stata evidente anche nelle elezioni municipali del 2019 a Istanbul – città simbolicamente importante per Erdogan, che ne è stato sindaco all’inizio della sua carriera politica dal 1994 al 1998 – quando, nonostante l’accusa di invalidità dichiarata dal presidente e l’annullamento della votazione, l’Akp è riuscito a perdere entrambe le tornate elettorali.
È proprio nel tentativo di trovare nuovi modi per assicurare la longevità del proprio mandato che Erdogan ha adottato strategie sempre più vicine ai leader più autoritari nel mondo: dall’accentramento del potere e persecuzione di rivali politici e opposizione, alla polarizzazione su questioni di stampo populista come nel caso della re-islamizzazione di Santa Sofia.
Una volta riletto il copione dell’ascesa al potere di Erdogan, diventa chiaro come populismo e politicizzazione di una confessione vadano di pari passo: l’Islam politico è un fenomeno di riaffermazione identitaria usato da Erdogan per riappropriarsi dell’arma populista per eccellenza, la religione, a scopo elettorale. Non è un caso che oggi il leader turco adotti politiche islamiste, così come non era fortuita la scelta di mettere da parte l’identità islamica del partito Akp nei primi anni del suo insediamento. Per questo la scelta di ri-convertire in moschea Santa Sofia non è inaspettata: è parte di un preciso schema politico, un’agenda caratterizzata da un autoritarismo populista e di sfida nei confronti dell’Occidente che da anni ha imbrigliato la scena politica turca per una precisa volontà del suo Presidente. La parabola di Erdogan è magistrale: dal trasformismo che ne caratterizza l’ascesa politica degli albori, alla democratura islamista dai connotati populisti. La riappropriazione di Santa Sofia non è quindi altro che una presa di posizione del presidente turco di fronte al mondo, l’annuncio di una politica regionale e nazionale che intende affermarsi al di là del consenso occidentale.