L’Italia è il secondo Paese più vecchio al mondo: l’aspettativa di vita delle donne supera gli 84 anni, mentre quella maschile arriva a 80. Sarebbe quindi normale aspettarsi più riforme e investimenti nel settore sanitario. Eppure – nonostante le classifiche indichino la nostra sanità come la quarta al mondo per efficienza – l’Italia ha la spesa sanitaria più bassa fra i Paesi occidentali, con soli 2700 dollari pro capite. Questo significa che chi ci governa non fa e non ha fatto nulla per mantenere il settore sanitario all’altezza delle aspettative dei cittadini.
Il rapporto Censis 2018 sulla sanità pubblica e privata, stima che entro il 2025 saranno necessari tra i venti e i trenta miliardi di investimenti nel settore, dato che il costo delle cure mediche pro capite salirà a 900 euro annui. I dati dimostrano che il sistema sanitario italiano sia sempre meno pubblico, poiché il 40% dei servizi è erogato da strutture private. Sebbene inoltre in Italia il 74% della spesa sanitaria sia ancora a carico dello Stato, la spesa dei cittadini – ovvero quella direttamente a carico di chi si rivolge a strutture private – è del 26% . Queste spese non sono poi “ammortizzate” in nessun modo, in quanto solo il 4% degli italiani ha un’assicurazione sanitaria: un maggiore sviluppo della sanità integrativa – polizze, assicurazioni, fondi – permetterebbe invece di ridurre le spese dirette per i cittadini. Infatti, negli Stati Uniti, dove pure la spesa pubblica si ferma al 49%, la spesa direttamente privata – non mediata da polizze – è solo dell’11%, contro il 22% della spesa privata italiana.
Secondo Marco Vecchietti, amministratore delegato di Rbm Assicurazione Salute “La spesa sanitaria privata media per famiglia ha raggiunto quota 1.437 euro”. Una situazione che mette in difficoltà non solo i pazienti ordinari, ma soprattutto chi è affetto da problemi di salute cronici: “Nella maggior parte dei percorsi di cura, gli italiani si trovano a dover accedere privatamente a una o più prestazioni sanitarie,” continua Vecchietti. “La necessità di pagare di tasca propria cresce in base al proprio stato di salute (per i cronici la spesa sanitaria privata è in media del 50% più elevata di quella ordinaria) e all’età (gli anziani spendono il doppio della media)”. Il Censis ha rilevato che 7 italiani su 10 hanno pagato di tasca propria le prestazioni sanitarie. Di questi, il 70% ha acquistato farmaci, il 60% ha pagato visite specialistiche, il 50% ha prenotato analisi in laboratorio e il 40% ha speso per protesi odontoiatriche. Il risultato è che nel 2017 si sono indebitati 11 milioni di italiani per accedere alle cure necessarie.
Questo tipo di pressione economica è cresciuta nel tempo: i dati indicano un incremento dell’incidenza della spesa sanitaria sulle finanze dei cittadini del 9,6% dal 2013 a oggi, con grandi differenze tra Nord e Sud Italia. Al Nord si concentra la metà delle detrazioni sanitarie – circa il 59% – al Centro il 22% del totale, mentre Sud e Isole si fermano al 19%. Questo significa che un cittadino settentrionale è più agevolato quando accede alle cure rispetto a uno del Centro e soprattutto del Sud e la spesa sanitaria inciderà meno sul suo bilancio. Per fronteggiare le lacune del sistema il 20% dei residenti al Nord ha dichiarato di aver fatto ricorso a conoscenze o raccomandazioni per accelerare l’accesso a visite mediche o accertamenti. La percentuale si attesta al 17% al Centro, mentre al Sud – dove le mancanze della sanità pesano maggiormente – il dato sale al 33%.
Un quadro così sconfortante avrebbe bisogno di un ripensamento radicale degli investimenti per il settore sanitario. Invece la spesa pubblica per la nostra salute diminuisce di anno in anno. Secondo il rapporto Gimbe 2019 nell’ultimo decennio sono stati tagliati al Sistema Sanitario Nazionale 37 miliardi di euro di finanziamenti, un trend in parte confermato dalle mosse del governo gialloverde. Il Def 2019 ha stabilito che il 6,6% del Pil sarà destinato alla sanità nel biennio 2019 – 2020, una percentuale che nel 2021 scenderà al 6,5% e nel 2022 al 6,4%. Tuttavia se il Pil si riduce anche la spesa sanitaria si contrae in modo proporzionale, costringendo i cittadini a coprire i costi di ciò che non viene investito. Negli ultimi giorni sta però circolando una bozza rivista del Patto per la Salute fra ministero e Regioni che doveva destinare 2 miliardi di euro aggiuntivi al settore sanitario. Nella nuova versione è stata aggiunta una clausola che approva l’allocazione di risorse solo “al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica e variazioni del quadro macroeconomico”, ovvero salvo eventuali imprevisti e spese inattese. In pratica la nostra salute non è una priorità per il governo, che si preoccupa di ridurre i finanziamenti proprio dal settore che ne ha più bisogno.
Ci troviamo di fronte a una progressiva erosione dei mezzi del sistema sanitario che non tiene conto della realtà anagrafica della popolazione né dei bisogni dei cittadini. Confrontando le nostre percentuali con quelle di altri Paesi europei il divario è evidente. Dal 2010 a oggi la spesa sanitaria pubblica pro capite è diminuita dell’8,8%, in linea con le nazioni che hanno sofferto di più la crisi, ovvero Grecia (-38%), Portogallo (-11%) e Spagna (- 3,8%). Al contrario gli Stati con le economie più solide hanno aumentato la spesa destinata alla sanità: + 2,6 nei Paesi Bassi, + 6,2% in Francia e addirittura +11, 4% in Germania. Rispetto alla media europea l’Italia si trova tra i Paesi fanalino di coda.
Il ministro della Salute Giulia Grillo ha dichiarato che “La nostra sanità è stata messa in ginocchio dalla cattiva politica che l’ha usata come un bancomat,” addossando tutte le responsabilità ai passati esecutivi. Eppure la promessa inversione di tendenza non si è ancora vista: le risorse di cui ha bisogno il settore non sono ancora state stanziate e il sistema si indebolisce di anno in anno. Allo stesso modo non è stato affrontato il problema dei tempi delle liste di attesa né la carenza di personale sanitario, che potrebbe assumere i contorni di una vera e propria emergenza nazionale nell’arco di una decina di anni.
Per effetto di Quota 100 si stima che nei prossimi cinque anni andranno in pensione circa 45mila medici, fra ospedalieri, di base e specialisti. Il settore che presenta maggiori criticità è proprio quello degli specialisti, dato che la loro formazione richiede molti anni di studio rendendo difficile sostituirli in così poco tempo. Secondo Carlo Palermo, vice segretario nazionale di Anaao Assomed “Le specializzazioni in crisi sono quelle su cui si è sviluppato il Servizio Sanitario Nazionale dalla sua nascita 40 anni fa. Si tratta di medicina interna, chirurgia generale, pediatria in generale, ortopedia e cardiologia. Queste materie rappresentano l’asse portante degli ospedali italiani”. Il risultato è che entro il 2025 potrebbero mancare 16.500 medici nelle strutture sanitarie italiane, soprattutto a causa della mancanza di fondi che crea il cosiddetto “imbuto formativo” di migliaia di medici abilitati che non riescono ad accedere al percorso di specializzazione. Nel frattempo i medici stranieri sono raddoppiati dal 2000 a oggi, arrivando alla cifra record di 18mila unità, anche se la maggior parte lavora ancora nel settore privato. Il risultato è che molti giovani medici scelgono la specializzazione all’estero, con il rischio che non tornino più ad esercitare in Italia.
L’unico dibattito affrontato dal governo negli ultimi mesi è stato quello sull’obbligo vaccinale, occupando l’agenda pubblica a discapito di problemi ben più urgenti. Non stupisce che, sempre secondo il Censis, il 38% degli italiani provi un sentimento di rabbia nei confronti del sistema sanitario. Si tratta dell’ennesimo tassello che compone il paesaggio emotivo dell’Italia del rancore: una cittadinanza impotente, mediamente più povera, meno istruita, più diffidente nei confronti dell’altro, e ora anche rassegnata a ricevere delle cure non all’altezza di un Paese occidentale.