Il caso di Saman Abbas conferma che in Italia le donne sono vittime di un sistema che non le tutela - THE VISION

L’11 aprile Saman Abbas, una ragazza di 18 anni residente a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, è scomparsa dopo aver fatto ritorno dalla sua famiglia. La ragazza aveva scoperto dell’esistenza di un biglietto aereo a suo nome diretto in Pakistan, dove avrebbe dovuto sposare un uomo più grande. Dopo essersi opposta al matrimonio combinato e aver denunciato i suoi genitori lo scorso dicembre, era stata ospitata da una struttura gestita dai servizi sociali nel bolognese.

Quello di costrizione o induzione al matrimonio è uno dei reati introdotti dal 2019 nel Codice Rosso, insieme a quello di diffusione di immagini o video sessualmente espliciti senza consenso (“revenge porn”), di stalking e di deformazione dell’aspetto attraverso lesioni al volto. Eppure un anno fa l’Italia è stata nuovamente bocciata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per non essere in grado di tutelare le vittime di violenza domestica in seguito a un report in cui sono emersi dati abbastanza desolanti sul nostro Paese a causa dell’eccessivo numero di assoluzioni e di archiviazioni delle denunce. GRIEVO ha infatti riferito che “nonostante i progressi tangibili e significativi nel modo in cui le forze dell’ordine affrontano la violenza di genere, le associazioni per i diritti femminili hanno riferito che persistono discrepanze nel modo in cui queste istituzioni registrano, elaborano e segnalano alla Procura le denunce di violenza”. I rapporti da parte della polizia sono spesso vaghi e incompleti e le squadre che intervengono sul posto spesso vedono la violenza come una banale lite familiare e il loro ruolo come quello di “riconciliatori” della famiglia, anziché proteggere la vittima e sostenere un’azione penale con la giusta raccolta di prove.

In questi giorni le forze dell’ordine sono sulle tracce di Saman Abbas, dopo aver ipotizzato il sequestro o l’omicidio da parte della famiglia, eppure la ragazza è solo l’ultima di una lunga serie di donne che hanno denunciato parenti, vicini di casa o mariti e poi sono state uccise o aggredite. Ogni giorno i notiziari televisivi italiani riportano almeno un episodio di questo stesso tipo: poco tempo fa è stato il turno di Paola Piras, vittima di maltrattamenti da parte dell’ex compagno che era già destinatario di una misura di divieto di avvicinamento (motivo per cui è partita una petizione su change.org che ha raccolto più di 34mila firme per l’inasprimento delle sanzioni), ma anche quello di Clara Ceccarelli, la cui denuncia era stata archiviata e in seguito è stata uccisa, e due anni fa quello di Adriana Signorelli, accoltellata dopo aver attivato anche la procedura del Codice Rosso. La lista è molto lunga, e ascoltando queste notizie ci si pone sempre la stessa domanda: se avevano già denunciato, perché hanno fatto questa fine?

Quello di Saman Abbas è l’ennesimo caso di migliaia. Le donne non muoiono per fatali coincidenze, ma perché un intero sistema non le protegge. Secondo l’Istat, nel 2020 le chiamate al 1522 (numero Anti Violenza) sono aumentate del 79,5%, eppure i femminicidi sono cresciuti del 7%. Proprio nel 2017 l’Italia era già stata ammonita e condannata dalla Corte di Strasburgo per simili motivazioni rispetto al caso Talpis: in seguito a due episodi di violenza domestica, Elisaveta Talpis, residente a Udine, aveva presentato una denuncia contro il marito e chiesto maggiori misure di protezione da parte delle autorità. Fu aperto un procedimento per maltrattamenti in famiglia, minaccia aggravata e lesioni personali aggravate dall’uso dell’arma, ma il Pubblico Ministero si era poi determinato a chiedere un’archiviazione parziale. Il terzo episodio, passato inosservato sotto gli occhi della polizia e delle istituzioni che avrebbero dovuto proteggerla, ha portato alla morte del figlio di 19 anni e al tentato omicidio di Elisaveta. La Corte di Strasburgo ha riscontrato diverse violazioni, tra cui quella dell’articolo 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per non aver protetto la vita della donna e del figlio, la violazione dell’articolo 3 della medesima Convenzione per non averla protetta dalla violenza domestica del marito, oltre a una violazione dell’articolo 14, “ovvero il venir meno di uno Stato all’obbligo di protezione delle donne contro le violenze domestiche, intrinsecamente discriminatorio”, affermando ufficialmente che l’omicidio del figlio e il tentato omicidio della donna si sono verificati per mancanza di attenzione e protezione da parte della polizia e del governo.

La legge è chiara, ma quante vittime ci devono essere ancora perché venga correttamente applicata? Se la maggior parte delle donne vittime di abusi aveva già segnalato casi di violenza fisica e psicologica in precedenza qual è il senso di misure come il Codice Rosso e di eventi e manifestazioni contro la violenza domestica, se non sono accompagnati da controlli adeguati? Le donne non solo non vengono credute, ma vengono ampiamente ignorate: viviamo in una società che normalizza questo tipo di violenze, che sono veri e propri atti di forza su una categoria marginalizzata, attuati da chi nella maggior parte delle volte sa di poterne uscire indenne. Secondo Loredana Piazza, avvocata e fondatrice del centro Antiviolenza Thamaia, uno dei problemi cruciali sta nella formazione degli operatori pubblici: in un’intervista ha dichiarato che “dovrebbero essere correttamente formati, dalle forze dell’ordine ai magistrati passando per avvocati e giornalisti. Il problema è riconoscere la violenza e per riconoscerla bisogna sapere che cos’è in tutte e come si presenta. Così si fa anche più facilmente la valutazione dei rischi e si possono prendere i provvedimenti adeguati”.

Nonostante l’attivismo e gli apparenti progressi degli ultimi anni, è ancora estremamente necessario lavorare sugli aspetti culturali che restano alla base di un sistema giudiziario frustrante, che non offre né protezione né ascolto o credibilità verso le vittime e tenta anzi di sminuire i fatti anziché cercare di risolverli dandogli il giusto peso. Bisogna lottare per una giustizia pronta, rapida ed efficiente, perché purtroppo anche se qualcuno cerca di sostenerlo le donne nel 2021 non hanno ancora già raggiunto pieni diritti. La Svizzera ha introdotto una base legale per la sorveglianza elettronica di persone potenzialmente violente con l’entrata in vigore nel 2022, mentre per quanto riguarda la Svezia, GREVIO ha sottolineato le numerose misure legislative adottate dal Paese negli ultimi 40 anni contro gli abusi domestici conferendole il riconoscimento di leader esemplare in questo ambito.

Molti si chiedono perché non siamo ancora riusciti a creare un ambiente favorevole alla denuncia degli abusi psicologici, delle violenze domestiche, dei matrimoni combinati, degli obblighi a sfondo sessuale. Il problema è che se non riusciamo a cambiare la cultura e gli stereotipi alla base della questione non basterà mai finanziare i centri antiviolenza, sostenere leggi e normative adeguate per far fronte e prevenire queste tragedie. Solo quando i diritti delle donne saranno riconosciuti dalla società e tutelati dalla legge e dallo Stato allora si potrà parlare di reale parità di genere e democrazia.

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