Il 2 maggio, il ministro dell’Interno Matteo Salvini si è recato in Ungheria per incontrare il primo ministro Viktor Orbán. Lo scopo di questo incontro era creare un’alleanza nazionalista, conservatrice e anti-immigrazione in vista delle elezioni europee che, secondo la visione di Orbán, dovrebbe spostare il Partito Popolare Europeo verso destra, per evitare un’alleanza con i Socialisti europei. Il Ppe è un partito conservatore che raccoglie principalmente partiti di centro, centro-destra e cristiano democratici, di cui fa parte anche Fidesz di Orbán, nonostante le sue posizioni più estremiste e identitarie.
Fra i momenti con maggiore eco mediatica della giornata si è distinto l’incontro fra i due leader sul confine con la Serbia, nella cittadina di Roeszke, dove si erge il muro per bloccare la rotta dei migranti provenienti dal Paese balcanico. Non è nuova la linea dura e intollerante del presidente Orbán in tema di immigrazione: il 12 settembre dello scorso anno, il Parlamento europeo ha approvato la procedura di sanzione contro l’Ungheria per la violazione dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea, che riguarda il rispetto della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti umani. Anche in quell’occasione il ministro Salvini aveva mostrato il suo sostegno a Orbán, ribadito in questi giorni in un’intervista per la Tv ungherese dove ha affermato che c’è bisogno di “Un’Europa che difenda i suoi confini esterni e che rimetta al centro il lavoro, la famiglia, la nostra cultura e le tradizioni cristiane”. Salvini non si è fermato qui, parlando anche del suo timore che l’Europa “diventi un califfato islamico”.
Il Ministro Salvini è visto come un “eroe” da Orbán, in quanto anche lui sostenitore delle politiche xenofobe, attuate in nome di un’identità europea da preservare – un’Europa bianca e rigorosamente cristiana, come se tutte le persone nate in questo continente lo fossero necessariamente. Il costante allarmismo, l’incitamento all’odio e la ricerca di un nemico su cui scaricare i problemi dell’Italia sono i tre elementi fondanti della linea che Salvini continua ad adottare per ottenere consensi, portando a modello gli Orbán e i Trump di tutto il mondo, che pensano di poter risolvere una situazione complessa alzando muri e violando i diritti umani. Se per i Paesi europei che non hanno sbocchi sul mare è relativamente più semplice costruire muri e delegare ad altri la gestione dei flussi migratori, non è altrettanto semplice, per ovvi motivi, per Stati come l’Italia.
A tal proposito, sarebbe utile tornare a parlare del regolamento di Dublino, che gli Stati europei stanno cercando di riformare, e delle sue ripercussioni. La normativa attuale prevede che a occuparsi del richiedente asilo sia il primo Stato dove viene presentata la domanda, rendendo quindi Paesi come Italia e Grecia particolarmente esposti ai flussi migratori. L’eurodeputata Elly Schlein ha da sempre sottolineato l’ipocrisia di Salvini nel non voler considerare la riforma di tale regolamento come prioritaria per arrivare a una gestione umana e legale dei flussi migratori. Schlein sostiene che una riforma del regolamento di Dublino sia necessaria in materia di ricollocamenti obbligatori, per far sì che tutti i paesi dell’Unione collaborino nella gestione delle emergenze umanitarie. Nel 2017, quando il Parlamento europeo doveva esprimere il suo voto riguardo alla riforma, la Lega si è astenuta mentre il M5S ha votato contro. Subito dopo, ha anche smesso di collaborare alla stesura della riforma, nell’estate dello stesso anno.
Dal 2017 la riforma, che pure aveva ottenuto il via libera, rimane congelata, grazie anche all’impegno di Salvini che alla collaborazione con la Ue preferisce l’accordo con i Paesi del gruppo di Visegrad – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – che rifiutano ogni ipotesi di rivedere la normativa attuale. Il ministro dell’Interno chiede meno pressione sulle coste italiane, alleandosi con chi non vuole assumersi la responsabilità dei ricollocamenti. La posizione di Salvini vuole preservare lo status quo: da un lato descrive l’Europa come il nemico che ha abbandonato l’Italia nella gestione dei picchi migratori e dall’altro si schiera con Orbán per poter utilizzare lo spauracchio dell’”emergenza migranti” come arma elettorale.
Benché Salvini abbia più volte sostenuto di essere riuscito a “chiudere i porti”, gli sbarchi sono invece continuati. A ogni difficoltà che si crea, come nel caso del sequestro della nave Diciotti, per cui ha evitato il processo avvalendosi dell’immunità parlamentare, o per il caso della nave Sea Watch battente bandiera olandese, per cui ha detto all’Olanda “si occupi della sua Ong”, Salvini rende questi episodi dei casi mediatici chiamando in causa l’Europa. La verità però è che senza un piano comune e senza una collaborazione tra Stati europei, ci si troverà sempre impreparati in questi casi di emergenza, dando quindi la possibilità all’estrema destra di creare un’Europa chiusa nella sua fortezza identitaria e intollerante. Vi è anche molta disinformazione sulle persone che arrivano dal continente africano: chi nei post sui social network dice “tutta l’Africa qui non ci entra” ha una visione completamente distorta della realtà, paragonando le persone sulle navi all’Africa intera, senza comprenderne la grandezza, le diversità o le caratteristiche economico-sociali. Chi parte da Paesi come la Nigeria, per esempio, costituisce una netta minoranza rispetto alla sua popolazione. C’è una concezione sbagliata e sempre più diffusa del fatto che l’Africa sia un “continente in fuga” o una “terra da salvare” (per cui “aiutiamoli” a casa loro’ è diventato un mantra).
Secondo il rapporto 2017 del Dipartimento per gli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite, mentre per il Nordafrica – quindi per Paesi come Egitto, Tunisia e Marocco – la prima destinazione è l’Europa, per i Paesi dell’Africa subsahariana la prima meta di destinazione è l’Africa stessa e, se possibile, la medesima regione. Sempre secondo il rapporto, il 93,6% delle persone che provengono dall’Africa occidentale – quindi da Paesi come la Nigeria, il Mali, il Senegal, il Gambia – non lascia il continente, ma si trasferisce in un altro Paese della stessa area, mentre il 40% delle persone che provengono dall’Africa centrale si trasferisce in quella orientale – quindi Kenya, Tanzania, Etiopia. Ciò è dovuto soprattutto alle possibilità economiche: generalmente chi non può permetterselo non abbandona l’Africa.
Rimane quindi l’incognita della motivazione che sta alla base della scelta di affrontare un viaggio pericoloso nel Mediterraneo e capire se la “soluzione” adottata da Salvini e per cui parteggiano i suoi sostenitori sia davvero efficace per affrontare il fenomeno migratorio. La risposta è no, perché il problema sta a monte: le legge Bossi-Fini che regola l’immigrazione in Italia è infatti obsoleta, non gestendo i flussi e finendo per favorire l’immigrazione irregolare. La legge ammette i respingimenti in mare, senza tenere in considerazione che a bordo vi possano essere persone con diritto alla protezione internazionale. Senza un’attenta verifica che può essere fatta solo facendo attraccare la nave, l’applicazione della normativa viola l’art. 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea.
Inoltre, a causa della Bossi-Fini, entrare in Italia regolarmente è impossibile se non si possiede un contratto di lavoro e ciò implica che chi non lo ha, non può entrare regolarmente per cercarlo in Italia. Si tratta di una legge che non guarda al futuro ma punta alla chiusura, impedendo di entrare in Italia con un regolare visto d’ingresso per cercare lavoro – il che eviterebbe di dover affrontare mare, deserti o, peggio, i campi di detenzione in Libia – o di soggiornarvi in quanto aventi diritto di protezione umanitaria. Le limitate possibilità di entrare legalmente in Italia previste dalla Bossi-Fini hanno poi subito una stretta tale con il Decreto Sicurezza che si potrebbe parlare ormai di una sua abolizione de facto.
Come afferma in un suo articolo Mattia Toaldo, analista del Consiglio europeo per gli Affari Esteri, l’Europa – e quindi anche l’Italia – dovrebbe focalizzarsi sui rapporti con i singoli Stati del continente africano, in particolare con quelli di origine delle persone che arrivano sulle nostre coste. Questo significa cambiare approccio sulle politiche migratorie: bisogna sostituire la chiusura totale o l’”aiutiamoli a casa loro” con rapporti bilaterali basati su relazioni di scambio tra gli Stati e opportunità lavorative, possibili solo con la concessione di più visti economici. Più che di chiusura dei porti, bisogna iniziare a parlare di canali legali e sicuri per raggiungere l’Europa, contrastando la linea adottata dai Paesi del gruppo di Visegrad – Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – totalmente inutile e inapplicabile, soprattutto per gli Stati che si affacciano sul mare.
Se davvero si vuole risolvere la questione migranti, occorre che tutti gli Stati europei si impegnino a trovare una linea comune, affinché nessun Paese si trovi in difficoltà nella gestione dei flussi. Serve un cambiamento nelle relazioni tra Stati – sia europei che extraeuropei – per favorire politiche che mettano al centro la sicurezza di chi è costretto a migrare. Occorre poi smontare la retorica salviniana: lanciare hashtag come “restiamo umani” o “aprite i porti” può sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema, ma ha una scarsa efficacia nel cambiare davvero lo stato delle cose. L’ipocrisia di Salvini sta nel pretendere che l’Europa si mobiliti per gestire l’immigrazione, ma senza supportare una collaborazione tra Stati. È necessario evidenziare le contraddizioni e i metodi totalmente fallaci del suo modus operandi, cercando anche di coinvolgere di più l’opinione pubblica tramite una corretta e accessibile informazione sulle leggi vigenti in materia di diritti umani e diritto d’asilo. Infine, bisogna ricordare che le migrazioni hanno sempre fatto parte della storia dell’umanità, cercando di comprendere la complessità del fenomeno per poi agire nel rispetto dei diritti umani basilari. Solo così si può impedire a Salvini e ai suoi sostenitori di rendere l’Europa una fortezza inaccessibile con l’aiuto di chi, come Orbán, pensa sia possibile fermare l’immigrazione con il filo spinato.