Le parole di Salvini sostengono la legge del taglione. Per questo sono pericolose.

Giovedì 1 agosto, ore 13:59. Un uomo festeggia sui social il reintegro dell’educazione civica come materia obbligatoria nelle scuole italiane, un passo avanti a livello di educazione, rispetto e civiltà. Lo stesso uomo, appena 55 minuti dopo, sempre sui social, scrive riferendosi a una donna rom: “Stai buona, zingaraccia, stai buona, che tra poco arriva la RUSPA”. Meno di una settimana dopo rincara la dose: “”Raderemo al suolo casa di quella fottutissima zingara”. Senza dubbio si tratta di un individuo al passo coi nostri tempi bui, privi di umanità e attorcigliati al nodo degli insulti e dell’odio. Per lo sdegno verrebbe quasi voglia di andare oltre, ma non è possibile, perché l’uomo in questione è il ministro dell’Interno della Repubblica Italiana.

Matteo Salvini ha trascritto su Twitter quelle dichiarazioni estrapolandole da una sua intervista a Sky Tg24. La sua è stata una reazione contro una donna che gli augurava di prendersi una pallottola in testa. Una frase ovviamente inaccettabile, ma la replica del ministro ha assunto i toni di un pensiero razzista, sguaiato e totalmente inadatto a un ruolo istituzionale. Di fronte a chi l’ha criticato, Salvini ha dichiarato di non essersi pentito per quella frase, concentrandosi esclusivamente sulle parole della donna e non sulla gravità di quell’espressione. Tanto da ribadire il concetto, durante il suo ultimo comizio a Arcore: a cambiare è stata solo la connotazione della “zingaraccia”, che adesso è diventata anche “fottutissima”. Non ha capito che è appunto il termine “zingaraccia” il problema centrale. Se Salvini l’avesse chiamata “stronza” o “maledetta” avremmo semplicemente commentato il suo linguaggio forte, distante dal galateo politico dei tempi che furono e certamente fuori luogo per un ministro. Usando l’espressione “zingaraccia” ha invece attaccato la donna allacciandosi a un odio etnico, aggravando ancor di più le esplicite minacce contenute nel suo tweet. È la sua versione di “colpirne uno per educarne cento”, in cui il tribunale è Facebook e i giudici sono gli utenti inferociti, aizzati proprio da un ministro che non diffonde quella che dovrebbe essere la sfera “alta” del rigore del suo ruolo, in quanto rappresentante dello Stato, ma sprofonda nelle bassezze del sentimento popolare più incarognito. Le sue minacce, che a questo punto possono essere fermate soltanto dal Quirinale, sono indirizzate a una precisa categoria.

Perché la ruspa sta arrivando per tutti gli zingaracci, non per tutti gli stronzi o maledetti.

Quello che Salvini lascia intendere è che chi si indigna per le sue parole sia automaticamente a favore dei comportamenti della donna rom. È una strategia subdola, il gioco di causa ed effetto dove mancano volutamente diversi tasselli e altri si uniscono senza un apparente nesso. Salvini ha attuato la stessa strategia quando è stata diffusa la foto dell’americano bendato in caserma. Invece di stigmatizzare un comportamento illegale, il leader leghista ha fatto leva sulla rabbia popolare, sviando il discorso e giustificando il gesto perché tanto quel ragazzo è un “bastardo assassino”. Ha così fatto capire di non sapere nulla sullo Stato di diritto e, cosa ancor più grave, ha voluto polarizzare l’opinione pubblica, come se ci fossero schieramenti a favore o contro l’americano.

Quello che Salvini finge di non capire è che anche le persone infastidite da quella foto ritengono che il ragazzo vada processato e condannato qualora fosse riconosciuta la sua responsabilità per l’omicidio di Mario Cerciello Rega; semplicemente la nostra Costituzione non prevede la vendetta privata o la privazione dei diritti umanitari di base – nemmeno per il peggiore dei criminali – e si spera che la logica del “Nessuno tocchi Caino” possa restare ancora valida. E così, traslando questo assunto alla querelle della “zingaraccia”, nessuno ha mai santificato la donna in alcun modo. Questo non ci preclude di provare vergogna per un ministro dell’Interno xenofobo e che minaccia le persone con facili “intimidazioni”.

Uno Stato democratico, in casi come questo, imporrebbe di dosare le parole. Il problema è che Salvini le dosa già, ma a suo vantaggio. Più che un dosaggio è un uso scientifico, un metodo di propaganda di basso livello che sdogana gli insulti più triviali. Quando il vicepremier definisce Carola Rackete “la zecca tedesca”, attinge a uno specifico vocabolario, quello della destra italiana, usando un termine che già nella sua storia sottoculturale è un epiteto umiliante, l’insulto per eccellenza da affibbiare ai nemici di sinistra. Almeno Berlusconi si limitava a “comunista”, anche in assenza del comunismo. Sembrava il giapponese convinto di essere ancora in guerra, a trent’anni dal termine del conflitto mondiale. Salvini invece non è fuori dal tempo, quindi trasforma “comunista” in “zecca”, insulto valido anche dopo il crollo del muro di Berlino. E così non si fa scrupoli anche a usare il termine “zingaraccia”. Lo fa con naturalezza, come se fosse una parola innocente e senza conseguenze. In realtà per la comunità rom è un termine discriminatorio, l’equivalente di “negro” per una persona di colore. Questo perché è una parola usata da una maggioranza per indicare una minoranza. Minoranza che invece non la usa, e in romanes non esiste nemmeno una traduzione di zingaro. Quindi l’uso di questo termine è scorretto e offensivo, ma a Salvini non importa e anzi lo sdogana allegramente.

Nell’epoca della comunicazione social il lessico dei politici assume un’importanza ancora maggiore, proprio perché viene ripreso dalle varie fazioni e dai media fino a entrare nel dizionario quotidiano. La frase “È finita la pacchia” è ormai da più di un anno indirizzata a chi scappa da guerre, morte e miseria, rischiando la vita in mare. Servirebbe un senso di responsabilità maggiore da parte dei politici, ma in realtà sono i primi ad autoassolversi, alimentando questo vortice di violenza verbale. Ad esempio il leghista Claudio Durigon, sottosegretario al Lavoro, ha dichiarato: “La parola ‘zingaraccia’ non è dispregiativa, è solo un intercalare”. Questo non è altro che un tentativo di legittimare l’odio cavalcando gli istinti più bassi della gente. Perché ‘zingaro’ o ‘negro’ non vanno utilizzati nemmeno al bar,  ed è una vergogna se a farlo è chi dovrebbe rappresentare il popolo italiano.

Claudio Durigon

Quelle di Salvini non sono gaffe o scivoloni, ma azioni calcolate. L’errore che continuiamo a fare è quello di soffermarci sui suoi lati più grotteschi, quasi a macchiettizzarlo. È certamente vero che non appare come un uomo elegante e di classe – come dimostrano le sue peripezie al Papeete – ma questo non deve mitigare la portata della sua scaltrezza. Dovremmo considerarlo per quello che è: non uno sprovveduto di pessime maniere, ma un pericoloso stratega. Perché quando si diventa il megafono per tutte le esternazioni d’odio è doveroso porsi qualche domanda. Soprattutto perché spesso dietro a queste esternazioni c’è la volontà di distogliere l’attenzione da questioni ben più gravi, come i rapporti occulti della Lega con Mosca.

Dietro il termine zingaraccia c’è un mondo che oltrepassa la parola stessa. C’è l’insistenza di un ministro che chiede un censimento per i rom. Rom che, è bene ricordarlo, per la metà sono cittadini italiani, dunque si tratta della proposta di un censimento su base etnica. Come per gli ebrei durante il nazifascismo. Salvini è conscio di questo, non a caso arriva a dichiarare che “I rom italiani purtroppo dobbiamo tenerceli”, scavallando qualsiasi forma di rispetto costituzionale. Di solito quando il leader del Carroccio si affida agli insulti lo fa per insabbiare altre vicende. Gli basta imbastire una polemica per un termine infelice per spostare l’attenzione e far dimenticare gli scandali che lo riguardano o la sua malapolitica. Non è una distrazione casuale, ma un metodo programmato nei minimi dettagli. Scandalo rubli? Facciamo un po’ di gazzarra a Milano Marittima. I legami con Arata mettono a repentaglio la sua presunta credibilità? Andiamo a fare una visita a Bibbiano. Salvini non ha fatto altro che creare un’arena dove assistere alle guerre fratricide tra i cittadini italiani. Così mentre una zecca, una zingara e un terrone si interrogano sul proprio futuro, lui non fa nulla per aiutarli.

Se fino a qualche anno fa esistevano delle norme non scritte che impedivano alla gente di inseguire gli impulsi più abietti, adesso tutto il Paese sembra essere diventato una zona franca. Gli urlatori da bar si sono trasferiti su Internet, poi nelle piazze, infine tra i banchi del Parlamento. Il confine tra istigatore e istigato non è più così nitido. Gli italiani sono diventati delle bestie rabbiose per il lasciapassare di Salvini o Salvini è arrivato al potere per il lasciapassare di chi già covava quella rabbia? Un ventennio di berlusconismo di certo non ha aiutato, e gli effetti del degrado culturale della nazione nascono da quella matrice. Il salvinismo ne è però un’evoluzione ancor più strisciante, un virus che si trasmette e circola attraverso la frustrazione. È confortante individuare un colpevole per la propria miseria, un nemico causa-di-tutti-i-mali. Che sia un migrante, un rom, un omosessuale o una capitana tedesca. E non c’è soddisfazione più grande di ascoltare il capobranco grugnire contro determinate categorie o contro i singoli individui. Gli insulti di Salvini fanno più rumore perché sospinti dall’eco di chi si appoggia a questa narrazione: gli schiamazzi formano un coro. Ciò che però determinerà la fine politica di Salvini è il silenzio di chi adesso non sta parlando, che incamera ogni “zecca” e “zingaraccia” ma che un giorno deciderà di alzarsi e con la propria preferenza elettorale dire al leghista che “la pacchia è finita”. E quello non sarà un intercalare.

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