I migliori alleati di Salvini sono i giornalisti italiani. Solo che non lo sanno.
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Sulla manipolazione psicologica sociale e la sua attuazione attraverso la propaganda politica sono stati scritti chilometri di saggi e trattati. Così come migliaia di parole sono state dette su quanto il Gran Visir del popolo dei bacioni Matteo Salvini, e i suoi piccoli aiutanti di Babbo Natale capeggiati da Luca Morisi, siano grandi estimatori della distrazione di massa. Ormai dovrebbe essere infatti chiaro a tutti come l’operazione di conquista della penisola italica debba la sua riuscita proprio all’annessione in prima battuta degli utenti social, al suon di “combattenti del Facebook, del Twitter e dell’Instagram”. Abbiamo più volte spiegato come, proprio attraverso i social media, il ministro con la spilla di Alberto da Giussano inebetisca, aizzi, o semplicemente fidelizzi a colpi di buongiorno la massa. Quello che invece appare, incredibilmente, ancora poco chiaro è come proprio grazie ai social il ministro sia in grado di ottenere l’egemonia sulle pagine dei principali quotidiani e sulle home page dei siti all news. Nessuna epurazione o lista di proscrizione, a Matteo Slavini e al team di comunicazione è bastato qualche post per raggiungere la loro più grande vittoria: assoggettare i media italiani con 140 caratteri e qualche diretta Facebook. Un fenomeno anche più grave, perché più subdolo, della lottizzazione della Rai. Solo che i media italiani ancora non l’hanno capito. 

Prediamo ad esempio il 29 maggio. I siti internet dei principali quotidiani del Paese sono alle prese con notizie imprescindibili come l’ospitata di Pamela Prati a Chi l’ha visto, o l’impresa di un’insegnante di yoga canadese capace di battere il record del mondo di planking con il tempo di 4 ore e 20 minuti. Accanto a queste vicende internazionali la politica italiana ha le sue beghe, in particolare Matteo Salvini. Nel pomeriggio i cattivoni dell’Europa decidono di inviare l’ennesima lettera in cui si chiede conto al governo italiano delle previsioni di aumento del debito pubblico. Si prevedono quindi numerose domande al ministro riguardo il suo proposito, mai celato, di fregarsene del rispetto delle regole comunitarie – tanto se facciamo le manovre a debito che ce ne frega, quel debito lo pagherà qualcun altro. Oltre a questa insolente letterina c’è un altro problema, grosso per la Lega: è infatti attesa per il giorno successivo la sentenza del processo sulle “Spese Pazze” alla Regione Liguria. Non è una sentenza da poco, perché fra gli imputati ci sono leghisti di spicco come il senatore Francesco Bruzzone, e soprattutto il viceministro alle Infrastrutture e ai Trasporti Edoardo Rixi. Ci si aspetta una condanna. Così, oltre alle domande sul debito e le tasse, il ministro potrebbe trovarsi a dover rispondere sull’ennesimo caso di mal governo della Lega – con una condanna oltretutto legata a un odioso caso da “vecchia casta”, con rimborsi riguardanti addirittura 1774 euro spesi nella pelletteria di lusso a Tolentino, o gli acquisti al ” Chocolate Town” all’Outlet di Serravalle. Il ministro e vice presidente del Consiglio non può rischiare di farsi trovare impreparato o di mostrarsi esitante di fronte al suo popolo, e allora viene da pensare che si preparerà per ribattere punto per punto alla lettera dell’Ue e magari condannerà fermamente il comportamento di quello che lui stesso ha scelto come viceministro quando già era imputato nel processo. E invece no, sarebbe una strategia troppo poco d’impatto – e poi vallo a trovare qualcuno che sa rispondere nel merito alle richieste di chiarimento dell’Europa. Così, in serata, il ministro lancia una diretta su Facebook, da una di quelle terrazze romane che un tempo si sarebbe detto essere in stile “Grande Bellezza”. 

Edoardo Rixi

Si tratta dei soliti 26 minuti di monologhi randomici, fra ringraziamenti per la vittoria alle europee e promesse come “renderemo i rifiuti una risorsa non un costo”. Sul finale della diretta, però, il colpo di scena, che sembra quasi casuale: “Un bacione a Saviano (…) sto lavorando per una revisione dei criteri di assegnazione delle scorte”. In un attimo centinaia di caporedattori in Italia smettono di pensare allo spread, all’Ue o agli scontrini pazzi della Regione Liguria, e si concentrano solo sulle scorte “che quotidianamente impegnano più di 2mila uomini e donne delle forze dell’ordine in giro per l’Italia”, come dice il cosplayer della divisa. E sulle home page dei quotidiani la diretta del ministro oscura tutto il resto. Così Salvini ha ottenuto esattamente quello che voleva.

Nessuno ricorda però che le stesse identiche parole il ministro le aveva usate già il 28 maggio, e ancora in un post di un paio d’ore prima della diretta. Solita foto di lui alla scrivania, con una penna in mano, mentre dà a vedere di scrivere su un foglio bianco immacolato, a testimonianza del fatto che “sto lavorando oggi pomeriggio alla REVISIONE dei criteri per l’assegnazione delle scorte” – e con una copia di Panorama in bella vista. Quel post è importante non tanto per l’esibizione di Salvini che mostra di lavorare e per una volta non è in giro per comizi, quanto per il fatto che riceve un numero di reaction ben superiore alla media. Quel post delle 18:37 ci spiega come funziona la propaganda social del ministro: nella costante analisi del “sentiment“– che in parole povere consiste nel controllare quali argomenti “tirino” maggiormente sui social – il team della comunicazione del ministro lancia alcuni ami: una volta l’esca sono i rom che rubano, un’altra volta Fabio Fazio che guadagna troppo, una volta la cannabis light in grado di portare chiunque, in un attimo, sulla cattiva strada. Una tecnica utile a capire su quali temi puntare per sviare l’attenzione: l’argomento a cui abboccano più persone vince.

Roberto Saviano

Fin qui nulla di nuovo, Berlusconi con l’amo per eccellenza, coperto al massimo da una minigonna e un reggiseno, ha costruito 20 anni di successi politici. La novità sta in chi abbocca. Infatti, a causa di una patologica incapacità di comprendere ciò che accade, giornalisti, analisti e commentatori italiani oggi preferiscono limitare il loro raggio d’analisi al mondo social. 

E non è un caso che l’agenda setting italiana sia quasi sempre una fedele riproduzione dei trend topic. Nel commento politico questo si traduce in una spasmodica attenzione ai post di questo o quel politico – che poi finisce per essere sempre Salvini essendo quello con la presenza più massiccia sul social. Anche perché – segreto di Pulcinella – anche le redazioni dei giornali utilizzano gli stessi strumenti della famigerata Bestia di Luca Morisi. Vi siete mai domandati perché vedete gli stessi articoli uscire su varie testate a brevissima distanza l’uno dall’altro e con titoli praticamente uguali? Questo succede perché esistono programmi che scandagliano il web e mappano in tempo reale le notizie e i temi che stanno diventando virali, generando maggiore attenzione sui social. Costrette a pubblicare decine di articoli al giorno per mantenere alto il traffico sul proprio sito, le testate all news decidono di puntare su quelle notizie. E così ci troviamo decine di articoli sul record di planking di una maestra di yoga, o sul matrimonio di Nicolas Cage durato appena 4 giorni. Ma cosa succede quando i post social virali sono quelli di un politico, in questo caso di Matteo Salvini? Succede che invece di concentrarsi su un vice ministro della Lega condannato in primo grado perché insieme ad altri consiglieri regionali dei vari partiti si sarebbe fatto rimborsare con soldi pubblici anche “inspiegabili quindici scontrini di fila emessi in uno stesso giorno dal Caffè dell’Angolo di Mondovì” si parla di uno sproloquio su un’ipotetica quanto infondata revisione dei criteri di assegnazione delle scorte. E lo si fa senza una minima traccia di analisi giornalistica, limitandosi a riportare acriticamente le parole del ministro. E dire che sarebbe bastato molto poco per rendersi conto che quella minaccia era da considerarsi ancora più grave proprio perché inesistente, e con l’unico intento di sviare l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma perché inesistente, ci si chiederà, il ministro stava davvero lavorando “insieme agli uomini del ministero dell’Interno e della polizia di Stato”. Beh, allora devono essere parecchio lenti questi uomini. 

Luca Morisi

Era il 21 giugno 2018, quasi un anno fa, quando l’allora neo ministro dell’Interno si lanciava per la prima volta contro Saviano e la sua scorta. E anche in quel caso diceva: “Verificheremo tutti i servizi di vigilanza, (…) occupano circa duemila uomini delle forze dell’ordine”. La rivalutazione delle scorte l’ha poi rilanciata il 9 novembre del 2018. Il 7 febbraio 2019 il ministro ha detto addirittura di avere “sulla scrivania una revisione della modalità di gestione delle scorte perché sono più di duemila gli uomini in divisa al giorno. Entro la settimana prossima firmerò questo provvedimento”. Passano due mesi e nessun provvedimento è mai stato emanato, ma il 10 aprile, intervenendo alla 167esima festa della Polizia, il ministro con la divisa dichiara: “Ho chiesto ai miei uffici un ulteriore approfondimento per tagliare sprechi e inutili privilegi, anche attraverso l’aggiornamento dei livelli di rischio”. E così si arriva al 30 maggio, all’ennesimo “sto lavorando alla revisione criteri delle scorte”, sempre lui e i suoi uomini. Tutti gli annunci tirano in mezzo Roberto Saviano, perché si sa che se i bacioni sono indirizzati a un nemico specifico funzionano meglio. Mai una volta – salvo rare eccezioni e solo dopo qualche giorno – qualcuno si è soffermato a sottolineare la vacuità, oltre che la gravità, di quanto dice il leader della Lega. Né, soprattutto, l’intenzione esclusivamente propagandistica di quella dichiarazione. Salvini non è al lavoro per revisionare alcunché, e questo è necessario sottolinearlo ogni volta, per smontare la sua vuota ma pericolosa propaganda.

Da questa ricostruzione dovrebbe risultare chiaro come, quando e perché Salvini decida di spararla grossa. La stessa identica tecnica degli ami è riscontrabile in occasione del caso Siri, con l’attacco ai negozi di cannabis light; o con i 19 voli di Stato presi per fare campagna elettorale, messi a tacere con la bufala “nel 2019 non ci sono morti nel Mediterraneo” – ci sono voluti giorni perché qualcuno scrivesse che era un’enorme stupidaggine. Ma dovrebbe essere altrettanto chiaro come, quando e perché i giornali italiani sono ormai diventati i migliori alleati della famigerata “Bestia”. A ogni inchiesta sulla Lega, a ogni sconfitta elettorale o difficoltà di governo, basta inventarsi una sparata qualsiasi perché tutti i giornali e i siti la riportino in prima pagina, in maniera del tutto acritica, diventando così veri e propri megafoni della propaganda. È proprio su questa dinamica viziata che Salvini, grazie alla “Bestia”, sta costruendo un crescente successo. Non su chissà quale trucco magico inventato dal suo social manager, ma sull’inettitudine di chi quella macchina dovrebbe comprenderla per mostrarla in tutta la sua semplicità e smontarla. Oggi è Salvini che sceglie e che detta le notizie da prima pagina dei giornali. E i soldi spesi per sponsorizzare i suoi post c’entrano poco, come dimostra un’analisi di OpenPolis. Non vince chi spende di più, ma chi diventa virale e fa abboccare il pesce più grosso: la stampa, per l’appunto.

Questo fenomeno ha una causa le cui radici sono da ricercare nelle profondità della cultura giornalistica italiana. Qui infatti non è quasi mai esistito un dibattito serio sulla natura dell’imparzialità e sulle conseguenze del suo possibile abuso. Il lavoro del giornalista dovrebbe essere quello di indagare la realtà per comprenderla e interpretarla, per renderla più accessibile al pubblico. Nel fare questo il giornalista è chiamato a seguire un principio che nel tempo è diventato un mito: quello dell’imparzialità. Da definizione però si è imparziali quando nel giudicare si adopera obiettività, senza favorire gli uni o gli altri per interesse o per simpatia. Nessun preconcetto e nessun pregiudizio, ma una sana imparzialità del giudizio. Perché senza giudizio non esiste imparzialità, e non esiste il giornalismo. In Italia invece il mito dell’imparzialità si è trasformato in “una forma d’inerzia opprimente” come l’ha definita Liz Spayd Public Editor del New York Times. E così il giornalismo italiano è oggi dominato dall’imparzialità dal giudizio.

Oggi, nell’epoca della post-verità, il primo compito di chi fa informazione dovrebbe essere ritornare a esercitare il diritto/dovere di analisi e commento. Non è possibile continuare a dar spazio a ogni uscita pirotecnica senza che questa sia accompagnata da un’analisi che la verifichi e la smentisca. Possibilmente già nel titolo, abbandonando quell’inutile modello “nome: dichiarazione assurda”, che non fa altro che trasformare gli articoli in manifesti elettorali.  A distanza di una settimana c’è voluta una presa di posizione del Consiglio d’Europa perché i media italiani chiamassero le dichiarazioni di Salvini sulla scorta con il loro nome: “intimidazione”. Nel frattempo il ministro è salito ancora nei sondaggi. Poco male, noi possiamo consolarci con il video del gatto Larry che si riposa sotto la macchina del presidente Trump, o discutere sul disegno di legge dello stato di New York che vuole vietare il taglio delle unghie dei gatti.

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