Il 4 marzo Matteo Salvini ha aperto un nuovo fronte di emergenza presentando la sua proposta di legge in materia di droga. “Cosa devi fare in Italia per restare in carcere per reati di droga?”, ha chiesto il ministro dell’Interno durante la conferenza stampa con i giornalisti. Il giorno dopo, su Facebook, il suo staff della comunicazione ha montato un estratto video, dove accanto a Salvini compare il volto di Farah Marouane, il marocchino di 34 anni accusato di aver investito e ucciso una famiglia a Porto Recanati. L’accostamento serviva per dimostrare l’urgenza del provvedimento ed enfatizzare un passaggio della conferenza stampa, ripreso poi da tutti i media: “Questo era coinvolto nel sequestro di 225 chili di droga e ‘sto stronzo era a spasso. Non è possibile”, ha detto Salvini prima di illustrare la proposta di legge della Lega. “Il nostro disegno di legge prevede il raddoppio delle pene per chi spaccia sostanze stupefacenti, pene sia detentive che economiche, ed entra nel merito della lieve entità. Non esiste la modica quantità, ti becco a spacciare e vai in carcere con le misure cautelari. I venditori di morte li voglio vedere scomparire dalla faccia della terra”. È il perfetto riassunto del modello “ordine e disciplina” del vicepremier, che criminalizza un comportamento al posto di combattere le sue cause. Mentre il mondo guarda sempre più spesso alle politiche sociali e preventive per limitare i fenomeni criminali, Salvini insiste sulla repressione e le manette.
Secondo le indagini ancora in corso, il duplice omicidio di Porto Recanati potrebbe essere stato causato perché Marouane si trovava sotto gli effetti di alcool e droga, ma questo non ha nulla a che vedere con il suo precedente arresto relativo al sequestro di 225 chili di hashish. Quando, nell’aprile 2018, le indagini dei Carabinieri del reparto operativo di Macerata hanno scoperto il legame tra Marouane e un ragazzo di 23 anni che nel suo garage conservava 223 chilogrammi di stupefacenti, il giudice gli aveva applicato la misura cautelare dell’obbligo di firma in caserma. La perquisizione in cui i Carabinieri hanno trovato un chilo di droga in casa di Marouane è scattata per i suoi legami con gli spacciatori di hashish e non perché ne fosse un consumatore. La logica della proposta di legge di Salvini è equiparare spaccio e consumo, contraddicendo quanto lo stesso ministro ha detto in conferenza stampa: “A me interessa togliere dalle strade chi spaccia: poi quello che fa ognuno non mi interessa”.
Intervistato dall’agenzia di stampa Redattore sociale, il presidente del tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato ha contraddetto le dichiarazioni del ministro dell’Interno, partendo dall’idea di modica quantità. “Non esiste più dal 1990. Penso che il ministro parlando di ‘abolizione della modica quantità’ intenda in realtà colpire anche il semplice consumo di stupefacenti e dunque l’‘uso personale”. La legge antidroga vigente, il decreto Lorenzin del 2014, prevede multe da mille a 15mila euro e la detenzione tra i sei mesi e i quattro anni per il possesso di droga superiore ai quantitativi approvati dal ministero della Salute per uso personale. Nella proposta salviniana le sanzioni “Passano da un minimo di tre a un massimo di sei anni e multe da un minimo di 5mila a un massimo di 30mila euro“, oltre a prevedere il sequestro del veicolo. La proposta rievoca in qualche modo l’irragionevolezza del decreto Fini – Giovanardi del 2006, che aveva addirittura abolito in toto la differenza tra droghe leggere e pesanti, prima di essere affossato dalla Corte costituzionale.Nel 2009 il decreto Fini-Giovanardi è stato tra le cause del sovraffollamento delle carceri, dove il 41% dei detenuti era recluso per motivi di droga. Nel 2014, stabilita l’incostituzionalità del decreto, la percentuale è subito scesa di cinque punti.
Nel 2011, il Dipartimento delle politiche antidroga – allora sotto la responsabilità del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Carlo Giovanardi – metteva nero su bianco che “Questo Dipartimento è fermamente convinto pertanto che il carcere non è e non deve essere un luogo di cura delle tossicodipendenze e, così come peraltro esplicitamente previsto dagli attuali atti normativi, le persone affette da tale condizioni debbano e possano essere inserite in programmi di cura e riabilitazione, sia territoriali che residenziali, al fine di restituirle ad una vita sana e ben integrata sia socialmente che lavorativamente”. Ora la Lega punta a superare il governo Berlusconi, agendo come se non esistesse differenza tra tossicodipendenti e spacciatori. Per Bortolato, concentrarsi sulle misure repressive significa “non voler vedere le reali cause e le dinamiche sociali” del consumo di droga.
Il ministro è fuori strada anche quando lascia intendere che in Italia sia impossibile finire in carcere per reati legati alla droga. La relazione al Parlamento del 2018 sui dati relativi alle tossicodipendenze in Italia indica che un terzo della popolazione carceraria (il 32,7%) è detenuto per reati di droga: a fine 2017 si contavano 19mila detenuti, con 11.290 condannati (56% italiani). Il dato più sconfortante riguarda la recidiva, con quasi otto reclusi su dieci che avevano già commesso reati simili nei due anni precedenti. Il motivo lo si deduce dal rapporto del maggio 2018 di Antigone, associazione che si occupa dei diritti dei detenuti: non si adottano misure alternative alla reclusione per scontare la pena in comunità, il luogo preposto per combattere davvero la tossicodipendenza, con il risultato che nell’arco di un anno la popolazione carceraria è aumentata di 2mila unità. Già nel 2015 l’Italia era il Paese con più condannati in via definitiva per reati di droga tra i 47 aderenti al Consiglio d’Europa. Nonostante queste politiche repressive, il rapporto annuale dell’Emcdda (Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze) certifica che nel 2017 il 22% degli italiani tra i 15 i 64 anni ha fatto uso di sostanze stupefacenti almeno un volta. Una percentuale analoga ai Paesi Bassi, che si distinguono dal nostro Paese per una politica molto tollerante e non si trovano a dover gestire il problema del sovraffollamento carcerario.
Quello poliziesco e repressivo di Salvini non è l’unico approccio italiano alla gestione delle problematiche del consumo di droga. Nel 2015, su iniziativa dell’allora segretario al ministero degli Esteri Benedetto Della Vedova, era nato un inetrgruppo parlamentare per la cannabis legale. La proposta di legge su cui lavorava prevedeva la possibilità di coltivare per uso personale un massimo di cinque piante e la prospettiva di costituire dei Cannabis Social Club, consorzi di piccoli produttori per il consumo a scopo ricreativo, senza fini di lucro. La norma non tralasciava la lotta al narcotraffico, riallocando alle operazioni di contrasto il 5% dei ricavi della cannabis di Stato. Nel 2016, l’intergruppo parlamentare è riuscito a far approvare la vendita della cannabis light, cioè con un principio attivo molto ridotto.
Un risultato lontano anni luce dal Colorado, dove la legalizzazione del 2014 ha dato vita a un mercato in continua crescita: nel 2017, il Colorado Department of Revenue ha registrato incassi per oltre un miliardo di dollari dovuti alla vendita di marijuana a uso ricreativo e di altri 500 milioni circa da quella a uso terapeutico. La cifra rappresenta un record dall’inizio della legalizzazione, con un tasso di crescita rispetto all’anno precedente del 15%. Nello Stato americano la marijuana legale a scopo ricreativo si può vendere solo alle persone con più di 21 anni e non può essere consumata in luoghi pubblici, né all’aperto, né al chiuso, dove sono vietate anche le sigarette. Un consumatore può possedere fino a un massimo di un’oncia (circa 28 grammi) di Thc, il principio attivo della marijuana. Chi viene sorpreso con più di 12 once può rischiare una pena detentiva, che arriva a 12 anni e 350mila dollari di multa se il quantitativo supera le cento once.
Il nuovo approccio ha dato vantaggi anche sul piano dell’ordine pubblico. Lo studio Impatti della legalizzazione della marijuana in Colorado, pubblicato nel 2018 dalla Colorado Division of Criminal Justice Office of Research and Statistics (ufficio statistiche del Dipartimento giustizia penale dello Stato), ha registrato nel 2017 907 reati notificati legati all’uso di marijuana, rispetto ai 1431 del 2008. Il trend è però in aumento rispetto al periodo pre-legalizzazione. L’ufficio statistico ritiene che la spiegazione sia imputabile all’aggiornamento del 2016 della legge originaria di due anni prima, che ha fornito direttive più chiare in merito alla coltivazione privata e “ha fornito alle forze dell’ordine maggiori strumenti e chiarezza per aumentare il loro intervento nel contrasto al mercato nero”. In cifre, significa che le operazioni contro le organizzazioni di narcotrafficanti sono state 31 nel 2012 e 119 nel 2017. Anche il contrasto alla guida sotto effetto di stupefacenti si è dimostrato efficace. Negli Stati Uniti esistono agenti che corrispondono alla nostra polizia stradale, definiti “Drug recognition experts” (Dru), addestrati per riconoscere chi si mette al volante in stato di alterazione da alcol o droga. Il numero di questi agenti, in Colorado, è aumentato del 66% tra il 2012 e il 2018, mentre i casi di guida in stato di ebrezza (che vale anche per chi è alterato da marijuana) sono calati del 15% a partire dall’entrata in vigore della legalizzazione.
Oltre alla lotta tradizionale al traffico e al consumo di stupefacenti, il nuovo sistema legislativo prevede un ricorso massiccio della prevenzione. Dal 2017 la marijuana legale del Colorado è tassata al 15%. L’imposta vale lo 0,78% del budget annuale dello Stato, permettendo il finanziamento dell’agenzia pubblica che monitora l’impatto su consumi e salute dei cittadini dopo la legalizzazione, e una massiccia attività di welfare in diverse contee. Il Denver Post ha raccontato il caso di Aurora, città accanto alla capitale Denver. Parte dell’imposta sulla marijuana legale confluisce nel fondo pubblico da 1,5 milioni di dollari per combattere la povertà, che ha permesso di finanziare l’Aurora Day Center, una centro di accoglienza diurno per i senza dimora della città.
I vantaggi economici, per la salute e di contrasto alla criminalità sperimentati in Colorado hanno convinto lo stato di Washington a seguire il suo esempio. La liberalizzazione a uso ricreativo è passata anche in California, Nevada, Maine e Massachusetts, mentre Florida, Arkansas, Montana e North Dakota ne hanno approvato solo l’uso medico. Fuori dai confini degli Stati Uniti il Canada ha deciso a fine 2018 di permettere a tutti i suoi cittadini maggiorenni di acquistare e consumare marijuana a scopo ricreativo. I prossimi anni dimostreranno se i risultati incoraggianti del primo periodo di apertura verso il consumo legale siano destinati a durare. Sicuramente, il proibizionismo stile Stati Uniti degli anni Venti ha già dimostrato in passato di non essere una soluzione efficace, se non per alimentare l’emergenza sicurezza della propaganda elettorale di Matteo Salvini. Che poi, probabilmente è l’unico vero obiettivo del ministro.