A fine settembre l’Agenzia italiana del farmaco ha pubblicato in Gazzetta ufficiale una delibera con cui inserisce i farmaci ormonali per le persone trans nell’elenco di quelli erogabili a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale, rendendoli gratuiti su tutto il territorio. In Toscana lo erano già dal 2006, mentre in Emilia Romagna la gratuità, finora disponibile solo nella città di Bologna, era stata estesa a livello regionale proprio il giorno prima. Accolta come un cambiamento epocale dalla stampa e dalla comunità queer, la delibera tenta di sopperire ad alcuni importanti problemi che recentemente hanno evidenziato come, in Italia, la tutela della salute non sia ancora un diritto di tutti.
Negli ultimi due anni infatti ci sono stati lunghi periodi di irreperibilità dei farmaci a base di testosterone per la terapia ormonale a causa di “problemi di produzione” mai specificati. Nell’elenco dell’Aifa dei medicinali carenti, aggiornato a ottobre, compare ancora il Testoviron, il più utilizzato perché più economico: costa 11 euro e ne va assunta una fiala ogni 28 giorni. Gli altri formati sul mercato sono poco pratici o arrivano a costare fino a duecento volte di più. Alcuni ormoni femminili a base di estrogeni hanno invece subito un rincaro di prezzo del 300%. Il Progynova, per esempio, è passato da 3 a 10 euro. A produrlo è la casa farmaceutica Bayer, che a ottobre dell’anno scorso aveva chiesto la riclassificazione del farmaco dalla fascia A (essenziali, quindi passati dal Ssn) alla fascia C (interamente a carico del cittadino) per motivi di “sostenibilità economica”, poi approvata da Aifa. Una differenza di prezzo importante dato che la terapia ormonale sostitutiva va seguita a vita e sospesa solo per gravi problemi di salute. Nonostante la gratuità costituisca un elemento innovativo importante, le condizioni imposte dalla nuova delibera alla comunità trans, che da subito ne ha evidenziato le problematiche più grandi, hanno però dissolto in un attimo anni di battaglie per l’autodeterminazione e la depatologizzazione.
I farmaci ormonali sono infatti stati inseriti nella fascia H e saranno quindi disponibili solo presso le farmacie ospedaliere dei centri abilitati, non più anche in quelle comunali, come avveniva in precedenza. Un problema, considerato che in Italia il servizio è a macchia di leopardo e gli specialisti sono pochi. Gli sportelli pubblici sono solo a Torino, Bologna, Firenze e Roma, e se ne contano circa una decina, dove le liste d’attesa sono infinite. Altre regioni – come le Marche e l’Abruzzo – sono completamente sprovviste di strutture di questo tipo, con la conseguenza che le persone trans saranno ancora costrette a trasferirsi o a sostenere i costi dei continui spostamenti per poter avere pieno accesso agli ormoni. Inoltre, come si legge nel testo, la prescrizione dei medicinali può essere confermata solo da “una equipe multidisciplinare e specialistica” a seguito di una diagnosi di disforia di genere. La normativa di Aifa dovrà poi essere adottata a discrezione delle singole regioni, essendo la sanità di competenza regionale. “Solo ospedali per noi, e rigorosamente solo farmacie ospedaliere, i corpi trans sono ufficialmente soggetti a forme rigide di controllo”, ha scritto Christian Leonardo Cristalli, presidente del Gruppo Trans Bologna. “Il ministero aveva compreso che ci servisse la gratuità riconosciuta, ma chiaramente ha puntato a rinforzare se stesso e a consolidare il proprio monopolio di potere che esercita sulle nostre vite, che denunciamo come attivisti”.
Il problema della delibera di Aifa sono infatti le condizioni per l’accesso alla transizione a cui la gratuità dei farmaci è legata, che si scontrano con le richieste che la comunità trans porta avanti da anni: la possibilità di autodeterminarsi e di adottare il modello del consenso informato, così come previsto da altri Paesi europei come Belgio, Danimarca, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Norvegia e Portogallo, che già nel 2012 hanno modificato le proprie legislazioni in materia. Il modello vede la persona trans non più come un soggetto passivo il cui corpo e la cui identità sono stabiliti da enti terzi, ma come una figura centrale e attiva nel determinare il proprio destino. In questo senso, a essere garantito è soprattutto l’accesso ai trattamenti ormonali, ma non mancano casi, come quello argentino, in cui la procedura vale anche per gli interventi chirurgici. Il ruolo del professionista medico diventa quindi quello di informare la persona dei rischi, degli effetti e delle conseguenze dei trattamenti a cui ci si intende sottoporre, registrandone poi il consenso. Sulla base degli scambi e delle informazioni ricevute, il soggetto ha quindi garantita la libertà di potersi autodeterminare senza dover rispettare determinati modelli medici diagnostici, che spesso portano chi non intende aderirvi perché non conformi alla propria esperienza ad acquistare i farmaci al mercato nero e a procedere con terapie auto-somministrate, spesso dannose.
Molte persone trans scelgono infatti di non intervenire sul proprio corpo, mentre altre vedono nella terapia ormonale e/o negli interventi chirurgici non dei “capricci estetici”, come vuole la retorica dei detrattori, ma delle modalità per raggiungere la piena realizzazione di sé. I corpi e le esperienze transgender non possono essere ridotti a un unicuum, per questo il percorso medico non dovrebbe essere un’imposizione oppressiva che vede la persona incapace di decidere e la costringe a essere validata dal parere di medici, psicologi, avvocati, giudici e altri professionisti, ma una delle possibili strade percorribili quando se ne percepisce il bisogno e si ha la necessità di essere accompagnati e supportati anche da un punto di vista psicologico nel proprio percorso. Il paradigma medico annulla poi di fatto l’esistenza delle persone non binarie, incastrandole nel binarismo di genere per renderle “leggibili” davanti alla società. “È difficile chiamare conquista un provvedimento che non porta avanti in nessun modo la depatologizzazione dell’esperienza trans, che setta in maniera rigida dei valori ormonali di riferimento per rientrare in un supposto binarismo di genere”, ha commentato l’attivista ed editrice Antonia Caruso. Alla gratuità dei farmaci dovrebbe quindi conseguire la modifica completa dell’iter di accesso al percorso di transizione in modo che non medicalizzi ulteriormente la situazione delle persone trans, ma tenga invece conto della loro esperienza personale e sociale, normalizzandola.
Nel 2015, la risoluzione 2048 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha definito abusi alcune pratiche di accesso alla transizione, come l’obbligo di una diagnosi, la lunghezza dell’iter e l’esperienza di real life, consistente in un periodo di almeno sei mesi in cui la persona trans deve dare prova di vivere quotidianamente secondo il genere percepito. Due anni prima, il Consiglio dell’Unione europea aveva inoltre riconosciuto chiaramente che “il possesso di documenti di identità idonei è uno dei presupposti per l’effettivo godimento dei diritti umani. Le persone transgender la cui anagrafica non corrisponde al genere percepito rischiano di conseguenza di essere esposte a trattamenti arbitrari e discriminazioni da parte di individui e istituzioni”. In Italia l’esistenza giuridica delle persone trans è riconosciuta dalla legge 164/82, oramai anacronistica. Se fino a poco tempo fa l’interpretazione subordinava la rettifica anagrafica all’obbligo di sottoporsi all’intervento chirurgico di cambio di sesso, dal 2015, prima la Corte di Cassazione e poi la Corte Costituzionale, hanno escluso questa necessità. Eppure le procedure restano lunghe e costose. Al costo delle perizie mediche, il cui prezzo parte da una base di 500 euro, e delle sedute psicologiche, va aggiunto infatti quello per l’assistenza legale, che il più delle volte dura anni, e, in alcuni casi, anche quello per un consulente tecnico scelto dal giudice, la cui parcella arriva fino a duemila euro. Molti degli interventi chirurgici, come avviene anche per altri casi determinanti per il benessere delle persone, non godono di nessuna agevolazione. Tutte spese sostenute semplicemente per poter diventare se stessi.
Sembra allora che la delibera di Aifa faccia più gioco ai pochi centri abilitati che all’intera comunità trans, assoggettata ancor di più al controllo biopolitico da parte di terzi, e che serva a poco senza una sostanziale modifica dell’iter. Le voci di chi da anni porta avanti battaglie per la tutela di quelli che sono diritti fondamentali sono passate totalmente inascoltate. Ma il diritto alla salute e all’autodeterminazione non possono essere prerogativa di pochi. Sono stati riconosciuti come diritti umani fondamentali e come tali vanno assicurati a tutti. È ora che l’Italia si adegui alle normative europee, varando una legge moderna e attuale, e mettendo in atto quel cambiamento stavolta sì epocale, perché destinato a permettere la piena realizzazione di sé a tutti i cittadini, senza discriminazione alcuna, così come sancito dalla nostra Costituzione.