Venerdì 5 marzo, nella quarta serata del Festival di Sanremo (che raggiunge in media i 10 milioni di spettatori, anche se con un lieve calo quest’anno) al fianco di Amadeus e Fiorello si è presentata come ospite Barbara Palombelli. Giornalista dal 1980, ha condotto durante la sua carriera un’ampia varietà di programmi politici e socioculturali tra cui Matrix e Otto e Mezzo. Non proprio un’esordiente quindi, eppure ci ha regalato un monologo retrogrado e paternalista sulle giovani donne italiane il cui apice è stato un passaggio riguardante un presunto omaggio al poeta e compositore Luigi Tenco.
Palombelli, mentre raccontava di essere stata una ragazzina ribelle degli anni Sessanta alla ricerca di emozioni forti insieme al resto della sua generazione (sostenendo che al tempo non esistessero le droghe, affermazione che ha lasciato tutti un po’ perplessi), ha metaforizzato la morte di Tenco parlando di un presunto giocare con le pistole. Durante il discorso ha aggiunto: “Anche io giocavo con le pistole come Luigi”. La famiglia di Tenco le ha poi dedicato uno stato sui social scrivendo che “questo chiacchiericcio, pregno di ignoranza sull’argomento da una parte e di incoerenza dall’altra parte, non rende merito alla categoria dei giornalisti a cui apparterrebbe e nemmeno al servizio televisivo pubblico”, e accusandola di aver banalizzato davanti a milioni di spettatori un fatto grave come quello che accadde a Luigi Tenco, diffondendo notizie false. Luigi Tenco è nato nel 1938 e in soli 28 anni ha attraversato e ritratto con le sue canzoni la società italiana dell’epoca, togliendosi poi la vita nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1967, durante le giornate del Festival. Tenco non stava giocando con le pistole. Si è suicidato.
Secondo l’Oms in Italia si registrano ogni anno poco meno di 4mila casi di suicidio, di cui il 78% riguarda gli uomini. A un anno esatto dall’inizio della pandemia, i casi sono aumentati del 20%. L’isolamento forzato, il senso di incertezza sul futuro, la crisi socio-economica, l’assenza di vita sociale e di interazione umana (ma anche l’aumento dei casi di violenza domestica) hanno portato a conseguenze di cui tutti dovremmo essere ormai a conoscenza, considerando che ansia, attacchi di panico e tendenze depressive sono diventati disturbi comuni anche per chi non li aveva mai sperimentati prima. Le persone con malattie psichiatriche hanno conosciuto un peggioramento dei sintomi, per non parlare della presenza di un elevato rischio di sviluppo di queste manifestazioni psicologiche tra i pazienti affetti da COVID-19, i loro familiari e gli operatori sanitari in prima linea. In un recente sondaggio del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi (Cnop), otto italiani su dieci hanno necessitato di supporto psicologico per affrontare l’isolamento, un tasso molto più alto rispetto a statistiche e sondaggi simili fatti in passato.
Nonostante alcuni timidi passi in avanti da parte delle istituzioni, i disturbi mentali e soprattutto il suicidio sono argomenti ancora trattati come tabù, anche per la nostra cultura ancora molto legata alla visione cattolica per cui l’atto di porre fine alla propria vita è un grave peccato, tanto che in passato i suicidi non potevano essere seppelliti in terra consacrata.
I media italiani sono il riflesso di un sentimento ancora molto radicato per l’influenza del clero e delle forze conservatrici, rafforzato durante il Ventennio fascista e la scelta di Mussolini di ricucire lo strappo con la Chiesa cattolica seguito all’Unità d’Italia e ai primi 50 anni di storia del Paese permeati di liberalismo e laicismo. Il cattolicesimo e la Chiesa divennero per il regime un cosiddetto instrumentum regni: la Chiesa si proponeva infatti come dispensatrice assoluta di moralità, con l’autorità per esprimersi su tutto ciò che aveva a che fare con la sessualità e la libertà individuale, suicidio compreso. La fine del regime, il dopoguerra, i nuovi processi economici, la libertà di stampa e la cultura libera hanno mitigato questo aspetto: per questo una parte della Comunità episcopale italiana sembra infatti a disagio con l’eccessiva libertà di stampa e la televisione, vista come potente veicolo della secolarizzazione. La nostra società è così passata da un’impostazione morale di carattere confessionale a una fase di laicizzazione critica che promuove l’apertura ai diritti individuali, mettendo in discussione l’autorevolezza e la capacità della Chiesa cattolica nell’orientare le coscienze in ambito di scelte morali e civili. Nonostante il cambiamento di paradigma, molti ambienti fanno ancora fatica a liberarsi di un certo pudore di fondo su tutta una serie di argomenti del campo “morale”, malattia mentale e suicidio tra questi.
Negli Stati Uniti (dove il numero degli adolescenti con sintomi di grave depressione è aumentato tra il 2005 e il 2017 del 52%) trattare queste tematiche, soprattutto con i più giovani, è una prassi molto più comune: nel luglio 2019, per esempio, la governatrice dello Stato dell’Oregon Kate Brown ha stabilito per legge che gli adolescenti possono prendere dei giorni di vacanza con la giustificazione della salute mentale, mentre dal settembre 2018 gli studenti di elementari, medie e scuole superiori dello Stato di New York studiano la salute mentale all’interno dei programmi di educazione alla salute. Ralph Northam – governatore della Virginia – nello stesso anno ha firmato una legge che istituisce un programma simile per gli scolari del nono e decimo anno (ovvero per gli studenti del primo e secondo anno di scuola superiore in Italia).
Questa sensibilità si riflette anche nei social, in cui influencer e blogger discutono e sensibilizzano sul problema al punto che durante l’estate 2020 è stato istituito un vero e proprio corso per educare chi ha più visibilità a trattare il tema. Un’occasione per poter sfruttare i media per infrangere un tabù anacronistico. Per quanto riguarda l’Italia, dal 2007 l’Istituto superiore di sanità promuove un programma di promozione della salute mentale nelle scuole di istruzione secondaria, ponendo particolare attenzione alla prevenzione della depressione e il benessere psicologico, mentre su Instagram e TikTok sono sempre più diffusi profili o pagine di blogger e psicologi italiani che sfruttano i social per dare consigli e guide a proposito di ansia sociale e disturbi alimentari, veicolando messaggi positivi e di conforto. Impegno dei professionisti del settore che trova terreno fertile anche tra i comuni utenti, anche per l’età media più bassa rispetto a quella che domina nei palinsesti della tv generalista. Forse anche per questo il pubblico under 30 ha ormai abbandonato in massa i canali tradizionali per passare ai servizi di streaming, molto più al passo con i tempi anche per quanto riguarda la reale condizione di un adolescente: Netflix, per fare un esempio ha nel suo catalogo diverse serie che esplorano la malattia mentale o l’approccio alla sessualità, da 13 Reasons Why a The end of the fucking world a Sex Education, con un approccio e una disinvoltura lontani luce da quello che regna ancora nei prodotti Rai.
Anche da un confronto tra sole tv generaliste, la Rai dimostra il suo anacronismo. Basta pensare alla recente intervista di Oprah Winfrey a Meghan Markle e Harry d’Inghilterra andata in onda sulla statunitense Cbs (ritrasmessa in Italia dal canale TV8. La conversazione ci ha dato prova di come la decisione di parlare apertamente dei pensieri suicidi da parte di due figure di così immenso rilievo abbia il giusto potere di cambiare il modo in cui tutti noi parliamo dell’argomento. La duchessa di Sussex durante la diretta ha chiaramente detto di “aver iniziato a sviluppare idee suicide”: ad alcuni potrà sembrare banale, ma la decisione di trasmettere un’intervista del genere senza censure attraverso un canale di portata internazionale, esponendo a milioni di spettatori la rivelazione di un personaggio di tale portata, educa anche gli altri sull’universalità di una fragilità che da molti non è ancora concepita e ammessa, pena la gogna mediatica per aver offeso la sensibilità del pubblico.
Molte delle ricerche sull’impatto delle rappresentazioni mediatiche del suicidio hanno dimostrato che trattare il suicidio, la depressione e le condizioni mentali come misteri e tabù di cui non è concesso parlare in pubblico conduce solo ad aggravare la portata di queste problematiche. Uno studio a cura di Keith Hawton, direttore del Centre for Suicide Research dell’Università di Oxford, e Kathryn Williams, ricercatrice del Centre for Health Service Development dell’australiana Wollongong University, ha preso in considerazione l’impatto dei media (resoconti giornalistici, resoconti televisivi e rappresentazioni cinematografiche) sulla prevenzione dei suicidi in base a sesso, età e nazionalità, e ha messo in luce che i media tendono a semplificare eccessivamente le cause di questi gesti, attribuendo l’atto a singoli fattori come problemi economici, relazioni finite o fallimenti universitari.
Il fattore più comune che porta al suicidio, ovvero la salute mentale, è spesso trascurato nei resoconti mediatici: l’approccio più appropriato al problema sarebbe quello che prevede di assicurare corsi di formazione per chi intraprende una carriera in questo contesto, prestando all’argomento l’attenzione che merita, iniziativa che potrebbe ricalcare quella “Psicologia della vita quotidiana ai tempi del Covid-19” messa a disposizione proprio dalla Rai per formare i suoi giornalisti nella copertura della recente pandemia.
In un paese in cui è ritenuto normale scambiare in diretta il suicidio di Luigi Tenco con un “giocare con le pistole”, dovrebbe essere spontaneo domandarsi per quale motivo nessuno sia intervenuto sul merito di quelle parole durante la diretta o ancora meglio nei giorni di prove precedenti, sollevando di conseguenza una domanda su ciò che costituisce la responsabilità e la preparazione della tv di Stato nel trattare argomenti molto più trasversali di quanto una parte dell’opinione pubblica sia ancora disposta ad ammettere. Nel 2021 la generazione Z è molto più ferrata e libera sul tema rispetto a quelle precedenti; ora è il momento di allargare questo approccio agli over 30 del nostro Paese. Una svolta che però non può essere messa in atto senza che la tv di Stato diventi finalmente consapevole delle sue responsabilità nel continuare a banalizzare una condizione che riguarda un numero sempre più alto di italiani.