Se i giovani soffrono sempre più psicologicamente è anche perché non riconosciamo il loro dolore - THE VISION

L’attenzione, scrive la filosofa Simone Weil al poeta Jöe Bousquet nel 1942, è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono, continua. Oggi si parla in sempre più spesso di quella che appare come una vera e propria “epidemia di depressione”, non solo tra gli adulti, ma ancor di più tra gli adolescenti, che attraversano per forza di cose una fase già di per sé estremamente critica, andando incontro a una profonda trasformazione del Sé, dall’infanzia alla vita adulta, e affrontando una quantità enorme di cambiamenti, sia fisici, che psicologici e di relazione. Si parla di epidemia di depressione anche perché sicuramente le diagnosi sono aumentate rispetto a solo qualche decennio fa, grazie alla sensibilizzazione sulla salute mentale, dare un nome alle cose è sicuramente importante, anche perché aiuta a inquadrare una condizione, rendendone più facile la divulgazione – e non apriremo in questa sede l’annoso e sempre più sentito dibattito sul valore della diagnosi, che se da un lato può essere utilissima per alcuni, dall’altro può anche rivelarsi un limite – quel che è certo, e basta letteralmente guardarsi intorno, è che le persone stanno male. E se è vero che la nostra è l’epoca dell’accelerazione, della povertà di tempo, dell’infodemia e del bombardamento di stimoli con conseguente riduzione dell’attenzione, è proprio su questo punto che si può indirizzare la riflessione su questo fenomeno, e su come la mancanza di attenzione influenzi le nostre relazioni, anche le più strette.

I numeri emersi – secondo cui il 49,4% degli adolescenti soffre di ansia o depressione – hanno portato inevitabilmente la comunità scientifica a interrogarsi su questo fenomeno, affrontandolo sotto vari punti di vista, anche perché questo ovviamente non coinvolge solo i ragazzi, ma anche le famiglie, le istituzioni e la società nella sua interezza – anche se nonostante le tante campagne di sensibilizzazione sul tema l’accesso ai percorsi di psicoterapia resta tuttora difficile se non impossibile per molti, e non per chissà quale stigma culturale legato a un eventuale malattia, ma per mere ragioni economiche. Ad ogni modo, si cercano le motivazioni alla base di questo fenomeno, come se si potesse trovare quell’ingranaggio che per qualche motivo si è bloccato – la pandemia, gli smartphone, il capitalismo, la trap, il cambiamento climatico, “la teoria del gender”, TikTok, l’incertezza del futuro, i tanga, i trucchi, Internet, l’instagram face, il porno, i prof, la madre assente (sono ironica ovviamente, tanto lo sappiamo no che è sempre colpa delle madri) – quel punto del sistema che ha portato al cortocircuito; ma per chiunque abbia vissuto degli episodi depressivi (e chiunque li ha vissuti nella propria vita, anche senza arrivare a una condizione cronica e anche senza arrivare a definirli tali, è fisiologico), avrà ben chiaro che questa attitudine d’indagine appare miope, inefficace e insufficiente a districare e a mentalizzare quel magma interiore che porta poi al sintomo, che in molti casi non è “la cosa più grave che potesse accadere”, ma la difesa attuata più o meno inconsciamente dai ragazzi proprio per evitare che la loro situazione peggiori. Anche se è comodo puntare il dito contro un nemico esterno, purtroppo la causa è sempre dentro di noi, o a chi abbiamo di fronte (anche se certamente gli stimoli esterni ovviamente premono su di noi, ci influenzano, ci segnano e ci colpiscono, ma poi sta a noi decidere cosa farne, capire che non siamo punti di applicazione passivi e inermi di quelle forze di mondo).

Scrivendo questo articolo mi sono ricordata di come da adolescente il mio chiamiamolo quinto-senso-e-mezzo legato all’istinto di sopravvivenza e di autoconservazione per certi aspetti dopo essermi bruciata più volte come tutti i cuccioli che vanno verso la vita a cuore aperto fosse ben più sviluppato e attivo di oggi. Se da adolescenti infatti si subiscono situazioni traumatiche per ingenuità e mancanza di strumenti per decodificare alcuni contesti tossici o rischiosi, da adulti mi sembra che si accettino queste stesse situazioni semplicemente per inerzia, con la credenza di essere ormai scafati. Ci pensiamo immuni a qualcosa che in realtà continua a intossicarci (anzi ci intossica proprio perché ci esponiamo senza protezioni efficaci), perché non è detto che nel frattempo siamo effettivamente riusciti a sviluppare strumenti utili per affrontarlo, semplicemente abbiamo un po’ più tenuta del Sé, ci contraiamo per resistere, con danni spesso notevoli.

È qui che si annida il ganglio dell’incomprensione tra generazioni, anche perché mi pare che oggi in particolare la generazione più matura oggettifichi gli esemplari di quella più giovane. I genitori spesso trattano i figli come oggetti, come proiezioni governabili delle loro aspettative, dei loro valori, dei loro desideri, invece di trattarli come persone, proprio come loro, magari funzionanti in maniera diversa, e con caratteristiche diverse. Per questo la reazione al loro dolore è il rifiuto, che può assumere la forma dell’ok, aggiustiamo tutto subito, quando – e lo so per mia esperienza diretta – i ragazzi vogliono solo vedere quel dolore accettato, raccolto, custodito, vogliono vedere un adulto disponibile a riconoscerne l’esistenza, e a starci insieme. Insieme a una fragilità manifesta, a una ferita aperta, a ciò che è orrido e quindi va celato. Accettare il fallimento, l’imperfezione, accarezzarla.

I figli non sono l’espansione del nostro Sé. Semmai può essere vero il contrario, noi dobbiamo essere loro espansione, cassa di risonanza, guscio, esoscheletro, contenitore. I genitori però sembrano non essere pronti a riconoscere l’alterità dei figli da quelli che erano i loro piani. Proprio perché considerandoli come una loro proiezione vivono il dolore come un loro fallimento. Così si arroccano e ne prendono le distanze, in maniera più o meno morbida. Questo per dire che quando facciamo la lezione agli adolescenti, o banalmente ad amici più giovani, spesso stiamo semplicemente usando l’unico strumento che abbiamo per mascherare le nostre debolezze (che per i millennial, dobbiamo ammetterlo, sono tante, tantissime), atteggiandoci da “grandi”, cercando di rivestire il ruolo immaginario dell’adulto, padrone della situazione, che trova la causa e la sanifica, che minimizza il problema dall’alto della sua esperienza, o che punisce il comportamento deviante per evitare che si ripeta, invece che sporcarsi le mani e capire realmente dove origina. L’adulto troppo terrorizzato per accettare l’angoscia del mondo. Insomma parrebbe che diventando grandi, anche se per motivi diversi, stiamo diventando uguali ai nostri tanto vituperati genitori, è la maledizione di Peter Pan. Crescendo ci dimentichiamo cosa vuol dire quella roba lì, come ci si sente a provare quel dolore lì, ad essere irreparabilmente disperati, a voler essere accettati per ciò che si è, ad ogni costo. Ci diamo un tono autoritario, come se a noi non fosse mai successo, così chi soffre si sente ancora più solo, abbandonato nella sua sofferenza, perché l’altro, pur magari ascoltandolo, non lo sta ascoltando davvero, non lo sta capendo, no habla su idioma.

Gli adolescenti sono depressi perché al di là del mondo di merda che ci è stato lasciato, e con cui iniziano a confrontarsi, sono soli. E non prendiamoci in giro, anche la maggior parte di noi adulti lo è, dato che ormai per tutelare il nostro presunto benessere mentale spesso non siamo nemmeno disposti ad ascoltare i problemi e le esperienze dolorose degli altri, etichettandole anche quando non lo sono come “vittimismi”. Ma poi anche il vittimismo cos’è se non il disperato tentativo di attirare l’attenzione dell’altro. E in un epoca in cui nessuno ha più tempo e in cui la soglia di attenzione si riduce sempre di più, non è inevitabile che il vittimismo aumenti? Visto che anche noi siamo pieni di buchi ci terrorizza vederli negli altri, ancor più se quegli altri sono i nostri figli, o persone a cui vogliamo bene. In una società che culturalmente si è impegnata a rifiutare ogni emozione negativa, e in primis la morte, come potevamo pensare che gli adulti fossero in grado di ricevere, riconoscere e accettare il dolore dei figli?

Per alcuni esperti del settore, che quotidianamente fanno esperienza diretta di come si sentono gli adolescenti, la causa va ricercata a livello di educazione, non solo delle famiglie ma anche delle scuole. Un’educazione che tendeva a proteggere i bambini da qualsiasi infelicità e dolore, o meglio, tendeva a negare queste emozioni, a non fargliele vivere, anche quando presenti, non solo prevenendole. Bisognava che fossero sempre felici e contenti, e vincenti, e allegri e soddisfatti, come se ci sforzassimo in tutti i modi di aderire all’estetica famigliare delle pubblicità del Mulino Bianco. Ma la frustrazione, l’insoddisfazione, l’impotenza, la gelosia, l’invidia, la rabbia, l’esclusione, la paura, l’ansia, l’inadeguatezza sono tutte sensazioni che l’essere umano, vivendo, volente o nolente attraversa, e deve abituarsi a vivere, a sopportare e a superare. Se queste non si presentano mai, o non viene dato il tempo di starci insieme, di conviverci, nemmeno qualche minuto, però, i muscoli emotivi e psichici che ci permettono di farci i conti non si sviluppano. Così, oggi che ci troviamo di fronte a una crisi globale, che si estende su più livelli socio-economici-politici, appare chiaro che ci siano diverse generazioni senza anticorpi, e gli adolescenti (e non solo) non trovano altre reazioni che l’annichilirsi, ritirarsi nelle loro camerette, rifiutare quel mondo orribile a cui nessuno si era mai sognato di prepararli, nascondersi.

A questo, come dice Matteo Lancini, psicoterapeuta, docente all’Università Milano-Bicocca e presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano, in Sii te stesso a modo mio, si aggiunge il fatto che non solo la società ci intima di essere noi stessi, o meglio sentirci noi stessi, come se fosse il valore aggiunto fondamentale per arrivare da qualsiasi parte, ma di essere noi stessi a modo suo, solo alle sue condizioni, senza mai metterle in discussione, e ponendo così un’enorme contraddizione in termini. Così gli adolescenti si sforzano di aderire alle aspettative e alle esigenze degli adulti che li hanno formati, e su cui hanno proiettato tutti i loro desideri e aspettative, che magari non sono riusciti a soddisfare in prima persona, solo per farli contenti. Ma quando non ci riescono, e di solito appare chiaro proprio durante l’adolescenza che quei figli grazie a dio si sentono di essere qualcosa di diverso dai genitori, il sistema va in crisi, la dissonanza cognitiva è enorme, la separazione necessaria per costruire il proprio Sé impossibile. Al tempo stesso gli adulti appaiono sempre più fragili, incapaci di contenere quel dolore, di dare risposte, di esserci e soprattutto di farsi esempio, di guidarli. Questo scambio non coinvolge solo genitori e figli, ma tutti noi. Quando diciamo che è fondamentale fare comunità, per fare una comunità reale, fondata appunto sulla comunione, e non sui tabù, è fondamentale uscire dal guscio individualista che ci ha portati a costruire questo sistema sociale, per aprirsi all’altro, riconoscerlo appunto nella sua alterità, nell’essere altro-da-noi, finanche alieno. Ma riconoscere l’altro cosa significa se non accettare l’angoscia che proviamo riconoscendone la differenza e la sofferenza, che ha tantissime cause diverse, ma è uguale per tutti, fingere che non sia così è semplicemente ipocrita.

 “La scoperta che le dicevo,” continua Weil nella sua lettera, “è in fondo il soggetto della storia del Graal. Solamente un essere predestinato ha la facoltà di domandare ad un altro: ‘Qual è dunque il tuo tormento?’. E non gli è data nascendo. Deve passare per anni di notte oscura in cui vaga nella sventura, nella lontananza da tutto quello che ama e con la consapevolezza della propria maledizione. Ma alla fine riceve la facoltà di rivolgere una simile domanda, nel medesimo istante ottiene la pietra di vita e guarisce la sofferenza altrui. Tutta la parte mediocre dell’anima si rivolta e vuole soffocare il desiderio da cui si sente minacciata di morte, e riesce il più delle volte a raggiungere il suo scopo attraverso qualche menzogna. Allora si sente al sicuro. Gli sforzi, la tensione della volontà non la turbano. Si sente unicamente minacciata dalla presenza nell’anima di un punto di desiderio puro”. Può sembrare un pensiero dai lampi grandiosi, Weil era pur sempre una mistica, ma ciascuno di noi può sviluppare la facoltà per farlo, a parte di non girare le spalle di fronte a quel punto speciale del suo essere.

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