“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.”: è questo l’articolo 1 della nostra Costituzione e contiene la frase più strumentalizzata nella storia della Repubblica italiana. Il riferimento non riguarda la tanto discussa sovranità che appartiene al popolo, ma la circostanza per cui il nostro sarebbe un Paese che si fonda sul lavoro. I nobili intenti dei padri costituenti sono quotidianamente travisati. C’è ad esempio chi utilizza questo articolo per affermare che il diritto al lavoro verrebbe prima del diritto alla salute, come il deputato leghista Claudio Borghi. Una fantasiosa gerarchia dei diritti costituzionali che dovrebbe far impallidire chiunque. Ci sono poi le dichiarazioni di Confindustria, che dietro l’esaltazione del lavoro nascondono la volontà di sacrificare i diritti dei dipendenti sull’altare del profitto. Insomma, non passa giorno senza leggere l’intervento di qualcuno che utilizza la Costituzione per finalità opposte rispetto alla protezione dei cittadini e dei loro diritti. Si fa finta di sostenere i lavoratori senza mai affrontare le questioni ataviche che attanagliano il nostro Paese, tra le quali spicca il basso livello dei salari.
Il report della fondazione Giuseppe Di Vittorio, intitolato “La questione salariale in Italia: un confronto con le maggiori economie dell’Eurozona”, contiene dati preoccupanti che evidenziano un peggioramento rispetto alla situazione già registrata nel 2017. Il salario annuo medio dei lavoratori italiani è cresciuto di appena 904 euro lordi in vent’anni, passando dai 29.124 del 2000 ai 30.028 del 2019. Paragonare la nostra dinamica salariale con quella tedesca mette in luce il divario che si sta aprendo tra i due Paesi. A partire dal 2010, infatti, il livello delle retribuzioni in Germania è cresciuto notevolmente, mentre da noi continua a stagnare. Non è però soltanto il confronto con la situazione tedesca a destare preoccupazione. Nei Paesi Bassi, ad esempio, dal 2000 al 2019 il salario medio è cresciuto dell’8,8%, mentre in Italia si è registrato un aumento di appena il 3,1%. Siamo l’unico Paese tra le maggiori economie europee a non aver ancora recuperato il livello degli stipendi corrisposti prima della recessione del 2008 e la crisi causata dalla pandemia non farà altro che aggravare la questione salariale italiana, con il rischio concreto di aumentare ulteriormente le differenze con gli altri Paesi europei.
L’elevata tassazione sul lavoro presente in Italia, sommata ai bassi livelli retributivi che da anni si registrano nel nostro Paese, rende il reddito netto di una famiglia italiana molto inferiore rispetto a quello di una famiglia tedesca. In particolare, secondo la fondazione Di Vittorio, una famiglia italiana ha a disposizione una quota di risorse pari al 60-70% rispetto al reddito familiare medio dei tedeschi, proprio a causa di un sistema fiscale poco progressivo, che penalizza i redditi più bassi e i nuclei familiari numerosi. Inoltre, il crescente fenomeno del “part-time involontario” contribuisce a creare una fascia di lavoratori poveri che non hanno i mezzi di sostentamento per vivere il presente, senza alcuna possibilità di progettare il futuro. Siamo un Paese che non riesce a investire nell’occupazione di qualità. Negli ultimi anni, infatti, abbiamo dimezzato la percentuale di dirigenti occupati nelle aziende italiane, mentre sono aumentati i dipendenti non qualificati e gli impiegati di ufficio con mansioni amministrative. Questi dati sono soltanto la conseguenza della miopia di un’intera classe politica. Un Paese che non investe sull’istruzione e sulla formazione dei giovani è un Paese che non pensa al suo futuro.
L’Italia, insieme alla Spagna, è il Paese dove si lavora di più ma si guadagna di meno, a causa dello scarso utilizzo di nuove tecnologie e dei bassi investimenti in ricerca e sviluppo. Abbiamo da anni un chiaro problema di produttività. Dato che non riusciamo a produrre beni e servizi ad alto valore aggiunto ci accontentiamo di difendere l’esistente, cercando di recuperare quanto perdiamo attraverso una costante riduzione dei diritti dei lavoratori. La compressione delle retribuzioni, infatti, non è soltanto un problema fiscale o di produttività ma è il risultato di politiche economiche chieste dalle imprese e implementate dal governo, che hanno nella moderazione salariale l’unico totem ideologico utilizzato per recuperare competitività sui mercati ed esportare beni e servizi. Questa strategia, però, ha soltanto aggravato il declino economico italiano e aumentato le distanze con il resto delle economie europee, disincentivando i consumi interni di una classe media di cui solo i talk show ormai sembrano riconoscere l’esistenza.
Anche il Presidente della fondazione Di Vittorio, Fulvio Fammoni, non è ottimista sul futuro. Commentando i risultati messi in luce dal report, infatti, immagina un peggioramento delle condizioni del lavoro e delle retribuzioni dei dipendenti nei prossimi anni, anche a causa della pandemia. Per questo motivo è necessario adottare politiche in grado di invertire la rotta. La priorità è aumentare gli stipendi per rendere l’Italia un Paese coeso, in grado di competere realmente con le altre grandi economie del mondo. Gli interventi da mettere in cantiere per raggiungere l’obiettivo sono diversi. Bisogna investire sulla qualità dell’occupazione, incentivando chi offre lavori di alto profilo in grado di trattenere le nostre migliori competenze sul territorio nazionale. È necessaria una riforma fiscale che sposti risorse da chi possiede posizioni di rendita verso i redditi da lavoro. Infine, ultimo ma non meno importante, è urgente rinnovare i contratti collettivi nazionali di lavoro scaduti, negoziando aumenti concreti dei trattamenti retributivi.
Alla fine di giugno si registravano 576 contratti collettivi nazionali di lavoro da rinnovare sui 935 contratti registrati dal CNEL. Tra dipendenti pubblici e privati, sono oltre 13 milioni le persone che si sono trovate costrette a lavorare in forza di accordi scaduti, senza sapere se e quando riceveranno il prossimo aumento in busta paga. Le maggiori organizzazioni sindacali italiane hanno sempre valorizzato il ruolo della contrattazione collettiva come pilastro su cui costruire sane relazioni industriali con le associazioni degli imprenditori. Grazie ai sindacati, appunto, siamo stati abituati a firmare contratti individuali di lavoro snelli, dove tutte le informazioni essenziali sono contenute in un paio di pagine. In Italia sono i contratti collettivi a regolare il nucleo minimo di diritti garantiti a tutti i lavoratori di un determinato settore. Nella storia della Repubblica, tuttavia, non si era mai registrata una simile quantità di accordi da rinnovare. Un dato che deve far riflettere innanzitutto i sindacati confederali – come CGIL, CISL e UIL – che hanno il dovere di ristabilire una connessione forte e profonda con i lavoratori presenti in Italia.
Il rinnovo dei contratti collettivi è una misura necessaria ma non sufficiente per affrontare con decisione il problema delle retribuzioni. I rapporti di forza nel mercato del lavoro italiano sono ormai troppo sbilanciati a favore delle aziende che possono scegliere di assumere giovani con contratti atipici e discontinui, con dei compensi che non sono in grado di assicurare un’esistenza libera e dignitosa ai lavoratori, come sarebbe invece richiesto dall’articolo 36 della nostra Costituzione. Anche lo Stato è chiamato a fare la sua parte introducendo un salario minimo legale che fissi un limite da non oltrepassare per garantire una retribuzione dignitosa a tutti i lavoratori, senza distinzione di sesso, tipologia contrattuale utilizzata, età o nazionalità.
Dopo decenni di promozione della flessibilità salariale, la Commissione Europea ha recentemente pubblicato una proposta di direttiva che intende valorizzare la contrattazione collettiva per assicurare a tutti i lavoratori stipendi minimi adeguati. Si tratta di un primo passo che, da un punto di vista pratico, non produce risultati significativi. L’Italia, infatti, non sarà obbligata a introdurre alcun salario minimo per legge. Da troppo tempo ormai giacciono in Parlamento proposte che vorrebbero introdurre una retribuzione di base. Si tratta di disegni di legge che incontrano resistenze da più parti. I sindacati sono gelosi della loro autonomia negoziale e non vogliono che i partiti si intromettano. Le imprese fanno pressione per continuare ad avere le mani libere e garantire stipendi da fame ai dipendenti precari. In questo gioco fatto di interessi egoistici, gli unici che perdono sono i lavoratori ormai sempre più esposti alle fluttuazioni di un’economia instabile. Non è più il momento di pensare esclusivamente al proprio utile, bisogna guardare all’interesse generale del Paese. Abbiamo bisogno di un impianto legislativo e contrattuale efficace, in grado di garantire a chi lavora le risorse necessarie per vivere con dignità, mentre per decenni la politica ha deciso di far pagare il prezzo delle riforme ai lavoratori che hanno visto diminuire il loro potere di acquisto. Sulla Carta siamo una Repubblica fondata sul lavoro. E’ arrivato di dimostrarlo con i fatti, per non svuotare completamente di significato il primo articolo della nostra stessa Costituzione e non danneggiare le fondamenta della nostra democrazia.