Gli Stati Uniti sono una strana democrazia in cui spesso il destino di milioni di persone dipende da una singola figura, positiva o negativa che sia, che si pone fra i meccanismi del potere e la sopravvivenza dei cittadini. Il 18 settembre ne è venuta a mancare una la cui scomparsa potrebbe davvero comportare un passo indietro nei diritti civili, sociali e riproduttivi del Paese. La giudice Ruth Bader Ginsburg è morta a 87 anni, lasciando un posto vacante nella Corte Suprema degli Stati Uniti a poche settimane dalle elezioni presidenziali; sulla scelta di chi le succederà si gioca la tenuta democratica del Paese. “Notorius RBG”, come era soprannominata la giudice, lascia infatti una corte a maggioranza repubblicana e se Donald Trump nominerà, come è intenzionato a fare, un giudice del suo stesso orientamento, la Corte avrà sei giudici nominati da presidenti repubblicani e solo tre da democratici.
Già ben prima del 1993, quando Bill Clinton la nominò per ricoprire il più alto grado di giudizio della magistratura statunitense, Ruth Bader Ginsburg era un’icona dei diritti delle donne. Nata nel 1933 a Brooklyn, figlia di due immigrati russi, Ginsburg è una di quelle donne che sono state “prime” in tante cose, e di certo non per caso. Fu una tra le prime donne iscritte alla Cornell University, per poi passare alla prestigiosa scuola di Legge di Harvard nel 1956 (dove era una tra le 9 donne iscritte su 552 studenti), anche se fu costretta a concludere gli studi alla Columbia, dal momento che Harvard non le permetteva di accedere al titolo per essersi trasferita a New York prima della laurea. Nel 2011, anche come forma di compensazione, l’ateneo le consegnò una laurea ad honorem. Nel 1963 cominciò la carriera da docente, prima alla Rutgers, nel New Jersey, e poi alla “sua” Columbia, dove fu la prima donna a diventare ordinaria. Negli anni Settanta, RBG lavorò come avvocata alla Corte Suprema, discutendo alcuni dei più importanti casi di discriminazione basata sul sesso che hanno contribuito a forgiare le attuali leggi americane. La causa che le garantì il posto alla Columbia fu “Reed v. Reed“: due ex coniugi separati si contendevano la proprietà immobiliare del loro figlio deceduto e la legge dell’Idaho, lo Stato in cui risiedevano, prevedeva che in questi casi la precedenza fosse data al padre. Ginsburg scrisse la difesa della donna, per la quale la Corte Suprema deliberò in favore stabilendo che non possono esserci discriminazioni tra uomo e donna nella nomina dell’amministratore di una proprietà immobiliare.
Se negli anni Sessanta la Corte Suprema presieduta da Earl Warren (un repubblicano dalle idee progressiste) emise numerose sentenze in favore dei diritti civili, ciò non accadde per i diritti delle donne, che nel decennio successivo, nonostante le pressioni del movimento femminista, erano ancora molto arretrati. “[I giudici] pensavano di essere dei bravi padri, dei bravi mariti, e non consideravano discriminatori gli ostacoli che dovevano affrontare le donne”, raccontò RGB in un’intervista al New Yorker nel 2013. “Credevano davvero nell’idea conservatrice che le distinzioni – le donne non dovevano fare le giudici – fossero per il loro bene, per la loro tutela. La società non era ancora avanzata al punto da influenzare la Corte”. Il cambiamento sarebbe arrivato anche grazie a lei, a partire proprio dal caso dei coniugi Reed, il primo passo per dimostrare che le distinzioni non sono una forma di protezione, ma di sopruso.
La carriera di Ruth Bader Ginsburg è stata una costante sfida contro i pregiudizi del suo tempo: nel 1975 difese un uomo che, rimasto vedovo, chiedeva di poter accedere al fondo di previdenza sociale della moglie, vincendo la causa di fronte a una giuria di soli uomini. Ma nonostante il suo supporto costante ai diritti delle donne, Ginsburg non credeva che i grandi cambiamenti sociali dovessero arrivare dalla Corte Suprema. Per questo fu critica rispetto al caso “Roe v. Wade”, che nel 1973 decriminalizzò l’aborto negli Stati Uniti. Secondo la giudice, il limite di questa storica sentenza fu focalizzarsi sulla privacy della donna che decide di porre fine a una gravidanza e che ha diritto a non subire le ingerenze dello Stato, e non sul principio di uguaglianza tra uomo e donna. Queste dichiarazioni, espresse in una conferenza alla scuola di Legge della New York University nel 1992, destarono molto scalpore, tanto che la sua nomina a giudice della Corte Suprema fu messa in dubbio dall’allora presidente della National Abortion Rights Action League Kate Michelman. La preoccupazione di Ginsburg, in realtà, era che una sentenza così formulata potesse lasciare troppo spazio di manovra ai singoli Stati, che avrebbero potuto formulare leggi restrittive sull’aborto.
E infatti la giudice aveva ragione: tra il 2018 e il 2019, diversi Stati (tra cui l’Alabama, la Louisiana, il Missouri e la Georgia) hanno approvato leggi in materia di interruzione di gravidanza – alcune delle quali dichiarate illegittime dalla Corte Suprema – che impongono limitazioni molto pesanti sul diritto all’aborto, in aperto contrasto alla sentenza “Roe v. Wade”. Ed è proprio questa una delle maggiori incertezze su cosa succederà dopo la prevedibile nomina di un giudice repubblicano alla Corte Suprema: uno dei giudici, John Roberts, è molto critico nei confronti dell’aborto e, con una giuria a maggioranza conservatrice, basterebbe poco a ribaltare la “Roe v. Wade”.
La Corte Suprema è infatti l’organo giudiziario federale di grado più elevato nella magistratura statunitense. In modo simile alla nostra Cassazione, la Corte Suprema esprime pareri sulla legittimità delle sentenze di primo e secondo grado, emanate rispettivamente dai tribunali distrettuali e dalle corti d’appello. In particolare, la Corte si esprime sui casi di importanza nazionale (come per l’esito delle presidenziali del 2000, quando nello Stato della Florida il candidato repubblicano George Bush vinse per meno dello 0,5% dei voti: l’avversario Al Gore chiese un riconteggio delle schede, che però non era possibile concludere entro i termini di legge. Per dirimere la questione il democratico Gore si appellò alla Corte Suprema). La Corte interviene anche nei casi in cui i tribunali distrettuali hanno violato la legge federale e infine per risolvere i conflitti tra le leggi dei singoli Stati. Questo fu il caso della sentenza del 2015 “Obergefell v. Hodges”, in cui un cittadino dell’Ohio voleva sposare il suo compagno, in contrasto con la legge statale. Appellatosi alla Corte Suprema, Obergefell ottenne il riconoscimento del suo matrimonio, sancendo così il primo passo verso la liberalizzazione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso. A 82 anni, Ruth Bader Ginsburg fu una delle più strenue sostenitrici della sentenza, che difese citando un’altra storica decisione della Corte del 1981, quando fu abrogata la “Legge del capo e del padrone” della Louisiana, che dava al marito amplissimi poteri sulla moglie.
Con la morte di Ruth Bader Ginsburg, il rischio che le sentenze che sorreggono i diritti civili e riproduttivi di milioni di persone vengano ribaltate è tutt’altro che remoto. I giudici della Corte Suprema vengono infatti nominati a vita dal Presidente degli Stati Uniti, che sceglie figure a lui ideologicamente vicine, e confermati dal Senato, che in questo momento è a maggioranza repubblicana. Quando il giudice Antonin Scalia morì nel febbraio 2016, a nove mesi dalle elezioni che a novembre avrebbero visto la vittoria di Trump, l’allora leader repubblicano al Senato Mitch McConnell dichiarò che “Il popolo americano deve avere una voce nella selezione del prossimo giudice della Corte Suprema e quindi questo posto vacante non sarà occupato finché non avremo un nuovo presidente”. Nonostante Barack Obama avesse proposto un candidato, il Senato rifiutò addirittura di procedere con le audizioni. A meno di 45 giorni dalle elezioni, i repubblicani sembrano aver dimenticato il senso civico di soli quattro anni fa ed è molto probabile che la favorita del Presidente sarà Amy Coney Barrett, giudice estremamente conservatrice e antiabortista e legata ai fondamentalisti cattolici “People of Praise”. Dal momento che le nomine sono a vita, ciò significherebbe che per decine di anni la Corte Suprema sarà guidata da una schiacciante maggioranza di repubblicani.
Una settimana dopo le elezioni di novembre, alla Corte Suprema comincerà il dibattimento sull’Affordable Care Act, noto anche come Obamacare. Il piano sanitario che copre con diversi tipi di tutela 130 milioni di persone è stato messo sotto accusa dall’amministrazione Trump in piena pandemia, sollevando le proteste di molti democratici. Anche il destino della sentenza che lo dichiarò legittimo nel 2012 fu determinata dal grande lavoro di Ruth Bader Ginsburg, che non si fece problemi a definire la posizione del presidente della Corte Suprema John Roberts “rigida, contorta e incredibilmente retrograda”. La sua scomparsa non poteva avvenire in un momento più delicato di questo, e lo sapeva. Tra le sue ultime volontà, dettate alla nipote Clara Spera, la giudice ha detto che “Il [suo] più grande desiderio è di non essere sostituita prima che venga eletto un nuovo presidente”. È molto probabile che questa sarà l’unica battaglia che Ruth Bader Ginsburg perderà.