Se un giorno mi venisse chiesto di realizzare un trittico per raccontare la repressione del dissenso e dei diritti umani in Russia sarebbero tre le immagini che non esiterei a utilizzare. La prima è uno scatto della fotografa Emmie America, che nel 2021 è stata arrestata insieme ad altre venticinque persone travestite da poliziotti per aver scritto la parola “libertà” in cirillico sulla neve all’interno di un parco pubblico di Mosca. La seconda è il meme propagandistico che vede il Presidente russo Vladimir Putin cavalcare senza maglietta – e soprattutto realisticamente – un orso bruno, perché il potere totalitario passa anche per il controllo dei giovani maschi e le forme di mascolinità che gli sono concesse. La terza, più che un’immagine, è un’installazione realizzata nel 2020 dal duo Elmgreen & Dragset, intitolata The Outsiders: all’interno di una vecchia Mercedes dai sedili ribaltati, due ragazzi sono distesi abbracciati. La targa dell’auto è russa, i loro nomi, dai badge che vediamo dimenticati sul cruscotto, sono Yuri e Igor, allestitori di mostre d’arte. Igor tiene un braccio attorno ai fianchi di Yuri, che dorme, gli occhi aperti come fosse necessario stare all’erta. I loro corpi si legano alle difficoltà della popolazione LGBTQ+ nel contesto politico attuale della Russia.
Storicamente, al genere e alla sessualità è stato infatti dato – ed è dato ancora oggi – un peso fondamentale nel definire le gerarchie di potere in ogni ambito della società e chi merita di esserne espulso in quanto pericolo per l’ordine “naturale delle cose”. La patologizzazione e criminalizzazione dei corpi LGBTQ+ e il controllo dei corpi delle donne sono stati elevati a livello politico a condizioni necessarie non solo per l’inversione di tendenza del calo demografico, ma anche per il progresso sociale, morale ed economico. In Russia, le pratiche discorsive di omobitransfobia utilizzate dalla leadership politica nelle leggi e nei discorsi pubblici, oltre a essere strumenti per costruire e rafforzare l’identità nazionale, acquisiscono un valore aggiuntivo, ricreando costantemente un senso di identità nazionale distinto dall’Occidente e minacciato dai suoi ideali di democrazia, pluralismo e rispetto.
La manipolazione culturale e intellettuale attraverso la disinformazione e la propaganda è un’arma fondamentale nell’arsenale del Cremlino, con cui Putin giustifica l’abbandono del diritto internazionale e respinge le critiche alle politiche russe. “[l’Occidente] ha cercato di distruggere i nostri valori tradizionali e imporci i suoi falsi valori che eroderebbero noi e il nostro popolo dall’interno, comportamenti che hanno imposto in modo aggressivo nei loro Paesi, che stanno portando direttamente al degrado e alla degenerazione perché contrari alla natura umana. Questo non accadrà. Nessuno è mai riuscito a farlo, né ci riusciranno ora”, ha dichiarato in un passaggio del discorso con cui pochi giorni prima del 24 febbraio annunciava l’invasione dell’Ucraina. I valori a cui Putin fa riferimento sono quelli LGBTQ+ o, per usare un lessico caro a lui e agli altri leader sovranisti, quelli dell’”ideologia gender” e della “cancel culture”, a cui l’autocrate stesso ha fatto riferimento paragonando la cancellazione di alcuni eventi in cui erano coinvolti artisti e intellettuali russi alla “cancellazione” di cui sarebbe vittima l’autrice della saga di Harry Potter J.K. Rowling, criticata per alcuni tweet definiti transfobici. La strategia di Putin si inserisce in un disegno più complesso in cui al mantenimento del suo regime contribuiscono due legami: a livello internazionale, la convergenza di obiettivi con gli esponenti della destra radicale, cristiana e integralista di tutto il mondo; internamente, l’alleanza con la Chiesa Ortodossa e il patriarca Kirill I.
La Russia si è infatti imposta come la paladina globale dei valori cristiani, con lo scopo di deviare le critiche occidentali sulla violazione dei diritti umani e di proporsi come un’alternativa autentica a un Occidente egemone che avrebbe voltato le spalle alle proprie radici. Come ricostruisce l’Associate Professor of Gender Studies alla Stockholm University Emil Edenborg sul Boston Review, il Cremlino definisce anche la strategia federale di sicurezza nazionale in termini di genere. In un documento pubblicato a luglio 2021, ci sono almeno venti riferimenti ai “valori tradizionali” in quarantatré pagine e tra gli interventi a cui dedicare particolare attenzione compaiono il sostegno alla famiglia, alla maternità, alla paternità e all’infanzia; l’educazione dei bambini e il loro sviluppo spirituale, morale, intellettuale e fisico; ma soprattutto “tassi di natalità più elevati per aumentare la popolazione della Russia”. Oltre ad aver mantenuto rapporti e accordi poco trasparenti con i partiti sovranisti di Italia, Francia, Germania e Austria, dalla Federazione Russa sarebbero stati investiti circa 188,2 milioni di dollari per supportare l’agenda anti-gender in Europa. Secondo il Forum europeo per i diritti riproduttivi, i soldi proverrebbero da organizzazioni – fondazioni, think tank, media – associate a due oligarchi russi: Vladimir Yakunin e Konstatin Malofeev, già noto per aver supportato economicamente il Congresso delle famiglie di Verona nel 2019, una coalizione interconfessionale di attivisti di destra di tutto il mondo dedita alla difesa di ciò che chiamano “la famiglia naturale”, cioè un nucleo familiare composto da un uomo e una donna sposati e dai loro figli. Almeno quattro agenzie governative russe che operano a livello internazionale avrebbero poi fornito ulteriore sostegno finanziario – ma senza dichiarare di quale entità. Il World Congress of Families è stato segnalato da organizzazioni per i diritti civili come il Southern Poverty Law Center (SPLC) e l’Human Rights Campaign con la dicitura di “hate group” e riunisce “il movimento globale” antiabortista, antifemminista e anti-LGBTQ+.
È chiaro quale scopo preciso abbia in mente Putin per la Russia: essere la protettrice dei valori tradizionali. Un ruolo che soprattutto dopo la svolta nazionalista del 2012, con il suo terzo mandato, il Presidente russo ha cercato in tutti i modi di supportare a livello nazionale: con la censura e la soppressione del dissenso e dell’informazione, ma anche con la promozione delle storie che non sono sottoposte a censura. Stimolando il panico morale nei cittadini, Putin ha sfruttato le paure della popolazione russa per il futuro, avvalendosi anche del supporto della Chiesa ortodossa russa, considerata la fonte primaria e più importante di quei valori e norme da tutelare. Tenuto conto del fatto che la maggioranza della popolazione si identifica come cristiana ortodossa, la posizione dell’istituzione religiosa sulle questioni sociali ha quindi un impatto significativo sulla percezione della società, permettendo a Putin di capitalizzare la propria influenza come guida morale del Paese.
L’alleanza con il patriarca è stata fondamentale: Kirill I ha salutato la leadership dell’autocrate come “un miracolo di Dio” e recentemente ha alimentato una visione dell’invasione russa dell’Ucraina come una lotta anche ai valori dell’Occidente. Mentre da più parti gli era stato chiesto di condannare l’occupazione dello Stato limitrofo, il patriarca ha infatti definito la guerra “molto più di un conflitto politico” e ha aggiunto che questa si baserebbe sulla scelta dell’umanità di stare o meno “dalla parte di Dio”. Secondo Kirill I si tratterebbe di un contrasto a modelli di vita peccaminosi e contrari alla tradizione cristiana, la cui solidità si baserebbe su un test “molto semplice e allo stesso tempo terribile”: l’accettazione del Pride della comunità LGBTQ+. È fondendo religione, nazionalismo, difesa dei valori conservatori – che paragona il matrimonio tra persone dello stesso sesso al nazismo – e una versione della storia mistificata – che poggia sul potente archetipo del Russkiy mir, cioè un mondo russo a cui apparterrebbero gli ucraini e i popoli delle nazioni vicine – che Putin e Kirill giustificano internamente la propria politica estera.
La mancanza di libertà politica, i legami con la Chiesa ortodossa russa, la retorica anti-occidentale e anti-gender rendono imperativo per il governo di Putin reprimere i diritti umani, in particolare della comunità LGBTQ+, al fine di mantenere la legittimità. Certo, il nazionalismo di Putin è spesso stato rivolto al passato: nell’Unione sovietica l’omosessualità era un crimine punibile con la prigione e il lavoro forzato e le politiche discriminatorie di Stalin, in linea con le leggi di Pietro il Grande del 1716, persistettero fino agli Settanta. Fu solo nel 1993 che gli orientamenti sessuali diversi dall’eterosessualità furono decriminalizzati, ma la scelta del presidente Borís Nikoláevič Él’cin fu più dovuta alle pressioni del Consiglio europeo che a una vera apertura, tanto che molte persone furono lasciate in carcere e altre, sottoposte a un nuovo processo, vennero comunque condannate. La storia della Russia prima delle rivoluzioni del 1917, il rapporto del Paese con l’Europa e con il nazionalismo moderno, la sua eredità religiosa e la caduta del comunismo con la conseguenti turbolenze politiche ed economiche hanno plasmato il modo in cui si considerano la sessualità e la queerness, e la necessità di promuovere modelli di maschilità tradizionale. Non è una novità per i nazionalismi. Negli ultimi dieci anni, accentrando il potere nelle sue mani, Putin ha ripetutamente affermato che oscure élite occidentali stanno cercando di distruggere i valori tradizionali della famiglia russa, imporre l’ideologia gay ai bambini o addirittura sottoporli ad abusi sessuali. È con queste motivazioni che, pochi mesi dopo aver inasprito le sanzioni per chi offende i valori religiosi o commette azioni ritenute sacrileghe in luoghi di preghiera con la legge contro la blasfemia, nel 2013 la Duma ha approvato la normativa federale contro la “propaganda LGBTQ+”, poi firmata da Putin.
La legge – che si inserisce nel solco delle cosiddette leggi “no promo homo” o “don’t say gay”, che vediamo rifiorire in Ungheria, Polonia e in diversi Stati degli Stati Uniti – vieta la “promozione dell’omosessualità” e, nella pratica, concepisce la tutela dei diritti umani come una vera e propria limitazione della sovranità. La propaganda è definita come “la distribuzione di informazioni finalizzate alla formazione tra i minori di atteggiamenti di espressione di genere non tradizionali, attrazione verso rapporti sessuali non tradizionali, percezioni errate dell’equivalenza sociale dei rapporti sessuali tradizionali e non tradizionali, o l’imposizione di informazioni su relazioni sessuali non tradizionali che susciti interesse per tali relazioni”. La violazione del divieto prevede multe fino a 1.500 dollari per gli individui e 30mila per gli enti legali, oltre al rischio di detenzione di quindici giorni e di sospensione delle attività per novanta. Il testo federale è il risultato dell’accorpamento di legislazioni locali russe adottate negli anni precedenti a Ryazan (2006), Arkhangelsk (2009), Kostroma (2011), Novosibirsk (2012), Magadan (2012), San Pietroburgo (2012), Samara (2012), Krasnodar (2012), Chukota (2012), Bashkortostan (2012), Kaliningrad (2013) e Irkutsk (2013) e già definite, in alcuni casi portati davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, come evidenti violazioni del diritto alla libertà di espressione e il divieto di discriminazione. La sua approvazione è stata correlata alle preoccupazioni sulla demografia e alla “sopravvivenza della nazione attraverso la protezione dei bambini da informazioni dannose”, ma è evidente come i diritti LGBTQ+ debbano necessariamente essere repressi per poter supportare la narrazione della Russia come “strumento di Dio”.
Una visione diffusa anche nelle altre repubbliche della Federazione russa. Il primo aprile 2017, su Novaya Gazeta, la giornalista Elena Milashina svelava infatti al mondo le terribili persecuzioni a cui gli uomini non eterosessuali erano sottoposti in Cecenia dal protégé di Putin: Ramzan Kadyrov. Decine di uomini sono stati infatti arrestati dalle forze di sicurezza cecene e imprigionati in strutture segrete. Qui sono stati torturati con scosse elettriche e picchiati nel tentativo di convincerli a confessare i nomi di altre persone LGBTQ+. Chi non moriva in custodia veniva riconsegnato alle famiglie, alle quali era ordinato di ucciderli per salvare il proprio onore. Dal 2017 al 2020, sono state sottoposte a questo trattamento oltre 150 persone. La maggior parte erano uomini gay o bisessuali, che secondo il governo non corrispondono all’immagine eterosessuale della mascolinità cecena e di conseguenza meritano di essere perseguitati. Le autorità investigative federali russe hanno risposto con lentezza a queste segnalazioni e le indagini svolte sono state insufficienti, non mirate a risolvere effettivamente i crimini. La scelta delle autorità di interromperle senza aver identificato alcun responsabile dimostra come per Putin fosse tutta una farsa.
Lo smantellamento di numerosi centri di ricerca, organizzazioni per le persone sieropositive, progetti legali e giornalistici e ong che assistono le vittime di discriminazione, violenza e repressione – come la chiusura di Memorial, la più longeva e autorevole organizzazione non governativa russa per la difesa dei diritti umani, e l’attuale minaccia per l’interruzione delle attività del movimento interregionale Russian LGBT Network – sono un chiaro segnale contro ogni forma di attivismo. Già una legge approvata nel 2012 etichettava come “agente straniero” le ong che ricevevano fondi dall’estero, cioè dall’Occidente, per costringerle a cessare le proprie attività ponendole davanti a una falsa scelta: continuare a opporsi al regime di Putin o accettare solo gli inconsistenti finanziamenti russi.
Senza il loro supporto, lasciare la Russia è ancora più difficile per le persone discriminate. La chiusura dello spazio aereo rende l’Europa effettivamente lontana e spinge sempre più persone verso i confini dell’Asia centrale, dove però iniziano le prime reticenze dei funzionari di confine, soprattutto nei confronti degli uomini in età adatta al servizio militare. Da ben prima della guerra, e non a caso, uno dei Paesi di riferimento più accessibili ai dissidenti russi in fuga dalle persecuzioni era proprio l’Ucraina.
La “guerra santa” di Putin e la realtà della Russia non devono apparirci come qualcosa di lontano e poco importante per quel principio di prossimità per cui le violazioni dei diritti fondamentali ci colpiscono solo quando ci coinvolgono direttamente, perché come dimostrano i finanziamenti al Congresso delle famiglie e i rapporti non trasparenti con le destre sovraniste la loro eco riverbera fino a noi ed è fortemente intrecciata al nostro tessuto sociale e politico. Le stesse parole del Presidente russo sulla decadenza morale che comporterebbe il rispetto dei diritti LGBTQ+ e l’autodeterminazione delle donne sul proprio corpo richiamano frasi che ci stiamo abituando ad ascoltare troppo facilmente anche in Italia. Non è ora di smettere di lottare per i diritti della comunità LGBTQ+ né di voler liberare i bambini dalla vera ideologia: quella che li sfrutta per alimentare la repressione dei diritti umani.