Nel corso della storia occidentale ci sono state tre grandi rivoluzioni industriali: la prima nel 1784 è avvenuta con l’invenzione della macchina a vapore; la seconda nel 1870 con l’introduzione dell’elettricità e dei prodotti chimici, la diffusione del motore a scoppio e la consacrazione del petrolio come fonte energetica preminente; la terza a partire dal secondo dopoguerra, scandita prima dalla “corsa allo spazio” tra Unione Sovietica e Stati Uniti e, successivamente, dall’avvento dell’elettronica, della telematica e dell’informatica. Negli ultimi dieci anni, espressioni come “Quarta rivoluzione industriale” e “Industria 4.0” sono entrate a far parte del lessico comune, preparando il terreno per un ulteriore evoluzione nel modo di concepire la produzione su larga scala. Analizzando i recenti sviluppi, sembra quasi che quanto profetizzato da autori come Isaac Asimov e Philip K. Dick non sia poi così lontano dalla realtà: il destino dell’industria sarà, in larghissima parte, basato sulla robotica.
La prospettiva di una sempre più massiccia sostituzione dell’uomo da parte delle macchine dal punto di vista lavorativo è più che mai concreta: l’automazione giocherà un ruolo cruciale in tutti i settori e le aziende, comprese le PMI. A confermarlo sono i dati: nel 2017, il rapporto A Future That Works: Automation, Employment, and Productivity, realizzato dalla McKinsey & Company, ha certificato che il 49% delle mansioni svolte oggi da persone fisiche saranno completamente automatizzate. Del resto, gli esempi concreti in direzione di una sempre meno utopistica “società robotizzata” non mancano: nel 2015, l’apertura dell’Henn na Hotel di Nagasaki, il primo albergo interamente gestito da robot, ha ben sintetizzato i passi in avanti compiuti in tema di intelligenza artificiale; lo scorso anno, la Haidilao International Holding Ltd, uno dei titani della ristorazione cinese, in seguito a una partnership con Panasonic, ha inaugurato il primo ristorante diretto esclusivamente da automi, stimando che l’apporto della robotica consentirà di tagliare i costi fino al 50% e che, grazie ai risparmi che ne deriveranno, sarà possibile realizzare un’importante diminuzione dei prezzi per il pubblico.
Solitamente, l’opinione pubblica è piuttosto diffidente nei confronti della robotica: nel sentire comune, si teme che l’avvento dell’automazione possa portare all’obsolescenza di svariate mansioni umane, creando così i presupposti per un’ondata di disoccupazione. Quella verso la tecnologia è una diffidenza antica, che affonda le sue radici agli inizi dell’Ottocento, con la nascita dei nuclei di quel movimento luddista che, per la prima volta, reagì in maniera compatta all’introduzione dei macchinari in ambito industriale, giudicandoli come la principale minaccia per i lavoratori salariati.
Nonostante questo (comprensibile) scetticismo di fondo, la quarta rivoluzione industriale potrebbe produrre l’effetto opposto, portando alla creazione di molti più posti di lavoro di quanti non se ne perdano. A confermarlo sono le rilevazioni del World Economic Forum del 2019. Nell’ambito del summit di Davos, la tematica del robotic job replacement ha occupato un ruolo centrale: secondo le stime dell’organizzazione, entro il 2025 i robot svolgeranno più della metà dei lavori attualmente esistenti. Tuttavia, il Wef prevede che, nei prossimi cinque anni, assisteremo alla creazione di 133 milioni di nuove posizioni lavorative, a fronte dell’automazione di 75 milioni di mansioni, con un conto netto di 58 milioni di nuovi posti di lavoro. Il presidente del Wef, Klaus Schwab, ha però chiarito che non si tratterà di un effetto automatico: per ottenere i risultati virtuosi stimati dal report, sarà necessario destinare ingenti risorse nell’aggiornamento professionale dei lavoratori, per rendere meno traumatico l’approccio ai grandi cambiamenti tecnologici dei prossimi anni. Per fare dell’automazione un’opportunità e non un rischio, sarà quindi necessaria un’opera di re-skilling (riqualificazione) del personale delle aziende.
Ulteriori studi confermano che, contrariamente alle previsioni catastrofiche che solitamente vengono associate al tema dell’automazione, l’impiego dell’intelligenza artificiale potrebbe essere più socialmente accettabile di quanto non si pensi. In particolare, una ricerca recente, promossa dalla Tum-Technical University of Munich e dalla Erasmus University di Rotterdam, pubblicata il 5 agosto sulla rivista Nature Human Behaviour e denominata Psychological reactions to human versus robotic job replacement, ha tentato di fornire una risposta a un quesito fondamentale ma troppo spesso sottovalutato: come reagiremmo se un robot occupasse il nostro posto di lavoro?
La domanda è stata posta a oltre 2mila partecipanti tra studenti, lavoratori altamente qualificati e operai. I risultati hanno dimostrato che, quando gli individui adottano un punto di vista “osservante” – ossia quando la possibilità della perdita del posto di lavoro riguarda una terza persona – quest’ultimi preferirebbero che i lavoratori umani venissero sostituiti da altri lavoratori umani, piuttosto che da un robot. Tuttavia, questa preferenza si rovescia in maniera paradossale quando le persone considerano la propria situazione soggettiva, contemplando cioè la prospettiva della perdita del proprio posto di lavoro: in questo secondo caso, preferirebbero essere sostituiti da una macchina, anziché da un altro essere umano.
La tesi finale è sorprendente: statisticamente, gli individui vivono con minore dolore una propria sostituzione lavorativa con un robot, piuttosto che con un’altra persona. Secondo i ricercatori, questo effetto è da ricollegare al fatto che un’eventuale sostituzione con un automa comporta una minaccia meno immediata all’autostima delle persone. Inoltre, in base ai risultati dello studio, anche se la robotica è considerata una minaccia lavorativa per la maggior parte dei partecipanti, “la resistenza organizzata tra i lavoratori alle perdite di posti di lavoro tende ad essere più debole quando le perdite di lavoro sono attribuite all’automazione rispetto a quando sono attribuite alla sostituzione umana (ad esempio, l’outsourcing)”.
Anche gli imprenditori italiani sembrano guardare con favore all’introduzione dell’intelligenza artificiale: secondo i dati emersi dal Primo Rapporto AIDP-LABLAW 2018 a cura di DOXA su Robot, Intelligenza artificiale e lavoro in Italia, “Le aziende e i manager sono convinti a stragrande maggioranza (89%) che i robot e l’intelligenza artificiale (AI) non potranno mai sostituire del tutto il lavoro delle persone e che avranno un impatto positivo sul mondo del lavoro e delle aziende”; inoltre – il rapporto prosegue – , “l’AI permetterà di creare ruoli, funzioni e posizioni lavorative che prima non c’erano (77%); stimolerà lo sviluppo di nuove competenze e professionalità (77%); consentirà alle persone di lavorare meno e meglio (76%)”.
Il rapporto prevede, però, conseguenze decisamente più drastiche per i lavori manuali: “L’altra faccia della medaglia è che avrà un impatto molto forte sui lavori a più basso contenuto professionale favorendo la sostituzione dei lavori manuali con attività di concetto (per l’81% del campione). I manager e gli imprenditori ritengono, infatti, che al di là dei benefici in termini organizzativi, l’introduzione di queste tecnologie, potrà avere effetti negativi sull’occupazione e l’esclusione dal mercato del lavoro di chi è meno scolarizzato e qualificato. In quest’ottica va letto il dato negativo sulle conseguenze in termini di perdita di posti di lavoro indicato dal 75% degli intervistati”.
La sensazione è che possiamo ritenerci soddisfatti soltanto per metà: da un lato, possiamo tirare un sospiro di sollievo, dato che non sembra profilarsi all’orizzonte alcun “Piano Kalergi robotico” volto a sostituirci con eserciti di automi infinitamente più produttivi di noi. Dall’altro, malgrado le previsioni ottimistiche del Wef, accogliere con fede cieca l’avvento di questo “cybercapitalismo”, sottostimandone gli effetti avversi, potrebbe rivelarsi pericoloso. Già Keynes, negli anni Trenta, aveva sollevato il problema della “disoccupazione tecnologica”, mettendo in guardia gli Stati dai risvolti negativi che avrebbero potuto scaturire dai progressi della tecnica e dalla “scoperta di strumenti atti a economizzare l’uso di manodopera e dalla contemporanea incapacità di tenerne il passo trovando altri utilizzi per la manodopera in esubero”.
L’esempio più calzante in tal senso è quello di Amazon: a maggio, l’agenzia Reuters ha annunciato che il colosso statunitense introdurrà nei propri magazzini dei macchinari, sviluppati dall’azienda perugina Cmc, che impacchetteranno i prodotti in modo totalmente automatico, producendo un taglio di 1300 dipendenti nei principali centri logistici americani.
Anche cercando di rassicurarci con l’idea di quei possibili 58 milioni di nuovi posti di lavoro predetti dal Wef, rimane da capire quale sarà il destino di quei lavoratori poco qualificati che, una volta tagliati fuori dall’automazione, faticheranno non poco per trovare un posto tra le nuove professioni. I nuovi sbocchi, infatti, saranno principalmente appannaggio di chi potrà avrà le capacità e le possibilità per aggiornarsi dal punto di vista professionale. Esaltare il brillante avvenire degli high skilled jobs, trattando i lavori manuali alla stregua di reliquie da esporre nella vetrina di un “museo dei lavori preistorici” è un atteggiamento potenzialmente classista e pericoloso. La Industry 4.0 aprirà sicuramente inedite possibilità occupazionali ma, al contempo, darà avvio a un periodo (in cui forse siamo già entrati) di precariato in diversi settori toccati da questo cambiamento: per arginarlo è necessario che lo Stato e le aziende investano in politiche di aggiornamento e assistenzialismo, e aiutino nel ricollocamento quei lavoratori che, a causa di formazione o età, verrano quasi inevitabilmente tagliati fuori dall’automazione. Purtroppo un tempo l’utopia era il mondo robotizzato, oggi sono le politiche di welfare.