La prossima volta che invidiate un vip per i suoi viaggi comodi in limousine mentre voi prendete l’autobus, o perché ha sempre a disposizione un jet privato per raggiungere la sua casa su un’isola da sogno, ricordatevi che fa parte della ristretta élite di milionari responsabile della metà delle emissioni mondiali dovute allo stile di vita. Non è un caso che i Paesi con il Pil medio più alto, quelli che ospitano il maggior numero di milionari, come Qatar ed Emirati Arabi Uniti, siano quelli che emettono più anidride carbonica pro capite. A prescindere dalle buone intenzioni verso l’ambiente, lo stile di vita dei ricchi è il più insostenibile che esista, tanto che la ricchezza posseduta è il maggiore indicatore dell’impatto ambientale di una persona (con l’unica eccezione della dieta seguita): l’impatto ambientale dell’1% più ricco del Pianeta può arrivare ad essere 175 volte maggiore di quello del 10% più povero. A fine luglio, Google ha organizzato in Sicilia un meeting per discutere di alcuni temi urgenti per l’umanità, tra cui la crisi climatica. Molti dei partecipanti, come l’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama e l’attore ambientalista Leonardo Di Caprio, l’hanno raggiunto con yacht e jet privati. Queste persone fanno parte dei più ricchi al mondo e vivono nei Paesi che, tra le 25 nazioni più industrializzate, presentano le maggiori diseguaglianze economiche. Non è solo l’estrema ricchezza a determinare elevati livelli di inquinamento, ma anche la presenza, all’interno di un Paese ricco, di forti diseguaglianze sociali. Eliminandole, avrebbero un beneficio tanto l’ambiente quanto miliardi di persone in tutto il Pianeta.
Sembra che chi è molto ricco più difficilmente provi empatia per gli altri: è probabile, quindi, che dimostri anche meno sensibilità per le conseguenze della crisi climatica sul resto dell’umanità, oltre che sull’ambiente stesso e le specie animali che lo popolano. Il benessere economico (estremo), inoltre, distorce le prospettive anche nelle persone con le migliori intenzioni: Bill Gates, per esempio, ha affermato in alcune occasioni che tagliare i fondi alle fonti fossili di energia non servirebbe a nulla, ma che sarebbe meglio investire sulle rinnovabili. È il problema dell’incrollabile fiducia nella tecnologia e nel potere del denaro che in molti casi impedisce ai decision maker di vedere la gravità della situazione attuale. Invece, nonostante l’importanza delle tecnologie all’avanguardia, abbandonare un’azione inquinante ha un maggiore e più immediato effetto positivo rispetto al concentrarsi su una green: se non si smette di bruciare petrolio, installare pannelli solari serve a ben poco.
I milionari – o comunque tutti coloro che possono essere definiti ricchi – sembrano vivere in un universo parallelo con pochi contatti con la realtà: il loro stile di vita è quello che più danneggia l’ambiente, ma non se ne rendono conto o non se ne interessano, perché sono meno esposti alle conseguenze dell’emergenza climatica. Si ha più difficilmente la percezione che il collasso ambientale sia qualcosa di concreto e attuale se ci si può permettere di cambiare casa se la propria si trova su una costa che si sta sgretolando, se si può investire in tecnologie per adattarsi alla situazione, se ci si può adeguare all’aumento del prezzo del cibo provocato dai danni all’agricoltura, se si hanno le risorse per riparare i danni causati dalle inondazioni e non si devono fare i conti con i campi inariditi.
Abbigliamento, automobili, dispositivi tecnologici e gioielli: acquistare continuamente nuovi beni è tra le abitudini peggiori. Basti pensare che per produrre un chilo di diamanti sono necessari 53mila chili di materie prime. Quanto ai trasporti, George Monbiot del Guardian ricorda che ogni giorno negli aeroporti di tutto il mondo migliaia di jet e in alcuni casi anche dei Boeing 737 (con una capienza di 174 persone) spiccano il volo con un solo passeggero a bordo, per lo più proveniente da Russia e Stati Uniti. Sono i miliardari che si recano in una delle loro dimore e ville da milioni di dollari, o partono per una vacanza su uno dei loro yacht da 500 litri di diesel consumati all’ora. Fare un calcolo realistico dell’impatto ambientale delle abitudini di una manciata di persone è difficile e, secondo i ricercatori, le stime sono probabilmente minori della realtà. Il risultato è che questo concetto non viene comunicato nel modo giusto, e nemmeno rientra correttamente nei calcoli per la compensazione. Nonostante i danni che provoca, lo stile di vita basato su lusso e spreco è ancora percepito come quello a cui aspirare, e non qualcosa da criticare. Tendiamo a considerare le industrie come le uniche responsabili delle emissioni a livello globale, ma sul piano dello stile di vita – che a quelle industrie attinge e che le alimenta attraverso le abitudini di acquisto – sottovalutiamo le scelte quotidiane dei miliardari.
A incidere è anche il divario economico tra i più ricchi e più poveri all’interno di uno stesso Paese. Tra i Paesi industrializzati, quelli in cui le diseguaglianze sono maggiori (Stati Uniti, Singapore, Regno Unito, Canada e Israele) inquinano nettamente più di quelli più “equi” come i Paesi scandinavi, la Slovenia e la Svizzera. Uno studio dell’Università del Michigan ha rilevato che, a livello domestico, i maggiori inquinatori negli Stati Uniti sono i nuclei familiari più ricchi (il 22% circa del Paese), responsabili di circa due terzi delle emissioni carboniche totali legate alla vita nelle abitazioni. Agli Stati Uniti seguono altri Paesi con forti diseguaglianze economiche interne come Canada, Russia e Sudafrica. Le Nazioni – tra cui l’Italia – con una situazione meno drammatica nella distribuzione del reddito inquinano meno, in media: anche lo stile di vita della metà più povera della loro popolazione è meno dannoso di quello della metà più povera degli Stati Uniti. In pratica, i poveri inquinano meno se meno poveri e i ricchi inquinano meno se meno ricchi. La sostenibilità sta nel mezzo. Si tratta di un circolo vizioso, perché non solo pesano di più sull’ambiente gli Stati economicamente più diseguali al loro interno, ma la crisi climatica allarga la forbice tra la fetta di popolazione più abbiente e quella che lo è meno di circa il 25% in più di quanto accadrebbe senza global warming.
Allo stesso modo cresce la sproporzione tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo. Secondo uno studio pubblicato nel 2015 su Nature, il 77% delle nazioni più povere al mondo entro fine secolo lo sarà ancora di più a causa del climate change, con un calo fino al 75% nei guadagni medi delle loro popolazioni, rispetto allo scenario di un mondo senza global warming. In alcuni casi non si tratta di proiezioni, ma della realtà quotidiana di milioni di persone: si stima che tra il 1990 e il 2010 il Pil pro capite di Bangladesh, Sudan, Burkina Faso e Niger si sia abbassato di una percentuale tra il 12 e il 20%, proprio a causa dell’emergenza climatica. Questo significa che, in linea generale, la crisi impoverisce i Paesi più caldi e arricchisce quelli con il clima più freddo o temperato. A ciò si aggiunge il fatto che i più industrializzati hanno le risorse per investire su studi e tecnologie da adottare per mitigare il cambiamento climatico e le sue ripercussioni. Oltre a un circolo vizioso – per cui la crisi aumenta a sua volta le diseguaglianze – è un’intollerabile ingiustizia, visto che sono i Paesi più industrializzati e ricchi ad aver contribuito di più (e, in gran parte dei casi, a continuare a contribuire) alle emissioni inquinanti.
Il legame tra ambiente e diseguaglianze socioeconomiche è sempre più stretto e per risolvere la climate inequality non c’è altra soluzione che ridurre il divario tra ricchi e poveri. Vanno aumentati i salari e la qualità della vita dei più poveri, ma anche moderati quelli fuori controllo dei più ricchi, con uno stile di vita più frugale per il bene dell’ambiente e dei loro stessi concittadini. Questa prospettiva è alla base della teoria del limitarianism sviluppata dalla filosofa belga Ingrid Robeyns, per la quale bisogna tirare una linea della povertà sotto cui nessuno deve andare, ma bisogna tracciarne anche una verso l’alto, per segnare il limite alla quantità di ricchezze che è possibile accumulare. Non c’è la possibilità che tutti mantengano uno stile di vita lussuoso, tanto dal punto di vista ambientale, quanto da quello sociale ed etico, dato che l’estrema ricchezza è possibile solo grazie all’estrema povertà, e viceversa. È il problema alla base di un mondo che produce a sufficienza, ma non lo distribuisce equamente.
Secondo Ingrid Robeyns, una volta stabiliti i limiti, sia massimi che minimi, che consentono di vivere una vita dignitosa e appagante, il surplus economico dei super ricchi deve essere usato per migliorare le condizioni dei bisognosi. Lo sviluppo di tecnologie per l’adattamento al clima che cambia, ad esempio, potrebbe essere finanziato da apposite tasse imposte ai milionari, tanto più che le loro ricchezze sono state accumulate, in gran parte dei casi, grazie ad attività altamente inquinanti. In un certo senso, la ricchezza dei miliardari che possiedono o lavorano per compagnie insostenibili per l’ambiente rappresenta il danno ecologico che ora investe tutta la società. È il momento che qualcuno paghi per questo e rimedi davvero ai danni che ha fatto.