Per tutti la Libia è un inferno. Per il governo un Paese con cui fare accordi.
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Domenica 2 febbraio si è rinnovato automaticamente il Memorandum d’Intesa tra Italia e Libia, firmato nel 2017 dall’allora esecutivo di Paolo Gentiloni e dal Presidente del governo di riconciliazione nazionale libico Fayez al-Serraj. Il documento, attribuito principalmente alla volontà e all’operato dell’allora ministro degli Interni Marco Minniti, regola i termini della collaborazione italo-libica nella gestione dei flussi migratori, che dal Paese nord-africano arrivano in Europa passando per la Penisola. Nello specifico stabilisce l’istituzione di “campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico”, dove devono essere accolti i migranti in “attesa del rimpatrio o rientro volontario nel Paese d’origine”. In cambio, il governo italiano, anche attingendo ai fondi stanziati dall’Unione europea, ha promesso di contribuire alla fornitura di “medicinali e attrezzature mediche” e alla “formazione del personale libico all’interno dei centri di accoglienza”. Tutto questo, si legge nel documento, “nel rispetto degli obblighi internazionali e degli accordi sui diritti umani”.

Marco Minniti

Stipulato in un’ottica di contenimento più che di gestione dei flussi migratori, il Memorandum è arrivato a febbraio 2017, dopo il picco negli arrivi del biennio 2015-2016, che ha molto influenzato il dibattito e le politiche dei Paesi europei. Se il 2015 è stato l’anno record per il continente, con circa 1 milione di persone sbarcate, il 2016 lo è stato per l’Italia. L’accordo tra Unione europea e Turchia e la chiusura della rotta balcanica, infatti, hanno diminuito di molto gli arrivi in Grecia, ma hanno generato un incremento del 18% negli sbarchi sulle coste italiane, in particolare siciliane. Delle 361.678 persone che sono approdate in Europa nel 2016, 181.436 lo hanno fatto in Italia e 173.447 in Grecia.

Per rispondere alla pressione popolare, generata anche e soprattutto dalla speculazione che le destre sovraniste stavano facendo sulla questione migratoria, anche governi di centro-sinistra come quello di Paolo Gentiloni si sono concentrati sull’obiettivo di interrompere il flusso in entrata. Un obiettivo da considerarsi raggiunto, quantomeno nel nostro caso: già a luglio 2017 gli sbarchi in Italia si erano dimezzati rispetto all’anno precedente, passando da 26mila a 11mila e nei primi cinque mesi del 2018 il calo è arrivato a sfiorare il 78% rispetto all’anno precedente. Anche se non è esclusivo merito dell’accordo tra Italia e Libia (ai tempi l’Istituto Ispi fece notare che la diminuzione era iniziata prima, con l’incremento dei controlli e della collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni da parte degli Stati di confine), il cambio di rotta della Guardia costiera libica è stato senza dubbio decisivo.

 


Era chiaro fin da subito, tuttavia, il prezzo da pagare per permettere a Minniti di dichiararsi veggente e salvatore della Patria (in seguito all’attacco di Macerata l’ex ministro dell’Interno ha detto che aveva fermato gli sbarchi perché aveva previsto attacchi simili a quello di Luca Traini): l’etica e i diritti umani. Oggi si parla di 40mila persone, tra cui migliaia di minori, intercettate in mare e riportate nei centri di detenzione libici dal giorno della firma del Memorandum. Un prezzo che, evidentemente, sorvolando sulla tanto sbandierata aria di discontinuità, il governo giallorosso è ancora disposto a pagare.

Non è una sorpresa. Già nel maggio 2017 Amnesty International, in seguito allo scontro tra la nave tedesca Sea-Watch e una motovedetta libica, si dichiarava preoccupata del fatto che l’Italia stesse venendo meno agli obblighi internazionali, cedendo alla Libia l’onere del soccorso anche in acque internazionali, escludendo le Ong e di fatto rimandando le persone in campi di detenzione equiparabili a lager. Da allora sono emerse sempre più chiaramente le regolari violazioni dei diritti umani di quelli che dovrebbero essere migranti, ma che in realtà sono trattati come prigionieri. Nel giugno 2018 Fabrizio Gatti pubblicava su L’Espresso i referti dei medici italiani a bordo delle navi delle Ong: “aggressioni con catene, tubi di gomma, ferri roventi, scariche elettriche, acido sulla pelle”; a settembre, Francesca Mannocchi raccontava degli accordi tra governo libico, servizi italiani e milizie, lasciate a gestire i campi in cambio di una quota giornaliera a migrante; nel 2018 il rapporto di Human Rights Watch certificava i maltrattamenti, le estorsioni, le violenze sessuali e il lavoro forzato a cui erano sottoposti i migranti detenuti; a luglio 2019, dopo che un attacco aereo su un centro di Tripoli ha causato la morte di almeno 50 persone, l’Agenzia Onu per i rifugiati ne ha chiesto ufficialmente la chiusura; nei giorni scorsi il Consiglio d’Europa ha domandato all’Italia di “sospendere con urgenza le attività di cooperazione con la Guardia costiera libica, almeno fin quando quest’ultima non possa assicurare il rispetto dei diritti umani”. Sono solo alcuni degli episodi che in questi anni hanno portato all’attenzione di pubblico e politica l’inaccettabile realtà di migliaia di persone detenute in Libia per la sola colpa di aver scelto – più o meno forzatamente – di lasciare la propria terra.

Oltretutto, inchieste giornalistiche e documenti riservati hanno dimostrato che non si tratta solo di una questione etica, ma anche di cattiva gestione delle risorse pubbliche, europee e italiane. Nel solo 2019, secondo i calcoli di Altraeconomia, il Ministero dell’Interno ha previsto la spesa di decine di milioni di euro, attinti non solo dalle casse dello Stato italiano, ma anche da Fondo fiduciario per l’Africa, gestito dal Viminale ma con soldi dell’Unione europea: una cassa da oltre 4 miliardi di euro di cui 46 milioni sono destinati alla Libia dalla fine del 2017. Per Oxfam il 26% di questi soldi è stato deviato dalle politiche umanitarie per finanziare il contenimento dei flussi, anche a discapito dei diritti umani.

Tutto questo avviene senza un reale sistema di monitoraggio, perché né l’Italia né l’Europa hanno il reale controllo su come vengono spesi questi soldi, e da chi. Secondo un documento del luglio 2019, visionato da Euronews, a causa dell’aggravarsi del conflitto libico il personale della missione navale europea Sophia non entra più nel Paese. Anche le videocamere GoPro fornite alla Guardia Costiera libica per monitorare le violazioni dei diritti umani non vengono utilizzate con la scusa di una cattiva connessione internet, e il sistema di monitoraggio dei droni militari italiani “predator” non è stato operativo per diversi mesi nell’estate del 2018: lo ha riportato in un’interrogazione al Budestag Andrej Hunko, del partito tedesco Die Linke. Anche Giulia Bosetti, per Presadiretta, ha ricostruito le difficoltà che Italia ed Europa riscontrano nel tenere traccia di questi soldi, tanto che persino i kit di primo soccorso acquistati con i fondi destinati alla Libia vengono rivenduti e non arrivano mai ai migranti detenuti, che si ritrovano senza acqua, cibo, coperte e materassi su cui dormire. Questo perché le Ong italiane che ricevono i finanziamenti per verificare le condizioni dei centri non sono sul posto, ma appaltano il lavoro ad associazioni locali, che a causa della corruzione e di una gestione opaca delle attività finiscono nelle mani delle stesse persone responsabili dei crimini nei centri.

Un esempio su tutti è quello di Abd al-Rahman al-Milad, più conosciuto come Bija, la cui storia è stata resa nota grazie al lavoro di Nello Scavo e Francesca Mannocchi. Trafficante di esseri umani per la Comunità internazionale, i suoi uomini sono stati beneficiari dei mezzi e dell’addestramento finanziato da Italia e Ue e, nonostante le sanzioni internazionali dell’Onu e un mandato di cattura a suo carico, ora tornerà a fare il capo della Guardia costiera libica.

In queste settimane, la situazione del conflitto in Libia è precipitata a un punto tale che l’Unhcr ha abbandonato il Paese per motivi di sicurezza, e con esso anche i migranti, stipati in centri a rischio bombardamenti. Dal 4 aprile scorso, in uno Stato di 5 milioni abitanti, ci sono stati quasi 350mila sfollati, 287 morti tra i civili e 370 feriti. Eppure, continuiamo a fingere che la guardia costiera libica abbia la situazione sotto controllo. Come ci aveva spiegato l’onorevole Gregorio de Falco già a luglio dell’anno scorso, “Se dovessimo mettere su carta la longitudine e la latitudine del punto in cui ricade il centro di soccorso, questo finirebbe nell’aeroporto a Sud di Tripoli, bombardato più volte”. Si tratta di un luogo che, di fatto, non esiste più e dove non lavora più nessuno. “Stiamo parlando di un Paese che ha dichiarato di avere la responsabilità di una zona Sar, che non ha un porto sicuro, che non ha una radio, che non ha personale adeguato a interloquire in inglese su turni di 24 ore.”

Detto questo, quando domenica il governo italiano guidato da Conte II – il gemello liberale di Conte I che ha firmato i decreti Sicurezza – ha avuto la possibilità di interrompere il contratto, non l’ha fatto. Mentre il segretario del Pd Nicola Zingaretti non perde occasione per sottolineare la discontinuità rispetto al passato esecutivo, il partito resta diviso tra chi la vorrebbe davvero e chi invece continua a sposare la linea Minniti. Secondo la viceministra degli Esteri Marina Sereni il governo avrebbe già predisposto le modifiche, che saranno sottoposte alle autorità libiche al fine di concludere presto un nuovo accordo. Se così fosse, ci si chiede come mai abbiano lasciato che il contratto si auto-rinnovasse senza alcuna modifica. Un dubbio che appare ancora più lecito se si pensa che, da quando si è insediato, l’esecutivo giallorosso non ha ancora messo in discussione i dl Sicurezza e sul fronte migranti abbia cambiato poco o niente. Forse perché la sinistra – anche se annacquata – non ha ancora il coraggio di contraddire la destra su una linea, quella anti-accoglienza, che sembra aver funzionato molto per lei. Questo sebbene l’adagiarsi dei progressisti sulle istanze nazionaliste non li abbia portati lontano. Forse. Anche perché l’alternativa è che alle persone che sono al governo non importi nulla né dei diritti umani dei migranti, né del denaro dei contribuenti europei.

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