L’Italia non è un Paese per giovani. A dirlo non è tanto la grigia programmazione di una Rai che sembra rimasta al secolo scorso o un’opinione pubblica che li dipinge come untori e mammoni viziati che non hanno voglia di lavorare: lo raccontano i dati e la realtà quotidiana della prima generazione che ha visto la linea del progresso fermarsi, con il 50,3% delle persone tra i 18 e i 34 anni che vive in una condizione socio-economica peggiore rispetto a quella vissuta dai genitori alla loro età. I problemi sono tanti ed è necessario che il governo Draghi prenda misure concrete atte a contrastarli.
Nell’introduzione al Rapporto Giovani 2020 dell’Istituto Toniolo, il professor Alessandro Rosina sottolinea come i giovani fossero una “generazione in lockdown” già da prima che cominciassero le restrizioni per contrastare la pandemia: immobilizzati da un sistema che fa di tutto per tenerli fermi, bloccati, impedendogli di emergere e di affermarsi. Secondo il Global Social Mobility Index del World Economic Forum, l’Italia è tra gli ultimi Paesi europei per mobilità sociale, appena sopra Ungheria, Bulgaria e Romania. L’età media in cui un giovane va a vivere da solo nel nostro Paese è poco più di trent’anni, il dato più alto in Europa dietro Croazia e Slovenia. E non si tratta di una questione di scelta o di eccessivo attaccamento alla propria famiglia, quanto dell’impossibilità economica di fare altrimenti. È difficile immaginare come un giovane possa vivere da solo in una città come Milano quando il proprio stipendio non supera neanche la soglia di povertà. Il 30% degli under 29, infatti, non arriva a una retribuzione di 800 euro al mese e soltanto il 37,3% degli under 35 afferma di avere un lavoro stabile. Avere una qualsivoglia retribuzione, seppur infima e degradante rispetto al proprio impegno, appare però un privilegio.
Questo scenario non può che andare a sviluppare una visione negativa del futuro. Secondo uno studio condotto da Demopolis nel 2018, il 66% dei giovani immagina un domani peggiore rispetto al presente, mentre solo il 9% pensa che sarà migliore. Senza prospettive, soffocati da un sistema che fa sembrare anche il più semplice obiettivo di vita impossibile, i giovani molto spesso perdono la speranza. Secondo il Rapporto dell’Istituto Toniolo, i giovani italiani sono quelli che più di tutti rispetto a quelli degli altri grandi Paesi europei hanno accantonato i loro progetti di vita durante la crisi pandemica. Per esempio, se negli ultimi anni due anni solo il 13% dei francesi che progettavano di andare a vivere da soli ha rinunciato a farlo, questa cifra sale al 34,4% nel caso degli italiani. Numeri simili si riscontrano per il matrimonio (40% di abbandono) e avere un figlio (36,5% di rinunce), con in media 20 punti percentuali in più rispetto a Francia e Germania. Non a caso nel nostro Paese la percentuale di giovani che non studia, non lavora e non si sta formando (i cosiddetti NEET) è la più alta dell’intera Ue e secondo Eurostat tocca il 29,4% delle persone tra i 20 e i 34 anni.
Le conseguenze di questi dati sono sotto gli occhi dell’Italia da tempo. Dalla crisi demografica che potrebbe portare a un vero e proprio collasso del sistema di welfare, fino alla fuga dei cervelli verso altri Paesi, dove giovani laureati – e soprattutto laureate – si rifugiano per trovare un ambiente che sappia valorizzare le loro competenze e capacità. Un Paese che volta le spalle ai propri giovani rinuncia a quelle che sono le forze più propulsive della propria comunità, con un’enorme ricchezza persa in termini di innovazione e sviluppo economico e sociale.
Il primo impegno per invertire questa tendenza deve venire da chi ha la responsabilità politica dell’indirizzo generale del Paese, ovvero dal Governo e dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi. Sfruttando la contingenza di una larga maggioranza parlamentare, un alto gradimento popolare per l’esecutivo e le possibilità di investimento fornite dal PNRR, l’Italia ha un’occasione unica per promuovere una serie di misure che aiutino finalmente uscire i giovani dal lockdown economico, mentale e sociale in cui sono bloccati.
È necessario anzitutto agire sul piano lavorativo. Servono politiche che facilitino l’ingresso dei più giovani sul mercato. Il progetto Garanzia giovani, che doveva andare in questa direzione, si è rivelato però per lo più fallimentare a causa del mancato funzionamento dei centri per l’impiego e l’assenza di sinergia con le aziende. In questo modo ha aumentato ancora di più i tirocini precari, esacerbando la situazione esistente. Più efficace sembra invece l’esonero contributivo per l’assunzione degli under 35, previsto nella legge di bilancio 2021, che va però reso strutturale e legato a una garanzia di prospettiva e stabilità lavorativa. Il tema dei tirocini è un altro nodo cruciale, essendo quest’ultimi spesso usati come strumento di sfruttamento per non pagare, o sottopagare e non garantire tutele ai propri dipendenti. Su questo punto, l’onorevole Chiara Gribaudo è la prima firmataria di una legge per riformare il meccanismo degli stage e dell’apprendistato, elaborata dai Giovani Democratici di Milano. Al governo basterebbe poco per esaminarla, discuterne con le altre forze politiche e portarla all’approvazione.
Se si vuole garantire ai giovani la possibilità di essere veramente autonomi bisogna promuovere politiche abitative ad hoc, permettendo anche a chi viene da un contesto socio-economico svantaggiato di avere un tetto sotto cui stare in maniera indipendente. Si potrebbe prendere ispirazione dalla Spagna, dove recentemente è stata avanzata una proposta che mira a sostenere le spese per affitto dei giovani tra i 18 e i 35 anni con bonus mensili fino a 250 euro. Bisogna estendere le agevolazioni per i giovani a tutti i settori, dall’ingresso ai teatri e ai musei fino agli sgravi fiscali. Se questa può sembrare una misura eccessiva, ci si può ricredere dando un’occhiata all’enorme differenza nella distribuzione di ricchezza tra generazioni: più di 130mila euro per i 70-80enni, e poco meno di 30mila per la fascia dai 20 ai 40 anni. Tra l’altro, gli anziani tendono a far stagnare questa ricchezza (che, non a caso, rispetto al reddito disponibile raggiunge uno dei livelli più alti d’Europa) mentre i giovani potrebbero spenderla e investirla, inaugurando un circolo virtuoso per la crescita economica del Paese.
Scuola e università devono poi diventare prioritarie. Siamo ancora il Paese con il numero più basso di laureati d’Europa dopo la Romania, con meno del 30% nella fascia 25-34 anni, e questo perché in Italia la laurea nella maggior parte dei casi non viene sufficientemente valorizzata nel mondo del lavoro. Su questi temi, il governo ha recentemente preso alcuni provvedimenti, destinando 17,59 miliardi del PNRR nella scuola. Il rischio, però, è che non sia abbastanza. Serve un’allocazione più strategica delle risorse, programmi più moderni e interattivi e una rivalorizzazione del ruolo dei docenti, a cominciare da una retribuzione più alta, dato che l’Italia, rispetto al proprio PIL, è uno dei Paesi in cui i professori guadagnano meno in Europa. Una politica a misura di giovani deve infine avere come orizzonte il futuro e investire quindi massicciamente in ricerca e innovazione. Anche in questo ambito, l’Italia si trova molto indietro, con appena l’1,4% del Pil speso in ricerca e sviluppo tra pubblico e privato, mentre la media Ue si attesta al 2,2%. Seppur la ministra dell’Università e della Ricerca Cristina Messa abbia dichiarato che il governo stanzierà 9 miliardi per la ricerca nei prossimi anni, questo potrebbe non bastare a colmare il divario con gli altri Paesi europei, mentre avremo bisogno di investire più degli altri per colmare il gap formatosi negli ultimi decenni.
Più in generale, è necessario che le forze politiche avanzino proposte concrete per risolvere la questione giovanile, anche forti e divisive, così che l’attenzione del Paese si concentri su questo tema, invece di continuare a ignorarlo come se non esistesse. Per esempio, quando il segretario del Partito Democratico Enrico Letta ha avanzato una proposta sul voto ai sedicenni e su una dote per i diciottenni da spendere in abitazioni, formazione e lavoro, c’è stata un’immediata levata di scudi da parte delle altre forze politiche e poi non se n’è più parlato. Ma quelle proposte hanno avuto il merito, almeno per una settimana, di porre sotto l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica la questione giovanile. Perché il governo si concentri sulle politiche per i giovani serve infatti che questa attenzione diventi una costante.
Se è vero che i giovani in primis devono rivendicare i propri diritti, non bisogna però cadere in una sorta di victim blaming generazionale. Dalle mobilitazioni per l’ambiente di Fridays for Future, alle giovanili dei partiti, fino al nuovo fervore culturale che gruppi come Orizzonti Politici, Tortuga e Pandora Rivista stanno generando, i giovani ci sono e cercano di far sentire la propria voce, nonostante gli infiniti ostacoli che incontrano. Ma bisogna prendere consapevolezza del fatto che la generazione Z e molti millenial si trovano in un sistema molto complesso che non possono cambiare da soli e dove i ruoli di maggior potere sono occupati da chi non ha interesse a modificare lo status quo, nemmeno se da questo cambiamento dipende il suo stesso bene e quello del Paese in cui vive.
La questione giovanile è così importante per il futuro dell’Italia che affrontarla non può spettare a una sola forza politica o a un solo gruppo sociale. Deve essere un impegno collettivo dell’intera società, che parte dallo stimolo dei giovani e si concretizza nelle decisioni di chi detiene posizioni di potere; che si rafforza della pluralità di idee provenienti da diverse tradizioni politiche e culturali e si arricchisce del civismo e dei contributi dal basso. Il passo decisivo per avviare questo processo in maniera sistematica ed endemica, però, può venire per forza di cose solo dal Governo. L’agenda dell’esecutivo Draghi deve essere dettata dall’imperativo di trasformare l’Italia in un Paese a misura di giovani. Si tratta di un’urgenza inderogabile, una cosa che, per usare l’espressione resa celebre proprio dall’ex presidente della BCE, deve essere fatta “whatever it takes”. Oppure, nella sua apocalittica semplicità, il nostro Paese non avrà un futuro.