A distanza di qualche settimana, in cui la stampa ha parlato di Black Lives Matter e delle piazze italiane che si sono riempite contro il razzismo, l’Italia è tornata a mostrare il suo vero volto utilizzando una persona di origine straniera come capro espiatorio per tornare a definire “gli immigrati” come vero e unico problema del Paese.
Le testate giornalistiche si sono focalizzate sul caso di un uomo ripreso a cuocere un gatto in mezzo alla strada a Campiglia Marittima, in provincia di Livorno. Il video è diventato virale in poco tempo ed è stato strumentalizzato come ennesima campagna contro gli immigrati da parte dell’estrema destra, da Giorgia Meloni a Matteo Salvini. Ma non sono solo loro ad aver contribuito a generalizzazioni e strumentalizzazioni: anche la stampa ha fatto il suo, scrivendo sistematicamente “immigrato arrostisce gatto”, prima ancora di porsi delle domande sul perché di un’azione che è evidentemente sintomo di un malessere profondo che non c’entra nulla con la provenienza della persona. Non è infatti un caso che sotto al post su Facebook di Alberta Ticciati, sindaca di Campiglia Marittima, su quanto avvenuto, la sezione commenti si sia riempita di frasi come “Ucciso un gatto e cotto in strada. Il nostro benvenuto ai portatori di civiltà”. O ancora con frasi sgrammaticate di sostegno nei confronti della sindaca e apparentemente “antirazziste” come: “Questo episodio penso che non intacchi l’amministrazione comunale, il tizio che ha fatto questa brutta cosa, per lui è una normalità nel suo Paese”.
Nonostante sia evidente che un’azione simile sia dettata da un disagio grave, se si è di origine straniera, allora l’azione non può essere dettata da problemi mentali o disagi sociali, ma da stile di vita – come ha affermato l’europarlamentare leghista e candidata alla presidenza della regione Toscana Susanna Ceccardi – o da “normalità nel Paese di origine”. Non ci si può permettere di essere stranieri e avere problemi psichici o sociali, poiché le azioni diventano automaticamente un tratto caratteristico dell’etnia o della nazione di provenienza. In questo caso l’essere ivoriano, e quindi nero, assume un connotato peggiorativo che si collega all’idea di bestialità e disumanità che, secondo quanto fatto emergere da stampa e commenti sui social, è tipico “degli africani”.
“Siamo in Italia, qui gli animali si rispettano. Se qualcuno non è d’accordo con questo principio può tornare al suo Paese”, ha commentato la senatrice leghista Roberta Ferrero, eppure come ha scritto la scrittrice e attivista culturale Djarah Kan: “In Ghana, se mangi un gatto in mezzo alla strada, ti ricoverano. Ma ti ricoverano anche se dici che un gatto cucinato in mezzo alla strada è il simbolo dell’arretratezza culturale del popolo di un intero continente”. Inoltre, nel 2014, un uomo di cinquant’anni di Agrate, in Lombardia, adottava gatti per poi ucciderli e mangiarli, poi è stato denunciato – ma nessuno ha osato parlare di “attacco alla cultura italiana”.
Il caso “dell’immigrato e del gatto ucciso e arrostito” dovrebbe essere irrilevante o far emergere una discussione sulle problematiche sociali che colpiscono le categorie più vulnerabili della società. Eppure è solo servito per ricordarci il tipo di Paese in cui viviamo. Le testate giornalistiche, con i loro titoli, hanno reso questo episodio un vasto terreno di scontro culturale, ignorando, per altro, qualsiasi criterio previsto dalla “Carta di Roma” sul modo di trattare fatti di cronaca che riguardano migranti o stranieri, la quale prevede che non venga messo in primo piano, nel titolo, la provenienza, l’etnia o la nazionalità di una persona se non sono rilevanti per spiegare un fatto. La conseguenza di questa azione è quella di ritrovarsi un pubblico di lettori pronti ad associare una determinata azione all’etnia specificata nel titolo e questa generalizzazione porta inevitabilmente alla discriminazione.
Tutto quello contro cui si è protestato nelle ultime settimane, tra movimenti Black Lives Matter italiani scesi in piazza e attivismo sui social, è svanito nel nulla, coperto da un solo episodio marginale, dando spazio – sempre senza contraddittorio – alla voce dell’estrema destra, che ci riporta alla vera realtà italiana, razzista e fin troppo distratta rispetto al dibattito approfondito su cui si dovrebbe concentrare. Se da un lato le proteste nate negli Stati Uniti contro il razzismo sistemico sono state la spinta per dar vita a iniziative nelle varie città sulle problematiche inerenti alle discriminazioni presenti nei Paesi europei, dall’altro è evidente che siamo ben lontani da una presa di coscienza, non solo dei cittadini ma anche da parte della classe dirigente.
Il segretario del Partito Democratico, Nicola Zingaretti, ha “rimproverato” Lega e Fratelli d’Italia per non aver votato a favore della risoluzione contro il razzismo, su iniziativa del Parlamento europeo dicendo che “C’è chi soffia sull’odio, [e] c’è chi, come noi, lo combatterà sempre per una comunità più unita”. Non si capisce però che cosa si intenda con “come noi” dato che sta facendo riferimento allo stesso partito che non ha nemmeno tentato di fare qualcosa per l’approvazione della riforma di cittadinanza – e ci sono oltre 800mila ragazzi e ragazze nati o cresciuti in Italia che non vengono considerati come parte integrante del Paese. O ancora lo stesso partito che, con il Decreto Minniti e gli accordi con la Libia, ha fatto da apripista a ulteriori leggi disumane come i Decreti Sicurezza – tutt’ora in vigore e che non si pensa di abolire, continuando, peraltro, a finanziare l’equipaggiamento marittimo della “guardia costiera” libica con i fondi dell’Unione Europea. Infine, è lo stesso partito che fa parte di un governo il cui ministero dell’Interno ha negato l’accesso a un porto sicuro alla nave Ocean Viking, con 180 persone tra cui minori non accompagnati, in condizioni precarie e con diversi tentativi di suicidio, per 10 giorni – prima di assegnare Porto Empedocle per lo sbarco.
Quello del Partito Democratico, ma anche dell’Unione Europea, è un atteggiamento che si può definire come “antirazzismo performativo”, ossia un tipo di attivismo che si basa più sulle parole che sui fatti, e che si palesa solo quando un determinato argomento diventa trend. La risoluzione contro il razzismo, votata al Parlamento Europeo, è un’altra iniziativa che si rivelerà inutile se non cambierà radicalmente l’approccio alle migrazioni, per cui al momento si preferiscono osservare da lontano le violazioni dei diritti umani nei campi di detenzione libici; si preferisce il silenzio di fronte alle violenze della polizia croata nei confronti di persone migranti sulla rotta Balcanica; si preferiscono esclusione e marginalità per chi si trova in territorio europeo ma si vede bloccato da un muro burocratico per ottenere un contratto di lavoro e i documenti necessari per abitarci in regola – alimentando quindi lo sfruttamento ai danni di donne e uomini vulnerabili, come ribadito nel comunicato dello European Union Agency for Fundamental Rights. E tutto questo perché abbiamo leggi poco lungimiranti sulla mobilità internazionale, che rendono l’Europa una fortezza.
Il dibattito sul razzismo in Italia è stato anche banalizzato da una discussione accesa, che vedeva come protagonisti esclusivamente intellettuali e giornalisti bianchi, sulla statua dedicata a Indro Montanelli. Anziché focalizzarsi su un nuovo approccio decoloniale per decostruire la storia di razzismo e colonialismo italiani, il dibattito si è trasformato nella semplificazione di quello che il sindaco Beppe Sala ha definito un “errore”: genocidi, stupri e violenze trasformati in una semplice svista di condotta personale. Il razzismo culturale ed endemico in Italia deriva proprio da questa autoassoluzione perenne, in cui, anche se le minoranze coinvolte hanno voce in capitolo, vengono silenziate da chi sostiene che esista una sorta di “dittatura del politicamente corretto”. Chi lo dice è chi non si è mai messo in discussione né ha mai pensato di avere dei bias cognitivi inerenti alla percezione della storia – troppo bianca ed eurocentrica, in cui determinati “eroi” erano schiavisti e colonizzatori – e alla percezione delle minoranze etniche. Eppure fare un passo indietro e mettersi ad ascoltare chi ancora oggi subisce retaggi coloniali e razzisti di non molto tempo fa dovrebbe essere la fase principale per poter aspirare a un cambiamento radicale – e invece ci ritroviamo un Beppe Severgnini che sul Corriere sminuisce le violenze subite da donne e bambine nere durante il colonialismo fascista, parlando di un pentimento di Montanelli che non è mai avvenuto, dato che, nel 2000, parlava della sua esperienza coloniale come un’avventura romantica.
Un’altra banalizzazione la si è avuta con l’attenzione mediatica focalizzata sulle mosse di marketing di grandi aziende, dalle polemiche scaturite su HBO e Via col vento fino alle creme sbiancanti, e il fatto di rimuovere il termine “sbiancante” poiché ritenuto offensivo. È evidente che ci troviamo di fronte a un ulteriore esempio di “antirazzismo performativo”, dato che le grandi aziende sfruttano il trend del momento per sembrare più inclusive, ma scatenando, di fatto l’effetto contrario. Inoltre, sono le minoranze stesse, specialmente quelle che appartengono alla classe lavoratrice, che negli Stati Uniti hanno evidenziato come queste trovate pubblicitarie stiano coprendo le vere richieste nate delle proteste – dal taglio dei finanziamenti alla polizia, investendo invece in politiche sociali, fino al contenimento della gentrificazione dei quartieri, che penalizza le persone afroamericane e di altre minoranze segregandole. Il risultato è stato quello di riportare sulle testate giornalistiche italiane questioni comunque importanti quali la pratica della black face e il problema delle creme sbiancanti, ma spesso senza neanche una base di conoscenza per parlarne in modo approfondito e appropriato. Così, queste questioni sono state prese come “esagerazione delle proteste”, quando in Italia le minoranze etniche che sono scese in piazza hanno parlato di problemi molto più urgenti come il razzismo sistemico e socioculturale, lo sfruttamento di donne e uomini braccianti uccisi dal caporalato e da leggi ingiuste – come Soumaila Sacko o Becky Moses – la Bossi-Fini, l’attentato razzista del fascista Luca Traini e lo ius soli.
Parlare di razzismo in Italia non è semplice, è un tema che ottiene visibilità – e se ne parla anche in modo semplicistico – solo quando si raggiunge l’apice con un’aggressione o un’uccisione a sfondo razziale. Il fatto che in Europa ci sia stata questa risposta solo a causa di un omicidio avvenuto dall’altra parte dell’oceano fa riflettere su quanto lavoro sia ancora necessario fare per raggiungere un dibattito maturo, che veda coinvolte in prima persona le minoranze che ne sono protagoniste. Solo quando il caso di una persona con evidenti disagi mentali – che ha solo la “colpa” di essere di origine ivoriana – non verrà strumentalizzato riempiendo le prime pagine dei giornali sarà possibile creare un terreno per una sana discussione e decostruzione del razzismo socio-culturale presente in questo Paese.
Foto in copertina di Antonio Masiello