La prima volta che ho sentito parlare di “sindrome dell’impostore” è stato dal mio ex fidanzato, che credo abbia contribuito a un discreto numero delle nevrosi che per anni mi hanno afflitto da quando la nostra storia aveva all’epoca iniziato a naufragare, ma ha avuto almeno il merito di dare un nome a una delle mie paranoie ricorrenti e più difficili da superare. Non che questo nome se lo sia inventato lui: l’aveva semplicemente letto in un racconto della raccolta Oblio di David Foster Wallace che non mancò di regalarmi. La sindrome dell’impostore è stata teorizzata più di trent’anni fa da Pauline Rose Clance e da Suzanne Imes, terapiste della Georgia State University, che nel loro studio pubblicato nel 1978 si concentrarono su donne che avevano successo in ambito accademico, ma che erano convinte di essere delle imbroglione a livello intellettuale. Le dottoresse descrissero questo fenomeno (Impostor Phenomenon) come un sentimento di “ipocrisia in persone che pensano di non essere intelligenti, capaci o creative, nonostante l’evidenza di risultati molto alti”, persone “altamente motivate a raggiungere degli obiettivi” e che nello stesso tempo “vivono nel timore di essere scoperte e smascherate come truffatori”.
Sentire di non meritarti le tue conquiste e i risultati ottenuti, a livello scolastico o lavorativo; pensare che un voto alto o una promozione siano capitati per errore o per semplice fortuna – anzi, una terribile sfiga, una presa per il culo dell’universo per metterti in crisi e dimostrare una volta per tutte che in realtà non vali niente. Il dubbio cronico su te stesso di fronte a standard e obiettivi molto alti, ansia, mancanza di fiducia, depressione, frustrazione, secchezza delle fauci, crampi addominali, pulsione di morte. Fa tutto parte del gioco. Nonostante le evidenze e le conferme di riuscita che ti arrivano dal mondo esterno: tutti, ne sei sicuro, ti hanno sempre sopravvalutato. Secondo il California Institute of Technology Counseling Center, la sindrome dell’impostore è infatti “una collezione di sentimenti di inadeguatezza che persiste anche di fronte a un’affermazione che indica come vero il contrario”.
Risalendo l’albero genealogico, scrive la coppia di dottoresse, la causa andrebbe ricercata nelle figure genitoriali, colpevoli di aver portato in palmo di mano la propria creatura, investita di un’intelligenza e di altre capacità intellettive degne di un futuro premio Nobel, oppure catalogata come “molto sensibile”, in paragone con un fratello o una sorella reputati più brillanti. Eccoti a voler confermare di essere all’altezza delle aspettative o a voler provare di non essere da meno. Secondo altri studi sarebbe colpa da un lato di genitori troppo protettivi e dall’altro di genitori troppo assenti – praticamente siamo tutti potenzialmente a rischio. E se la colpa non fosse di chi ti ha messo al mondo, riversala pure su quegli amici che non hanno saputo sostenerti abbastanza. Eccoti in età più adulta con gli attacchi di panico, il bisogno di dimostrare a tutti i costi di esserti guadagnato quel posto di lavoro, l’ansia da prestazione, fino alle opportunità rifiutate per paura di trovarti spalle al muro e di essere riconosciuto una volta per tutte come un grandissimo fake (gli anglofoni direbbero “fraud”) in grado di prendere in giro il resto del mondo – senza nemmeno sapere bene da dove ti sia uscita questa abilità, tra l’altro. Se questo identikit non bastasse ancora per riconoscerti nel bacino di impostori generati da schiere di madri e padri inconsapevolmente sadici, c’è il test ideato da Clance per dare un valore al tuo livello di paranoia.
L’assunto iniziale della ricerca di Clance e Imes era che a soffrire di IP dovessero essere per lo più le donne – complici gli episodi di sessismo, quella difficoltà ad affermarsi sul posto di lavoro e a ottenere credito da parte dei colleghi che è sempre stata imputata al genere, soprattutto in campi in cui si trovano sottorappresentate – ma studi successivi hanno rivelato che anche gli uomini ne soffrono parecchio. Semplicemente, sarebbero meno inclini ad ammetterlo. Smetti in ogni caso di sentirti patetico, speciale o incompreso – altro sintomo di presunta impostura – e pensa che è un fenomeno molto più diffuso di quanto immagini. Per una volta internet, la peggior risposta mai inventata alle domande di un qualsiasi ipocondriaco, diventa un efficace palliativo, perché dimostra che a bordo della stessa barca c’è un sacco di altra gente.
Secondo una ricerca commissionata dall’agenzia Amazing If, un terzo dei millennials dubiterebbe del proprio valore sul lavoro, con un 40% di donne che ammette di essere intimidita dai colleghi più anziani, contro un 22% di uomini, mentre secondo quanto riportato da Psycology Today circa il 70% della popolazione generale avrebbe sperimentato questa sensazione almeno una volta nel corso della propria carriera. Anzi, nella sua costruzione la sindrome dell’impostore costituirebbe un vero e proprio “rito di passaggio”. Insomma, le possibilità che almeno la metà dei tuoi colleghi conviva con le tue stesse paranoie o che il tuo superiore, nonostante lo sguardo dall’alto in basso che ti riserva ogni giorno, si guardi tutte le mattine riflesso nello specchio dell’ascensore convinto di essere un fake, sono molto alte. Anche perché il rischio di caderne preda è direttamente proporzionale al livello di successo ottenuto – quindi sì, è praticamente sicuro che il tuo capo stia peggio di te, ma anche Pablo Picasso, che si definiva un bluff, o il premio Nobel per la letteratura Albert Camus, che nei suoi diari, dopo la vittoria, confessava di dubitare delle proprie capacità di scrittore. Questo tipo di paranoie se le faceva perfino uno come Neil Armstrong, tra i pochi esseri umani a poter dire di aver visto la Terra dall’alto prima che esistesse Google Maps.
Però, almeno, di sindrome dell’impostore non si muore. Anzi, ammettere di soffrirne è diventato cool quanto lamentarsi del blocco dello scrittore. Tra le confessioni degli ultimi anni ci sono quella di Emma Watson, cresciuta cinematograficamente nel cast di Harry Potter, che ha raccontato a Vogue di quanto recitare l’abbia fatta sentire spesso fuori posto – da bambina era molto più facile buttarsi – e di quanto ancora oggi si senta un’impostora; quella di Kate Winslet, che spesso, prima di recarsi sul set, rimane paralizzata all’idea di essere un’incapace e un’imbrogliona. E così Michelle Pfeiffer, Tina Fey e persino Meryl Streep, perseguitata dall’idea di non essere assolutamente in grado di recitare. Altra icona dei presunti inadeguati è stata la poetessa e attivista americana Maya Angelou che diceva: “Ogni volta che scrivo un libro, ogni volta che affronto quel il foglio bianco, la sfida è gigantesca. Ho scritto undici libri, ma ogni volta penso, ‘Ok, adesso mi beccano. Ho preso tutti in giro e adesso lo scopriranno’”. Tutto questo nonostante le valanghe di premi ricevuti (e le oltre 50 lauree ad honorem). In realtà, se doveste domandare a qualunque creativo che ne abbia azzeccata almeno una, che sia uno scrittore al suo primo best seller, un cantautore il cui nuovo singolo passa finalmente in radio, un autore di un programma di successo – e persino Lisa Hanawalt, producer e production designer dell’osannato BoJack Horseman – e costringerli a essere sinceri, vi direbbero che hanno tutti, dal primo all’ultimo, una paura invincibile della prossima prova, quella che finirà per rivelarli in modo definitivo al mondo per quello che sono realmente.
Inutile dire che i social media non hanno per niente aiutato a emanciparsi da questo meccanismo autodistruttivo. In soccorso, oltre alla seduta di psicoterapeuta del lunedì pomeriggio e ai tutor per corrispondenza, arriva la solita sterminata letteratura sull’auto-aiuto, dai testi il cui mantra suona come uno slogan a quelli che ti spiegano come vincere l’impostore che c’è in te in n semplici mosse (il numero non è mai lo stesso). Dal primo testo di Clance del 1985 (The Impostor Phenomenon: Overcoming the Fear That Haunts Your Success), siamo passati a quelli coi titoli a prova di seo, quelli che continuano a puntare su un pubblico femminile, quelli che smetti di essere un perfezionista, e insomma, potremmo andare avanti fino al prossimo appuntamento dall’analista. Senza ricorrere ad Amazon, bastano le decine di siti italiani, ma soprattutto americani, che si occupano di spiegarti che cosa fare per uscirne vivo, talk di TED e liste di BuzzFeed compresi. Tutti ti invitano a liberarti dal tuo solipsismo, a smettere di confrontarti con il profilo Facebook degli ex compagni del liceo, a rileggere più volte il tuo curriculum e a ricordare, soprattutto, che “feeling aren’t facts”, anche se forse la soluzione migliore per superare questa, come altre manie, è fregarsene.
Basta che non facciamo di tutti coloro che soffrono della sindrome dell’impostore dei martiri ignari, condannati dalla mancanza di fiducia in se stessi e inclini all’autosabotaggio e all’insoddisfazione cronica, perché l’altra faccia dell’impostore, quella consapevole, esiste, e spesso si nasconde dietro alla maschera da vittima, in cerca di attenzioni e di conforto, come quei compagni di corso che all’università inscenavano tragedie prima di un qualsiasi esame per poi uscirsene sempre con un trenta sul libretto. In uno studio del 2000 alcuni psicologi della Wake Forest University hanno dimostrato l’esistenza di varie sfumature di impostura, sottoponendo ad alcune prove di abilità intellettuali e sociali un campione di persone che ritenevano di soffrire della sindrome. Si è scoperto che in generale coloro che risultano più impostori rispetto alla scala ideata da Clance, esplicitamente interpellati prima di sostenere le prove sarebbero inclini a dire di aspettarsi un risultato basso. Una risposta ben diversa rispetto a quella che fornirebbero quando viene chiesto loro di pronunciarsi sulle proprie aspettative in modo anonimo: in quel caso confesserebbero infatti di sperare in un voto tanto alto quanto quello previsto da persone con un livello più basso di impostura.
Per farla breve, molti impostori sarebbero degli ipocriti che adottano comportamenti autolesionisti e autodenigratori come strategia sociale, in modo più o meno consapevole, e che nutrono più fiducia nelle proprie capacità di quanto dichiarino apertamente. L’impostorismo risulterebbe quindi una strategia di autorappresentazione, più che un vero e proprio tratto della personalità. Scientificamente si parla di due tipi di disturbi: il primo è quello “fittizio”, per cui il mentitore simulerebbe o esagererebbe i sintomi per passare da malato e ottenere vantaggi emotivi e relazionali – leggi: attenzioni e cure. I simulatori peggiori però sarebbero quelli affetti da “disturbo di personalità istrionica”, che arrivano addirittura a fingersi malati e sfavoriti per ottenere vantaggi concreti e pratici – la figura di riferimento in questo caso è quella di Odisseo, che dal cavallo di Troia all’incontro coi Proci, grazie alle sue doti di abile ingannatore riuscì a espugnare una città, a sopravvivere alla sfiga che lo perseguitava e a riprendersi sua moglie, ma senza scomodare l’epica basta pensare ai falsi invalidi di cui pullulano da sempre le prime pagine dei quotidiani.
A questo punto quindi la domanda: qualcuno si salva? Forse solo chi subisce l’effetto Dunnin-Krueger, teorizzato in un paper del 1999, Unskilled and Unaware of It: How Difficulties of Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-assessments. Qui il professore di psicologia sociale della Cornell University David Dunnin e il suo laureando Justin Krueger illustrano quella distorsione cognitiva per colpa della quale individui poco esperti in un determinato campo tenderebbero a sopravvalutare le proprie capacità, considerandosi a torto degli esperti in materia.“Quando le persone sono incompetenti nelle strategie che adottano per ottenere successo e soddisfazione sono schiacciate da un doppio peso: non solo giungono a conclusioni errate e fanno scelte sciagurate, ma la loro stessa incompetenza impedisce loro di rendersene conto”.
In entrambi i casi la valutazione che diamo di noi stessi è sbagliata e dipende da un condizionamento, difficile decidere cosa sia peggio. Il primo passo per vincere la sindrome dell’impostore è riconoscerla, darle un nome e investire molto sul nostro cambio di prospettiva, volto ad accettare che a volte il duro lavoro merita dei buoni risultati, anche se è nostro.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 13 ottobre 2017.