Durante l’agosto del 1892 ad Amburgo, nella Germania da poco riunificata sotto il Reich di Bismarck e Guglielmo I di Prussia, scoppia un’epidemia di colera. Da alcuni anni il morbo sembrava essere stato quasi debellato in Europa, grazie all’introduzione di moderne misure igieniche e sanitarie nella fornitura d’acqua, nei condotti fognari e nella pulizia delle strade. Ad Amburgo, tuttavia, nulla di tutto questo è stato fatto. La città, tra i più importanti porti del continente, è retta da un consiglio oligarchico di mercanti, semiautonomo dal governo centrale del Reich e orientato a politiche di laissez-faire: le tasse sono basse e l’intervento dell’amministrazione è minimo, anche nell’ambito della salute pubblica.
Quando si manifestano i primi casi di colera, tra un gruppo di emigrati russi in attesa di imbarcarsi per l’America, la prima preoccupazione del senato cittadino è di garantire il proseguimento dell’attività economica. Non viene preso nessun provvedimento, se non tentativi di minimizzare l’arrivo della malattia inducendo i medici ad ascrivere le morti ad altre patologie. Mercanti e industriali si sentono nel giusto. La loro strategia è supportata dal parere di illustri scienziati dell’epoca, come l’igienista e luminare della chimica Max Joseph von Pettenkofer, che riconducono il colera all’effetto di miasmi che salgono dal suolo. Secondo la teoria miasmatica, il germe del colera è innocuo fino a quando non riesce ad attecchire su un terreno adatto ad accoglierlo. Combinato con materia organica in putrefazione, il germe solleverebbe quindi vapori invisibili e pericolosi, capaci di infettare gli esseri umani. Semplici precauzioni igieniche, interventi di natura geologica e persino uno stile di vita moderato, lontano dagli eccessi, sarebbero sufficienti a neutralizzare la minaccia del microbo. In quest’ottica una quarantena su larga scala e il blocco della produzione non avrebbero senso, sia dal punto di vista economico che scientifico.
Inoltre, fin dall’inizio del secolo, il colera è considerato “il morbo dei poveri”, perché per i miasmatici sarebbe favorito dalla sporcizia, dall’aria malsana e dallo stile di vita immorale attribuito alle classi operaie e più umili. La maggiore incidenza delle vittime nelle classi popolari contribuisce a mantenere viva questa convinzione. Stampe dell’epoca ritraggono signore della borghesia europea adornate di erbe aromatiche profumate che, da sole, basterebbero a debellare i fumi immondi della malattia. Gli oligarchi di Amburgo sono quindi convinti che limitare l’attività del porto sia una soluzione inutile, dato che quasi solo i poveri aspirano le esalazioni che causano il colera.
I bacilli del morbo hanno così modo di proliferare. Favoriti dal clima caldo e umido, si moltiplicano nel fiume Elba e infestano le riserve d’acqua della città da 600mila abitanti. In appena sei settimane muoiono circa 10mila persone, circa il 50% dei contagiati. I più colpiti sono soprattutto i ceti meno abbienti, costretti a vivere in piccoli alloggi sovraffollati con bagni condivisi e inconsapevoli degli accorgimenti che avrebbero potuto salvarli, come la bollitura dell’acqua. L’epidemia è ormai fuori controllo quando il governo di Berlino invia ad Amburgo il batteriologo Robert Koch, con i poteri di commissario straordinario della città. Le autorità mediche locali fedeli alla teoria dei miasmi vengono sostituite; viene istituito un regime di quarantena; i malati sono isolati in ospedali da campo dell’esercito; nelle piazze viene distribuita acqua decontaminata fatta arrivare con delle cisterne. In ottobre il contagio si arresta. Per Koch, che pochi anni prima aveva isolato il bacillo del colera durante un viaggio in India, è un successo. Von Pettenkofer resta però fedele alla sua teoria al punto da chiedere all’avversario scientifico di inviargli un campione di acqua contaminata, per poi berlo davanti ad alcuni testimoni. Nonostante l’età avanzata, Von Pettenkofer non contrae il morbo e scrive una lettera a Koch per rimarcare l’affidabilità della teoria miasmatica. In realtà, pare che un assistente di Von Pettenkofer avesse diluito la coltura di bacilli per attenuarne la letalità, all’insaputa del suo maestro.
Le élite di Amburgo, intanto, devono cedere alle imposizioni del Kaiser Guglielmo, costruendo opere per il filtraggio dell’acqua, realizzando un piano edilizio di case popolari e nominando ispettori sanitari. Nel 1893, alle elezioni a suffragio universale per il Parlamento tedesco, i socialdemocratici si assicurano tutti e tre i seggi riservati alla città. Questa vicenda, raccontata dallo storico inglese Richard J. Evans nel saggio Death in Hamburg del 1987, sembra ormai un retaggio storico. Eppure, anche oggi, il Coronavirus ha dimostrato come più e meno abbienti subiscano diverse ripercussioni durante questa pandemia, con i primi che continuano ad avere meno probabilità di essere esposti al contagio.
Secondo un’indagine del New York Times, che ha aggregato per reddito i dati sugli spostamenti emersi dalle celle telefoniche nelle settimane precedenti e successive alla dichiarazione del lockdown negli Stati Uniti, gli individui con redditi più alti sono riusciti a ridurre la mobilità prima e meglio degli altri. Il Brookings Institute e il dipartimento del lavoro americano hanno infatti verificato che all’aumentare delle entrate cresce anche la possibilità di lavorare da casa e di conseguenza di evitare spostamenti e contatti sociali. Molti dei lavoratori più a rischio di contrarre la malattia fanno parte delle fasce di reddito al di sotto della media nazionale. Una situazione che si ripresenta in tutti i Paesi del mondo interessati da misure di lockdown, Italia compresa. Come ha osservato la direzione centrale Studi e Ricerche dell’Inps, in uno studio di fine aprile, le province italiane più colpite dal contagio nel periodo tra il 24 febbraio e il 21 aprile sono proprio quelle con un numero di attività essenziali superiore alla media nazionale: qui il virus infetta 10 persone in più al giorno, il 25% in più.
Le curve del contagio riflettono le disuguaglianze economiche e sociali anche in un altro modo, colpendo una parte della popolazione già afflitta da patologie pregresse (malattie polmonari, cardiovascolari, diabete) e da altri fattori di rischio che possono portare a complicanze più gravi se contagiati da COVID-19. I ritmi lavorativi e le basse retribuzioni, infatti, influiscono sulla capacità di controllare le proprie condizioni di vita e si ripercuotono anche sul fisico. È quello che Giuseppe Costa, epidemiologo dell’università di Torino, definisce “stress cronico”. Gli effetti sono tali da incidere sull’aspettativa di vita, tanto che un operaio vive in media cinque anni in meno di un dirigente. A Torino, addirittura, la linea del tram numero 3, che collega la periferia delle Vallette con la ricca precollina di piazza Hermada, rappresenta a livello tangibile questo divario: per ogni chilometro percorso verso la periferia si perdono cinque mesi di vita. Questa costante si è rilevata anche nel Regno Unito, dove nelle aree più povere del Paese il tasso di mortalità dovuto al Coronavirus è il doppio rispetto a quelle a reddito più elevato.
A quasi 130 anni di distanza dall’epidemia di colera di Amburgo, sono ancora una volta le persone a basso reddito le più minacciate. Mentre si entra nella fase della ripartenza, è perciò lecito domandarsi se coloro che spingono per la riapertura delle attività produttive siano, come allora, anche quelli che ne traggono i maggiori benefici in termini economici e che corrono rischi minori per la loro salute. La popolarità della teoria dei miasmi tra i mercanti e gli industriali dell’Amburgo di fine Ottocento dimostra che le élite, pur non essendo indifferenti alla scienza, sono disposte ad accettare solo le prescrizioni scientifiche che sono politicamente ed economicamente sostenibili per i loro interessi. Oggi sembra impossibile conciliare le pressioni di Confindustria con lo scenario prudenziale e di sacrifici economici delineato dal virologo Andrea Crisanti di Padova, che suggerisce di permettere le aperture parziali solo in un campione di Regioni, dando alle altre il tempo di prepararsi. È chiaro che il peso della componente economica è ormai superiore a quello della scienza e della salute, imponendosi anche nel dibattito pubblico. Eppure solo una minoranza degli italiani, il 20%, era d’accordo con riapertura totale dal 4 maggio, mentre il 32% avrebbe aspettato una maggiore riduzione dei contagi. Negli Stati Uniti, dove il lockdown ha già provocato la perdita del lavoro o una riduzione delle ore lavorate al 50% degli occupati, il 73% della popolazione preferirebbe proseguire il distanziamento sociale anche a costo di aggravare ancora la tenuta dell’economia.In questi primi giorni di “fase due” le misure e i loro successivi aggiornamenti da parte dell’esecutivo non possono ignorare la paura legittima che deriva da un’esposizione diseguale al virus a seconda della fascia sociale a cui si appartiene. Il rischio è di riproporre un modello sociale e sanitario che affonda le sue radici in pieno Ottocento, uscito indenne dal trascorrere di quasi 130 anni di storia.