Lo scorso gennaio la Guardia di Finanza ha contestato a Kering, gruppo francese del lusso, di aver evaso 1,4 miliardi di euro di tasse in Italia. La società, attraverso la controllata svizzera Luxury Goods International (Lgi), avrebbe condotto attività commerciali in Italia senza però versare al fisco le somme dovute. Non è il solo filone di indagine che riguarda il gigante multinazionale della moda. Tra il 2010 e il 2014 la società francese avrebbe versato oltre 24 milioni di euro sul conto bancario di una società offshore riconducibile a Patrizio Di Marco, ex amministratore delegato di Gucci, marchio di proprietà di Kering. Oltre al suo stipendio da manager, Di Marco avrebbe ricevuto una remunerazione supplementare in qualità di consulente che approdava però sul conto a Singapore intestato a una società di Panama: 24 milioni di euro tra paga e liquidazione, tutti esentasse.
Il gruppo Kering è di proprietà di François Pinault, di cui si è spesso sentito parlare negli ultimi giorni, dopo il suo annuncio di una donazione di 100 milioni di euro per contribuire alla ricostruzione della cattedrale di Notre-Dame, devastata dall’incendio del 15 aprile. Il gesto di Pinault non è isolato, ma si inserisce in una gara di solidarietà tra diversi miliardari e brand francesi e internazionali. Bernard Arnault, patron della Moët Hennessy Louis Vuitton (Lvmh), ha annunciato una donazione di 200 milioni, Total ha parlato di 100 milioni, L’Orèal, insieme alla famiglia Bettencourt Meyers e alla Fondazione Bettencourt Schueller, contribuirà con 200 milioni, mentre la Disney ha annunciato che verserà 5 milioni. A due giorni dall’incendio si contavano già 800 milioni di euro in donazioni provenienti solo da imprese e famiglie miliardarie francesi.
Questo impeto di generosità del cosiddetto 1%, i multimiliardari, è stato salutato da molti come un gesto lodevole. E in effetti lo è, per il flusso di risorse che porta nelle casse francesi e che permetterà di ridare vita a un patrimonio andato semi-distrutto. Ma la generosità di queste donazioni è solo apparente, trattandosi più che altro di una trovata pubblicitaria. In questi giorni le pagine dei giornali di tutto il mondo citano la filantropia dei Pinault e degli Arnault di turno, sostituendosi alle normali campagne di marketing a cui siamo abituati. Le donazioni creano un’aura positiva intorno a questi marchi e quando la cattedrale riaprirà al pubblico le diverse aziende donatrici registreranno un miglioramento delle proprie performance, facendo la felicità degli investitori. Una strategia di azione win-win che non ha nulla di sbagliato, almeno fino a questo punto. Ma è allargando l’analisi che viene a galla l’ipocrisia di queste gare di generosità.
La legge francese consente alle imprese francesi di detrarre dalle tasse il 60% di quanto donato al patrimonio artistico, nel limite dello 0,5% del fatturato. Se a fare la donazione è un privato, la percentuale sale invece al 66%, nei limiti del 20% del reddito imponibile. Una buona fetta delle donazioni per Notre-Dame verranno dunque restituite ai donatori sotto forma di deduzione fiscale. E a farlo sarà lo Stato, vale a dire i contribuenti. “Mentre nella realtà dei fatti è ancora una volta la collettività a sostenere i costi della ricostruzione, i ricchi potranno attribuirsene il merito”, scrive Marta Fana su Jacobin Italia. Di fronte alle prime polemiche al riguardo, c’è chi si è subito smarcato: il gruppo Pinault ha reso noto di voler rinunciare al maxi-sconto fiscale sulla sua donazione. “Riteniamo che sia fuori discussione fare portare il peso ai contribuenti francesi”, ha dichiarato l’imprenditore. Una frase a effetto e apprezzabile, ma che ancora una volta assume una sola portata pubblicitaria, nascondendo il vero stato delle cose.
L’ultima riforma fiscale voluta dal presidente Emmanuel Macron ha tagliato la platea dei milionari sottoposti all’imposta sulla fortuna: l’aliquota sarà del 40% e verrà applicata a chi ha un patrimonio immobiliare netto superiore a 1,3 milioni di euro. Per le casse dello Stato francese la nuova legge significa 3,2 miliardi di euro persi in un anno. Discorsi simili valgono anche per l’Italia, dove il Ministro dell’Interno Matteo Salvini ripete spesso che “una patrimoniale non la faremo mai”. Al contrario, l’attuale governo continua a parlare di flat tax, con l’introduzione costante di nuove eccezioni al sistema Irpef e nuovi redditi che smetteranno di essere tassati in modo progressivo. Un fisco piatto made in Italy che, come sottolinea Repubblica, favorisce solo i più ricchi.
Questo dimostra come i multimiliardari che contribuiscono alla ricostruzione di Notre-Dame sono in realtà privilegiati fiscali che stanno solo restituendo una piccola parte di quanto dovrebbero allo Stato. “Se lo Stato piuttosto che favorire la libertà delle imprese, detassandole pesantemente, avesse dato priorità al restauro, alla manutenzione, probabilmente non ci troveremmo in questa situazione”, continua Marta Fana. Ma il discorso non si ferma qui. Anche in questo sistema di privilegi, scandali come i Panama Papers o le inchieste fiorentine sul magnate Pinault hanno portato in luce gli stratagemmi usati dai super ricchi per dare allo Stato ancora meno di quel poco che già dovrebbero versare, in proporzione al loro patrimonio.
Queste politiche sulla tassazione si collegano a Notre-Dame in particolare e, più in generale, al patrimonio artistico-culturale francese. Mentre divampava l’incendio, in molti si sono scagliati contro l’assenza di manutenzione per la cattedrale francese. “Il destino sta presentando allo Stato la fattura della sua politica culturale. Gran parte delle cattedrali di Francia sono in pessime condizioni. Da anni denunciamo il budget dei monumenti storici che non è all’altezza del nostro Paese”, ha dichiarato lo storico dell’arte Alexandre Gady. Ogni qual volta una sciagura colpisce un simbolo culturale, si scopre che non c’erano soldi per fare prevenzione. Questo avviene anche in Italia: dai ripetuti crolli nel sito archeologico di Pompei, al cedimento del tetto della chiesa romana di San Giuseppe dei Falegnami, dal 2011 al 2017 l’elenco di beni italiani privi di un’appropriata manutenzione e controllo ha raggiunto le 200 segnalazioni. Il motivo è sempre lo stesso: mancano i fondi.
Il denaro necessario alle operazioni ordinarie e straordinarie di messa in sicurezza compare spesso sotto forma di donazione da parte del milionario di turno. Un libero arbitrio nell’erogazione che è sbagliato nel principio: la tutela di un bene collettivo come un sito culturale dovrebbe essere un obbligo, non una scelta. Una tassazione rigorosa sui grandi patrimoni permetterebbe, tra le altre cose, di intervenire anche su questo. Più risorse per lo Stato si tradurrebbero in maggiori interventi per la tutela del bene pubblico. Invece si va nella direzione opposta, riducendo le già scarse risorse a disposizione. Si è innescato un circolo vizioso dove il capitale e chi lo detiene controllano la politica, e non viceversa. Il risultato è che se nel caso di Notre-Dame lo slancio di opportunismo travestito da generosità avrà un lieto fine, riconsegnando al mondo un simbolo, in molte altre situazioni le cose andranno diversamente.
Il patrimonio artistico globale non si esaurisce a Notre-Dame, al Colosseo o a Machu Picchu. Esistono migliaia di altri siti culturali sparsi per il mondo, molti dei quali in pessime condizioni e che non suscitano l’interesse del mecenate di turno per la poca eco mediatica che avrebbe l’operazione di finanziamento. L’anno scorso il museo nazionale di Rio de Janeiro, monumento storico sede di oltre venti milioni di opere sulla storia dell’America Latina, è andato distrutto per il 90% a causa di un incendio. Nei mesi successivi Alexander Kellner, direttore del museo, ha girato il mondo in cerca di finanziamenti per la ricostruzione e lanciato campagne di solidarietà, ma per il momento i fondi si limitano ai 15 milioni di euro messi a disposizione dal governo brasiliano.
Come scrive Pierre Haski su Internazionale, questa disparità di trattamento è la prova che “i milioni di euro raccolti per Notre-Dame sono la spia di un privilegio”. Il privilegio del cosiddetto 1% di controllare quando e come mettere il proprio patrimonio al servizio del benessere collettivo. E quando, invece, servirsi di tutte le scappatoie possibili per non farlo.