Perché la responsabilità delle gravidanze indesiderate ricade solo sulle donne?

Un giorno una mia amica, scherzando, mi disse: “Dovrebbero dare un premio a tutte le donne che sono arrivate a 18 anni senza restare incinte”. Ironia a parte, quando si parla di gravidanze indesiderate l’argomento è sempre lo stesso: se non vuoi rimanere incinta, devi stare attenta. La desinenza dell’aggettivo non è causale: se non vuoi un figlio, tu donna devi assumerti la responsabilità di evitare la gravidanza, come se ti riproducessi per mitosi. Parlando con amiche e conoscenti, è emersa infatti un’esperienza comune: le varie peripezie per evitare una gravidanza, dalla contraccezione fino all’aborto, sono spesso tutte a carico della donna, che deve sostenere non solo un costo economico (la spesa della pillola in primis), ma anche un costo mentale ed emotivo.

I motivi per cui si arriva a una gravidanza inattesa possono essere molti di più che una semplice disattenzione. Anche alla più attenta e precisa delle ragazze può capitare, ad esempio, un calo della copertura contraccettiva della pillola, un preservativo rotto, un cattivo assorbimento della contraccezione d’emergenza o più in generale un rapporto a rischio. Il problema è che, per la società, se rimani incinta la causa è soltanto tua. Questa credenza è stata anche confermata da un’indagine della Società italiana di ginecologia e ostetricia, secondo la quale per il 62% degli intervistati non incorrere in una gravidanza è responsabilità esclusiva della donna.

Nel 2018 fece molto discutere un articolo di Human Parts scritto da Gabrielle Blair in cui l’autrice, una designer mormona madre di 6 figli, spiegava “Perché gli uomini causano il 100% delle gravidanze indesiderate”. Il ragionamento di Blair è molto semplice: una donna è fertile per molti meno giorni l’anno rispetto a un uomo. Inoltre, se rimane incinta non può portare avanti altre gravidanze per i successivi 9 mesi mentre un uomo potenzialmente potrebbe causare migliaia di altre gravidanze. Nonostante questo, la responsabilità ricade ancora sulla donna, solo perché è lei a dover portare in grembo il figlio e, se deciderà di abortire, sarà lei a subire lo stigma sociale che ancora deriva da questa scelta.

In effetti, i dati sembrerebbero suggerire che sono ancora le donne a farsi carico della contraccezione. Basterebbe dire che gli unici dati disponibili in proposito sono contenuti nell’ultima rilevazione Istat sulla salute riproduttiva della donna, mentre è difficile capire quanti uomini usino regolarmente il preservativo (ci sarebbero i dati di vendita, che però non sono divisi per genere). Una distinzione è necessaria perché, escluse le coppie stabili e monogame in cui secondo l’Istat prevale la pillola, potrebbe essere utile per capire quanti uomini pensino “autonomamente” alla contraccezione, cioè quanti, nel momento di un rapporto occasionale, siano muniti di preservativo. Affidandosi agli unici numeri che abbiamo a disposizione, emerge come il metodo più utilizzato dalle italiane sia proprio il condom (39%), seguito dalla pillola (26%) e dal coito interrotto (19%, siamo il Paese europeo che lo pratica di più), quest’ultimo un metodo non sicuro secondo l’indice di Pearl. In realtà, considerando la frequenza di utilizzo (cioè la percentuale di donne che dichiarano di usare un certo metodo a ogni singolo rapporto), è la pillola il metodo più diffuso. Questo sembrerebbe suggerirci che gli uomini, quando possono, preferiscono delegare alla donna la responsabilità della contraccezione, scegliendo di non usare il condom ed esponendo così entrambi al rischio di contrarre malattie sessualmente trasmissibili.

A dimostrarlo è la riluttanza di molti uomini a usare il preservativo, una cattiva abitudine che a volte arriva ad assumere i contorni della violenza con lo “stealthing”, cioè la rimozione del condom senza il consenso della partner. Un recente studio condotto su 626 maschi di età compresa tra i 21 e i 30 anni ha trovato che il 10% di loro abbia tolto il preservativo durante un rapporto senza dirlo alla compagna. Le ragioni per cui ancora molti uomini si rifiutano di usare il preservativo sono state raccolte dalla rivista scientifica AIDS Behave. La più comune è che il condom ridurrebbe il piacere, “rovinando il momento”. Molti poi si lamentano che i condom siano troppo stretti o piccoli (anche se, come dimostra un post virale in cui la cantante Zara Larsson se lo infila a mo’ di calza, è davvero difficile che accada), che facciano perdere l’erezione o che siano semplicemente causa di situazioni imbarazzanti. Qualcuno non li usa perché li reputa poco efficaci o addirittura perché sono da effemminati. Non finirà mai di stupirmi questa mascolinità così fragile che considera “troppo gay” un dispositivo che si usa (anche) per fare sesso con una donna, solo a causa di un pregiudizio legato alla diffusione dell’Aids, che avrebbe fatto meglio a restare negli anni Ottanta.

Per quanto riguarda la contraccezione di emergenza, uno studio del 2012 pubblicato sulla rivista Contraception ha evidenziato inoltre come gli uomini abbiano una conoscenza limitata sull’utilizzo e sul funzionamento della pillola del giorno dopo. Più della metà degli intervistati, ad esempio, crede ancora che si tratti di un metodo abortivo e non contraccettivo. D’altronde, che un uomo si faccia carico in prima persona dell’acquisto della pillola è ancora un tabù: sempre sulla stessa rivista, uno studio del 2012 ha evidenziato come le farmacie americane siano ancora restie a vendere il Plan B (che negli Stati Uniti si può acquistare senza prescrizione dai 17 anni in su, mentre in Italia la ricetta serve solo alle minorenni) a un uomo che si presenta da solo. Su 158 farmacie di New York, 30 si sono rifiutate di vendergli la pillola, chiedendo la presenza della partner o dicendo di non averla in magazzino.

Se invece ci riferiamo all’aborto, la partecipazione del partner maschile è ancora molto scarsa. Bisogna precisare che, almeno in Italia, secondo l’articolo 5 della legge 194/78, il coinvolgimento del padre è previsto solo “ove la donna lo consenta”, una tutela necessaria, figlia degli anni in cui è nata la legge, in cui non era infrequente che gli uomini decidessero per le donne cosa fare nel caso di una gravidanza indesiderata. Questo è un punto molto controverso della legge, che alcuni attivisti per i diritti maschili considerano discriminante. Una lettera sul blog Invece Concita di un certo “Andrea B.”, che si lamentava di non essere stato coinvolto nella scelta della partner occasionale di interrompere una gravidanza e di essere “padre di un bambino mai nato”, aveva generato un dibattito interessante. Ma, come avevano risposto le ginecologhe Anna Pompili e Mirella Parachini di Amica (Associazione medici Italiani contraccezione e aborto), “La legge 194 parla di ‘maternità responsabile’ e le donne che decidono di interrompere una gravidanza compiono un atto di responsabilità, non ritenendo di poter essere madri in quel momento della loro vita. Forse, più che mettere in discussione il diritto di scelta delle donne, Andrea B. dovrebbe rammentare in futuro l’uso di un banalissimo preservativo – un atto di responsabilità molto più modesto dell’essere padre”.

Nel 2012 in Francia era stata lanciata una campagna di sensibilizzazione sul diritto all’aborto rivolta agli uomini. Secondo una ricerca realizzata dai promotori della campagna, 8 volte su 10 la decisione di interrompere la gravidanza è condivisa dalla coppia, ma solo nel 20% dei casi le donne vengono accompagnate dai partner ai vari colloqui e nel giorno della procedura. In Italia non esistono dati simili e la relazione annuale sull’Ivg in Italia, di fatto, non fa alcun cenno al ruolo ricoperto dall’uomo. Anche lo stigma dell’aborto è esclusivamente rivolto alle donne, che non solo devono affrontare da sole le difficoltà legate all’accesso (sia da un punto di vista pratico, con la possibilità di trovarsi di fronte un obiettore, sia dal punto di vista psicologico) e l’operazione, ma anche le conseguenze sociali che essa comporta. Anche se parlare di aborto sta diventando sempre più accettabile, quando una donna decide di farlo, sa già di andare incontro a giudizi che riguardano soltanto lei, nonostante magari la decisione sia stata presa con l’appoggio del proprio compagno.

È stato dimostrato che, oltre alle conseguenze fisiche che alcuni metodi contraccettivi ormonali hanno sul corpo femminile, le donne devono sopportare anche il peso psicologico ed emotivo associato al dover continuamente pensare alla propria fertilità. “Non si tratta soltanto di assumere un farmaco, ma anche di investire il tempo, l’attenzione e lo stress che questo comporta”, ha spiegato Katrina Kimport, autrice di uno studio sul carico emotivo della contraccezione. La ricercatrice ha fatto inoltre notare come alcune sperimentazioni sui contraccettivi ormonali maschili siano state interrotte perché gli effetti collaterali erano troppo pesanti da sopportare per i partecipanti, nonostante fossero praticamente gli stessi dei contraccettivi femminili: “È una chiara manifestazione della nostra credenza sociale secondo cui per una donna evitare una gravidanza è sufficientemente importante da aumentare la sua soglia di sopportazione degli effetti collaterali”.

Sarebbe ora che, così come si è cominciato a riconoscere l’esistenza del carico mentale, la comunità scientifica cominciasse a studiare e definire in maniera organica il costo emotivo e sociale dell’evitare una gravidanza. Per chiare ragioni biologiche, questo compito non si può completamente delegare al partner, ma è anche vero che è ingiusto che a farsene carico debba essere sempre e soltanto la donna. È ora che la società riconosca pienamente il ruolo dell’uomo nei diritti e nei doveri della salute riproduttiva, smettendo di far gravare esclusivamente sulle spalle delle donne questa responsabilità. Almeno finché non impareremo a riprodurci per mitosi.

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