Dopo settimane di tentennamenti e dichiarazioni ambigue, Italia Viva ha finalmente preso posizione sul ddl Zan: ha deciso di affossarne l’attesa approvazione. Davide Faraone, capogruppo del partito al Senato, ha infatti proposto di modificare per l’ennesima volta il testo sull’omolesbobitransfobia, in particolare intervenendo sull’articolo 1, che riporta le definizioni di sesso, genere, identità di genere e orientamento sessuale; sull’articolo 4, la cosiddetta “clausola salva idee” che esclude il reato di propaganda delle idee; e sull’articolo 7, relativo all’istituzione della Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, da osservare anche nelle scuole. Intervenire sul testo a questo punto dell’iter legislativo, dopo mesi di ostruzionismo da parte della Lega e del presidente della commissione Giustizia al Senato Andrea Ostellari, è una mossa che rischia concretamente di far naufragare la legge prima che si sia conclusa la legislatura. In questo modo non solo Italia Viva si allinea alle stesse critiche mosse da Lega e Fratelli d’Italia, di fatto legittimandole, ma mostra anche una profonda incoerenza, visto che fu lo stesso partito a chiedere che fossero inserite le definizioni all’articolo 1 lo scorso ottobre.
Le ultime modifiche richieste da Italia Viva, infatti, non fanno altro che avvalorare le tesi che la destra va ripetendo da mesi sul tema: che l’identità di genere sia divisiva o addirittura pericolosa e che voglia in qualche modo introdurre il “gender” nelle scuole. Se infatti l’obiezione sulla ridondanza dell’articolo 4 può essere sensata, le perplessità espresse sugli articoli 1 e 7 sembrano il chiaro tentativo di mediazione con la destra, una mediazione che è evidentemente poco logico cercare a pochi giorni dall’inizio della discussione in Parlamento su una legge voluta (o almeno così sembrava) e approvata dallo stesso partito che oggi ne sta procrastinando l’approvazione. La controproposta di Italia Viva è quella di tornare al testo presentato dal renziano Ivan Scalfarotto nel 2013, che è stato accorpato nel testo unificato oggi in discussione. Anche il ddl Scalfarotto si basava inizialmente su un’estensione della legge Mancino, ma anziché allargare al genere e all’orientamento sessuale i motivi di discriminazione, odio o violenza, come prevede la legge Zan, introduceva i reati di omofobia e transfobia. La legge si arenò proprio su queste due parole, come ricorda Monica Cirinnà, giudicate in contrasto con il principio di tassatività della legge penale. Lo stesso Scalfarotto solo pochi giorni fa dichiarava alla Stampa che un compromesso sul ddl Zan era “impossibile”, riconoscendo un contrasto con Matteo Renzi.
Che in Italia Viva ci fossero voci dissidenti nei riguardi del ddl Zan, soprattutto nell’ala più vicina al cosiddetto femminismo della differenza, non è certo un mistero: la proposta di tornare alla legge Scalfarotto è stato un leitmotiv di molte femministe gender critical in dialogo con il partito, dal momento che la proposta in questione era priva di ogni riferimento all’identità di genere. Ma è ingenuo credere che per Renzi l’approvazione o l’opposizione a una legge sull’omofobia sia una questione di principio. L’ex premier infatti non aveva preso sinora una posizione in merito al ddl, una scelta quantomeno curiosa per un leader di partito che cita Joe Biden come fonte di ispirazione e il progressismo come direzione politica. Ancor più considerando che il ddl Zan non è una legge di chissà quale avanguardia radicale: è il minimo sindacale per un Paese di quell’Europa liberale e democratica che sta tanto a cuore a Renzi. Ma senza i voti di Italia Viva, l’approvazione del Senato è effettivamente a rischio. E ancora una volta, il futuro dell’Italia è condizionato dalla posizione di un partito che alle prossime elezioni potrebbe non superare la soglia di sbarramento del 3%.
Anche se Renzi non si è mai particolarmente esposto sul tema – forse anche per non turbare gli amici dell’Arabia Saudita, dove vige la pena di morte per il reato di omosessualità – questo non significa che Italia Viva non si sia mai prodigata in una mirabile opera di pink e rainbow washing. Come dimenticare le roboanti dichiarazioni dell’ex premier sulla costituzione del “partito più femminista della storia italiana”, un vero e proprio faro nel panorama politico italiano che avrebbe fatto persino da guida agli altri partiti. Un anno più tardi, sarebbe stato Renzi stesso a frustrare il proposito, assumendo un ruolo di primo piano nell’annuncio delle dimissioni dell’ex ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova (che sarebbe anche capa delegazione di Italia Viva) e delle Pari Opportunità Elena Bonetti, restate in silenzio mentre Renzi parlava per loro.
Più in generale, Renzi in passato non ha perso occasione di dimostrarsi un difensore dei diritti civili soltanto nei momenti politicamente opportuni, esattamente come gli è venuto in mente di dirsi femminista in una fase di grande attenzione sulle tematiche di genere. Lo stesso Renzi che in più occasioni difese la legittimità di partecipare al Family Day, una volta da presidente della Provincia di Firenze e una da premier, saltò sul carro dei diritti civili attribuendosi il merito di aver fatto approvare la legge sulle unioni civili grazie a una mediazione con l’opposizione, con la stessa strategia che sembra voler mettere in campo ora. Peccato che all’epoca fu proprio la ferma contrarietà di Renzi a una parte fondamentale della legge, quella della stepchild adoption, a far approvare un testo monco che non tutela in alcun modo i figli di coppie dello stesso sesso, lasciando i diritti dei minori alla discrezionalità dei giudici. Eppure, ancora oggi Renzi non perde occasione di ribadire di essere il responsabile della legge sulle unioni civili, come se dovessimo ringraziarlo per una legge ben al di sotto delle aspettative e degli standard adottati in quasi tutta Europa, anziché riconoscergli il fatto di averla snaturata.
In più, a differenza del 2016, la mediazione che oggi Renzi cerca con la destra sul ddl Zan è macchiata da un opportunismo politico ancora più evidente: all’epoca c’era in ballo la stabilità del governo, oggi una sempre più palese volontà di creare un’alleanza politica. Se Renzi vuole cercare l’alleanza con una destra moderata sul modello di Macron, allora l’attacco al ddl Zan appare ancora più insensato: le forze liberali ed europeiste che Renzi prende a esempio in genere sono favorevoli ai diritti LGBTQ+. In Francia, per esempio, la legge sull’omofobia è stata approvata nel 2004 durante il mandato del presidente conservatore Jacques Chirac. Renzi è perfettamente consapevole che questo smacco al ddl Zan non produrrà una legge migliore né sarà garanzia della sua approvazione. E anche se venisse approvata, a cosa servirebbe una legge sull’omofobia che non tutela le persone transgender e non agisce sulla prevenzione, ignorando il carattere sistemico della discriminazione omolesbobitransfobica? Servirebbe solo a mettere l’ennesima coccarda pro-inclusione a un partito che se ne è già attribuite a sufficienza e a rinsaldare l’alleanza con la destra ossessionata dal “gender nelle scuole” che ha dato sfoggio di sé durante le audizioni per la legge Zan.
Intanto questo gioco di discutibili intese, per l’ennesima volta, si consuma sulla pelle di una minoranza che attende questa legge da 25 anni. L’Italia è pronta, come testimoniano le piazze piene per i Pride di quest’anno. Italia Viva, invece, è pronta solo per le prossime elezioni.