Il 13 maggio si è tenuta la conferenza stampa del presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, in cui è stato emanato il nuovo Decreto Rilancio per le misure economiche atte a far ripartire l’economia del Paese. Uno dei punti di questo Decreto riguarda la questione della situazione di irregolarità in cui vive gran parte dei braccianti agricoli di origine straniera e a cui si è pensato di porre rimedio con un provvedimento che, teoricamente, dovrebbe facilitarne la regolarizzazione. Tuttavia, questa soluzione presenta molti punti critici. Infatti, ci sono molti altri settori lavorativi che sono rimasti esclusi, come facchinaggio, edilizia, supermercati, artigianato e ristorazione. Inoltre, solo chi ha un permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019 potrà accedere a un permesso di soggiorno temporaneo che, tra le altre cose, ha una durata di sei mesi e un costo di 160 euro, di cui 30 euro per la spedizione della domanda – cosa curiosa dato che dalle disposizioni in vigore dal 2017, per quanto concerne la procedura generale per il rilascio del permesso di soggiorno (che ha una durata che va dai 3 mesi a 1 anno), il costo della richiesta è di 40 euro, a cui si aggiungono le spese di stampa del permesso elettronico di 30,46 euro, marca da bollo da 16 e pagamento di 30 euro all’operatore dell’ufficio postale al momento della spedizione della domanda, per un totale di 116,46 euro.
Così facendo, come ha affermato l’attivista e sindacalista Aboubakar Soumahoro che si batte per i diritti dei e delle braccianti, si esclude la maggior parte delle persone vittime di un sistema insostenibile che si è venuto a creare con i Decreti Sicurezza, che hanno garantito una chiusura totale di ogni canale di regolarizzazione in Italia. Proprio per questo motivo, Soumahoro ha indetto uno sciopero il 21 maggio.
Il fulcro delle polemiche riportate dalla stampa però, si è concentrato sulla commozione della ministra per le politiche agricole Teresa Bellanova e sui deliri degli esponenti politici di estrema destra. In questo lungo dibattito che ha visto scontrarsi diverse forze politiche – tra cui il Movimento 5 Stelle che ha sempre mostrato ostilità prima di raggiungere un’intesa, se non sotto alcune condizioni – chi si trova a essere oggetto del dibattito rimane, ed è rimasto per tutto il tempo, dietro le quinte di uno scenario in cui a parlare della sua sorte e del suo posto nella società sono sempre ed esclusivamente altre persone.
Oggi, i Decreti Sicurezza, non sono altro che il culmine di un contesto che non è mai cambiato e che non ha mai considerato le persone di origine straniera come parte integrante del tessuto sociale italiano. La legge Bossi-Fini del 2002 infatti fu creata proprio per vincolare il permesso di soggiorno a un contratto di lavoro, eliminando la figura dello “sponsor”, un metodo che con il decreto flussi permetteva alla persona di origine straniera di entrare legalmente in Italia con un visto per cercare lavoro grazie alle garanzie economiche offerte da un familiare, da un conoscente o altro garante. Questo strumento venne sperimentato dal 1999 al 2001, per poi essere abolito. “I migranti in cerca di lavoro si sostenevano senza gravare sulla collettività grazie al supporto di familiari o amici. E pagavano di tasca propria le spese del viaggio senza doversi affidare ai trafficanti. Tuttavia si scelse di eliminarlo per motivi puramente ideologici”, spiegava Marco Paggi, avvocato dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), già nel 2017.
Sempre l’Asgi spiega come la Bossi-Fini sia stata artefice dell’abolizione del cosiddetto Permesso per ricerca occupazione: “Questo particolare permesso di soggiorno era previsto dall’originario Testo Unico immigrazione, d.lgs. 286/98, ma è stato abrogato nel 2002 dalla legge Bossi-Fini, nonostante fosse l’unico meccanismo che non costringeva la persona straniera al farraginoso meccanismo del decreto flussi (cioè dell’incontro a distanza tra domanda e offerta di lavoro, poiché il lavoratore straniero può essere chiamato da un datore di lavoro solo se vive nel suo Paese), evitando pertanto il crearsi di ampie sacche di irregolarità”. I canali legali per entrare in Italia sono quindi inesistenti, e anche se si riesce a entrare, ci si ritrova in un limbo fatto di irregolarità e precarietà. Questa proposta di regolarizzazione, pur essendo un piccolo passo in avanti, non solo è limitante, ma viene introdotta in un contesto costituito da fratture profonde e mai sanate sul sistema migratorio italiano. La proposta serve per regolarizzare “le braccia” di alcuni settori – per un dato periodo di tempo – dei lavoratori e delle lavoratrici che vengono visti come strumenti utili più che soggetti con dei diritti. Vengono vincolati alle esigenze del mercato del lavoro italiano e questo lo si è visto fino a ora con un dibattito atto a “rendere accettabili” gli immigrati chiedendosi chi avrebbe badato agli anziani o chi avrebbe raccolto i pomodori a due euro l’ora se non loro.
L’unico modo per parlare di immigrazione e immigrati senza infastidire troppo le destre e per cercare di non perdere il consenso elettorale sembra essere quello di disumanizzarli a tal punto da renderli semplicemente utili alla collettività e collocarli alla base di una piramide sociale razzializzata e fatta di ingiustizie. Questa dicotomia dell’immigrato parassita e dell’immigrato utile – ma sempre e solo nei lavori meno qualificati e in condizioni di sfruttamento, come evidenziato dal comunicato dello European Union Agency of Fundamental Rights del 2019 – non sposta un dibattito che dovrebbe focalizzarsi sui soggetti e i loro diritti. Inoltre, vi sono alcuni aspetti cruciali evidenziati dal report Scaling Fences del 2019 effettuato dalle Nazioni Unite sui migranti di origine africana. La maggior parte delle donne e degli uomini migranti che arriva in Europa dai Paesi del continente africano non solo tende a essere sottoposta ad alti livelli di disoccupazione e precarietà, ma è anche sovraqualificata rispetto ai lavori – nella maggior parte dei casi sottopagati e senza tutele – che poi è costretta a svolgere. Sempre secondo il report, nel corso del tempo c’è stata una drastica chiusura delle vie legali per entrare in Europa, costringendo le persone a compiere viaggi pericolosi nel Mediterraneo e a vivere nell’irregolarità. Posto il fatto che ogni lavoratore e lavoratrice, indipendentemente dalla classe sociale, abbia diritto a essere tutelato/a con i giusti salari, sarebbe giusto dare anche la possibilità di fornire gli strumenti necessari per continuare il proprio percorso nel Paese di arrivo, qualora lo si abbia perso nel Paese di partenza. L’Europa rimane una fortezza incapace di trovare un approccio comune, che potrebbe avere un buon punto di partenza, ad esempio, proprio nella liberalizzazione dei visti lavorativi e per studio.
Invece ci ritroviamo con un’Italia – in ultima analisi un’Europa – complice delle violazioni dei diritti umani che continuano ad avvenire in Libia, anche a causa dell’emanazione del Decreto Minniti-Orlando. Inoltre, non vi è alcuna discontinuità rispetto alle legislazioni precedenti, dato che il Viminale, ad aprile, ha assegnato un appalto di 1.6 milioni di euro per sei imbarcazioni della “polizia libica” proprio per ridurre i flussi. In questo contesto si inseriscono le leggi interne italiane in materia di migrazione, le quali puntano alla chiusura e non all’inclusione sociale delle persone straniere. Come spiega la giornalista Eleonora Camilli in un articolo di Redattore Sociale la regolarizzazione non basta: è necessario parlare dei salari troppo bassi e degli alloggi. Molti richiedenti asilo vivono in quelli che sono veri e propri ghetti in condizioni precarie: si pensi a quanti non hanno avuto accesso a cure e controlli in questi mesi di emergenza. Si pensi al caso di Nash, un uomo ghanese di 67 anni, morto per un peggioramento al cuore e ai polmoni e che da anni viveva in un limbo a causa dell’impossibilità di ottenere un contratto di lavoro e la perdita del permesso di soggiorno per motivi umanitari – abolito dai Decreti Sicurezza. Si tratta di uno dei tanti casi di persone lasciate in mezzo alla strada per decreto; prima era accolto in uno Sprar. E infine si pensi alla morte di Becky Moses, ventiseienne nigeriana, morta in un incendio scoppiato nel ghetto dei braccianti di San Ferdinando, o ancora alla morte di Soumaila Sacko, bracciante e attivista ucciso a colpi di fucile mentre cercava delle lamiere per costruire un riparo di fortuna.
Inoltre non sono da dimenticare anche le persone di origine straniera che si trovano in un ulteriore limbo, quello dell’ottenimento della cittadinanza, altra procedura che dipende dal reddito e della stabilità del lavoro. In un articolo di Redattore Sociale vengono riportati diversi casi. Quello di Celia, 46enne peruviana che vive da dodici anni in Italia e lavora come colf e che ora, a causa dell’emergenza, è stata licenziata da due delle cinque famiglie per cui lavorava, il che implica l’abbassamento del suo reddito – un elemento cruciale e che deve essere mantenuto per l’ottenimento della cittadinanza, e che quindi potrebbe metterne a rischio le procedure. E quello di Jovana Kuzman, 23enne, studentessa di Scienze Politiche, che vive in Italia da quando aveva due anni. Kuzman ha presentato domanda di cittadinanza due anni fa, ma dato che le prefetture chiedono l’integrazione dei redditi nel corso degli anni, e dato che sua madre ha perso il lavoro e lei non ha un impiego, c’è il rischio che a causa del reddito diminuito non riesca a raggiungere la soglia adeguata, perciò la sua domanda potrebbe venire rifiutata.
Questa, quindi, è l’Italia in cui vivono le persone di origine straniera, un’Italia che per decenni non ha avuto il coraggio di cambiare le proprie leggi in materia di migrazioni e per cui in un dato periodo storico il problema diventa così rilevante che si cerca di coprire il tutto con una sanatoria – che è già stata adottata in passato con i governi Berlusconi, ad esempio. Tuttavia, per quanto rispetto a questo tema possano effettivamente risultare utili questi interventi, è evidente che non si possa andare avanti così, né attraverso compromessi in cui prevalgono gli interessi economici più che i diritti delle persone. È necessario smantellare un intero sistema di leggi ingiuste, obsolete e anacronistiche: per questo Aboubakar Soumahoro, insieme ad altri braccianti e attivisti ha deciso di scioperare il 21 maggio. Perché non si tratta solo di “braccia utili”, ma di un’intera categoria di persone che fa parte di questa società e che non viene riconosciuta come sua parte integrante.