Il 20 e 21 settembre gli italiani torneranno al voto. Oltre a esprimere le loro preferenze per le elezioni regionali e amministrative, alle urne dovranno decidere se modificare gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione esprimendosi quindi sul famigerato taglio dei parlamentari. Il referendum è confermativo, dunque non prevede il raggiungimento di un quorum, e porterebbe, in caso di vittoria del “Sì”, a una nuova conformazione parlamentare: da 630 a 400 eletti alla Camera dei deputati, da 315 a 200 al Senato. Si potrebbe associare il referendum a un censimento sul populismo in Italia, vedendo la probabile vittoria schiacciante del Sì come una definitiva spallata dell’antipolitica, ma forse è più corretto evidenziare i motivi per cui il Sì rischia di creare danni a prescindere da qualsiasi analisi socio-politica.
Prima di analizzare le ragioni delle due fazioni, è necessario partire dalle indicazioni di voto dei principali partiti. Scontato il “Sì” del Movimento 5 Stelle, con i grillini a spingere sul taglio dei parlamentari sin dalla loro origine e perfetti rappresentanti dell’anti-istituzionalismo, della politica vista come insulto e della demagogia come motore del loro intero progetto. Seguendo le emozioni del popolo, non potevano che accordarsi la Lega e Fratelli d’Italia, che ormai da anni usano gli stessi mezzi di propaganda del M5s, perfezionati da una rabbia più selettiva rispetto alle categorie da colpire (sempre e comunque le più deboli). Mentre quella che ormai è la testa più debole del cerbero di centrodestra, Forza Italia, ha detto ai suoi elettori di fare un po’ quel che vogliono, tutti si aspettavano una presa di posizione decisa da parte del Partito democratico. Dopo incredibili quanto opportunistiche giravolte del segretario del partito, storici esponenti a favore del “No”, direzioni convocate senza un vero e proprio consulto tra i gruppi e qualche chiacchierata con l’alleato di governo, il Pd ha fatto l’unica scelta che non doveva fare per evitare di perdere quel minimo di credibilità che gli era rimasta: promuovere il “Sì”. Riassumendo: i quattro principali partiti italiani, uniti dal collante del populismo e intimoriti dalla percezione che il popolo ha di questo referendum, si trovano tutti sotto la stessa bandiera.
Da elettori è importante comprendere la miopia di chi voterà “Sì”. Il primo argomento riguarda la riduzione dei costi della politica, ed è la quintessenza del credo grillino. Il M5s, però, ha dapprima sbagliato le cifre dell’eventuale risparmio, che in realtà è circa la metà di quanto ipotizzato. L’Osservatorio sui conti pubblici ha infatti chiarito che verranno risparmiati 57 milioni di euro l’anno; una cifra ridicola che ammonta allo 0,007% della spesa pubblica italiana e a circa 90 centesimi l’anno per ogni italiano. Il problema comunque non è tanto la retorica pauperistica del M5S, quanto constatare che di fronte a un risparmio pressoché nullo avremo un enorme danno su più fronti.
Il primo riguarda il concetto di rappresentanza. La tiritera è la solita e si ripete da anni: “Abbiamo più parlamentari di tutti gli altri Paesi europei”. L’Italia è quel Paese in cui i politici riescono a sbandierare numeri per farsi forti senza considerare alcun contesto. Occorre ricordare infatti che già adesso l’Italia è una delle nazioni europee con il minor rapporto tra popolazione e numero di eletti, e con il “Sì” al referendum piomberebbe all’ultimo posto, con un misero 0,7%. Questo referendum inoltre non propone alcuna riforma sistemica, ma un semplice taglio che non tiene in conto le conseguenze e non si basa su alcun progetto strutturato per il futuro. Il proposito “tagliamo i parlamentari”, però, attecchisce bene sul popolo, che neanche a dirlo – e in un certo senso a ragione – vede nella classe politica l’origine di molti, se non di tutti, i mali. Qui però entra in gioco la distinzione tra misura quantitativa e qualitativa. Se in un ristorante il cibo servito è scadente conviene cambiare i cuochi, non ridurne il numero. Questo referendum risulta invece come una sorta di azione autopunitiva contro i politici, per far contenti gli elettori rabbiosi, quando in realtà a venire colpito è essenzialmente il Parlamento, e dunque concretamente il popolo stesso.
Pensare che così si dia scacco matto alla “Casta” è una grossa svista, perché è esattamente l’opposto. Il “Sì” al referendum farebbe infatti scomparire i rappresentanti più piccoli, e quindi la diversità e la ricchezza delle voci e delle istanze. A quel punto qualsiasi operazione sarebbe governata dalla legge dei più forti. Un esempio concreto riguarda le disuguaglianze territoriali, con alcune regioni che verrebbero colpite più di altre. La Calabria ha circa il doppio degli abitanti del Trentino Alto Adige, ma con la vittoria del “Sì” le due regioni avrebbero lo stesso numero di senatori. Non si possono sacrificare i principali strumenti democratici sull’altare del populismo, arrivando a indebolire il Parlamento e a causare una sottorappresentanza pericolosa per i piccoli centri e le realtà periferiche. I collegi uninominali al Senato infatti avranno una “capienza” superiore agli 800mila elettori, creando una dispersione e il conseguente potere decisionale dei partiti che avranno liste ancora più statiche imponendo i propri nomi, con meno possibilità di rappresentanza delle liste civiche o delle realtà locali.
Umberto Terracini, presidente dell’assemblea Costituente, pronunciò nel 1946 delle frasi che spiegano bene questa dinamica: “Quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni”. Non a caso Benito Mussolini, nel 1928, ridusse il numero dei deputati proprio per aumentare il suo potere e rendere il Parlamento la sua stanza dei bottoni. Terracini aggiunse anche che “Le argomentazioni contrarie in realtà sembra che riflettano certi sentimenti di ostilità abilmente suscitata fra le masse popolari contro gli organi rappresentativi nel corso delle esperienze che non risalgono soltanto al fascismo, ma assai prima, quando lo scopo fondamentale delle forze antiprogressive era l’esautorazione degli organi rappresentativi”. Inoltre, per la Costituente il numero dei parlamentari doveva essere proporzionale a quello degli abitanti proprio per garantirne una forte rappresentanza. Il numero attuale vige dal 1963, quando l’Italia aveva 10 milioni di abitanti in meno rispetto a oggi. Sembra che adesso la storia si stia ripetendo, con i “sentimenti di ostilità suscitata fra le masse popolari” di cui parlava Terracini a determinare un cambiamento semplicemente sbagliato, ma mascherato sotto la retorica.
La vittoria del “Sì”, ancora più concretamente, stravolgerebbe il lavoro delle commissioni, che verrebbero ridotte numericamente con un conseguente intoppo burocratico e lentezze ancora più estenuanti. Il lavoro del Parlamento si basa proprio sulle commissioni, e il “Sì” costringerebbe i partiti a dare doppi incarichi ai parlamentari, tra caos legislativo e sedute saltate. Tutto questo perché il taglio, come dicevamo, non è stato accompagnato da alcuna riforma strutturale, e in un sistema basato sul bicameralismo perfetto l’intera macchina parlamentare si ingolferebbe in modo irrimediabile. Senza un processo riformatore legato ai lavori delle due camere, il taglio resta un’operazione monca, soprattutto perché al momento non c’è una legge elettorale in grado di sostenerlo. Il PD ha infatti sempre chiesto di associare al referendum dei correttivi costituzionali e un’immediata legge elettorale per rivedere il numero dei seggi e fare le giuste scelte sui collegi uninominali, per evitare che il numero dei delegati regionali chiamati a votare il presidente della Repubblica sia sproporzionato (come avverrebbe con la vittoria del Sì) e per garantire una regolare proporzione negli eletti di ogni regione. Invece non sarà così: le modifiche alla Costituzione entreranno in vigore subito dopo il referendum, mentre per la legge elettorale la politica è ancora in stallo, tra proposte su un germanicum proporzionale con sbarramento al 5% e l’eventuale reintroduzione delle preferenze, e l’infinito ping pong tra le camere che farà slittare la legge a chissà quando. In questo modo, mentre all’elettorato si dà l’illusione di assestare un colpo all’odiata Casta, proprio questa non fa altro che proteggersi impedendo di fatto che il nostro diritto di voto possa esercitarsi pienamente alla prossime elezioni elettorali.
È snervante il fatto che i partiti a favore del “No” siano esclusivamente le realtà più piccole, come Azione di Calenda, quel che resta di +Europa e movimenti esterni, su tutti le Sardine. La scelta del Pd di schierarsi a favore del “Sì” non è solo un assist ai compagni di governo – i compromessi in politica, si sa, sono sempre esistiti – ma l’occasione persa di mostrarsi come alternativa forte alle fantasie demagogiche. Inseguire la quantità è il modo peggiore per rinnegare se stessi. È una questione di qualità, diceva qualcuno che di recente è stato superato dal Pd in fatto di trasformismo.
La battaglia per il “No” sembra essere ormai inutile. Purtroppo, è probabile che il “Sì” vinca con percentuali bulgare e gli imbonitori in piazza faranno credere ai cittadini di aver ottenuto una vittoria contro la malapolitica. Quando gli italiani si accorgeranno di aver stravolto la Costituzione con pressapochismo e negligenza sarà troppo tardi. Chi aveva l’occasione di far aprire loro gli occhi non lo ha fatto. La politica è una cosa seria, e a volte le scelte impopolari sono le più sagge. La faciloneria, invece, si nutre dell’immediatezza delle pulsioni, per portare danni difficilmente calcolabili.