Come era facilmente pronosticabile, il referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari ha avuto come vincitore il “Sì”. Per la legge elettorale e le riforme collegate al taglio, invece, dovremo aspettare chissà quanto tempo, come da tradizione italiana. Assisteremo al classico ping pong parlamentare, a ripicche tra i partiti, benaltrismo dilagante (“I problemi sono altri”) e campagne elettorali che metteranno in secondo piano il caos parlamentare provocato da questo risultato. Non nascondiamoci: è stata la vittoria del populismo. È stato fatto passare il messaggio di una politica che apparentemente punisce se stessa, i suoi parlamentari pelandroni e fa risparmiare somme rilevanti agli italiani. Novanta centesimi l’anno per ciascun italiano, per l’esattezza. Il popolo aveva sete, gli è stato dato un caffè.
Adesso che hanno ottenuto il risultato sperato, le forze politiche italiane a favore del “Sì” – de facto tutte, per lo meno tra i partiti principali – dovrebbero spiegare ai cittadini quel che hanno in mente per non far collassare il Parlamento. Avrebbero dovuto farlo prima del voto, ma in quel caso il risultato sarebbe stato diverso, nonostante la persuasione e i mezzucci demagogici messi in campo. Possiamo però già prevedere le risposte. Le regioni non saranno egualmente rappresentate in Parlamento? Arriverà qualche riforma – dal cielo, a quanto pare – per risolvere questo problema. Le commissioni non potranno svolgere il loro lavoro e ci saranno posti scoperti, doppi incarichi e consulenze esterne? Arriverà, anche in questo caso, qualche riforma per snellire le istituzioni più elefantiache. Le piccole realtà locali non conteranno più nulla? Con tutto lo sforzo del mondo, qui non c’è riforma che tenga: accontentatevi del caffè.
Il processo che ha portato alla vittoria del “Sì” fa perno sul sentimento dell’antipolitica, lo stesso che ha fatto nascere il M5S e l’ha portato al potere. Nulla è lasciato al caso, ormai dopo anni è sbagliato associare i grillini a una massa di sconclusionati che non persegue nessun obiettivo se non quello di fiutare gli umori della gente. Sì, spesso si arriva a questo fine, ma è una meccanica più sofisticata: il progetto del M5S è sempre stato quello di esautorare il Parlamento. Non sono illazioni giornalistiche, ma semplici constatazioni in seguito al loro percorso politico e alle dichiarazioni dei loro leader. D’altronde Davide Casaleggio due anni fa lo diceva a chiare lettere: “Forse in futuro il Parlamento non servirà più”. Il pensiero del padre è sempre stato legato alla dissoluzione dei partiti e delle ideologie, con Internet a prendere il posto del Parlamento. Beppe Grillo ha addirittura proposto di “estrarre a sorte i parlamentari”. Dietro politici improvvisati, dilettanti allo sbaraglio e storture ideologiche, c’è in realtà un vertice – ovvero un’azienda privata e un comico – che ha le idee molto chiare e le sta realizzando in tutta la loro pericolosità.
L’onda populista non si limita infatti al referendum costituzionale, ma tocca anche le elezioni regionali che si sono svolte in simultanea. Il centrosinistra è riuscito a spuntarla nella sua roccaforte in Toscana; in Puglia, ma con il centrosinistra diviso e un Michele Emiliano più volte in conflitto con il partito; e in Campania, dove Vincenzo De Luca rappresenta una sinistra sui generis. Il governatore campano è infatti molto legato allo “sceriffismo”, e a una visione da demagogo moderno, che somiglia più a quella di un padre-padrone che a una più tradizionale concezione partitica. De Luca è l’uomo solo al potere tanto quanto Zaia in Veneto, che ha infatti trionfato senza difficoltà.
È corretto notare come il populismo abbia contaminato diversi rami della politica, non risparmiando nessuna fazione. Il PD non solo è colpevole per aver generato questa stagione di mostri a causa della sua precarietà ideologica, ma ne è complice per averne assorbito i tratti principali. La scelta di Zingaretti di sostenere il “Sì” non può ridursi a un favore tra alleati di governo, in quanto lo scacchiere politico prevedeva le stesse indicazioni anche nei partiti d’opposizione. Adesso si ritrova in una condizione in cui il M5S rivendicherà i meriti della vittoria e bisognerà sedare i malumori interni. Il PD non se l’è sentita di contrastare una proposta che aveva già dalle origini il favore degli elettori e dunque ha preferito unirsi al gruppo dei picconatori della Costituzione dopo una giravolta nell’arco di pochi mesi e nonostante i dissidenti nello stesso partito.
L’affluenza per il referendum è stata del 54%. Notevolmente più bassa rispetto a quella per il Renzirendum del 2016, che era stata del 68. I paragoni però sono sfasati perché si è votato su due giorni, a differenza del singolo giorno del 2016. Il fattore positivo è l’assenza di intoppi, nonostante una vigilia turbolenta tra fuga di presidenti di seggio e timori legati a una fase epidemica ancora in corso. Tutto è filato liscio tra gel igienizzante davanti alle aule, mascherine e distanziamento. Quello che non è andato bene, invece, è stato il prima e sarà il dopo. La campagna referendaria per il “Sì” è stata a tratti grottesca – con Luigi Di Maio a citare impropriamente Nilde Iotti e a ripetere le stesse frasi pronunciate da Matteo Renzi nel 2016 – ma ha funzionato, perché contava di instillare nel popolo l’idea di una battaglia anti-Casta, quando in realtà la mossa che è stata fatta rappresenta l’esatto opposto. Quello che gli elettori del “Sì” infatti non hanno capito è che questo taglio non ci eviterà i Razzi e gli Scilipoti, perché i partiti più importanti avranno un peso ancora maggiore a livello territoriale nei collegi, con le liste sempre più bloccate e l’abbattimento delle realtà civiche che adesso non avranno più alcuna possibilità di emergere. In poche parole: a essere tagliati saranno i parlamentari di secondo piano, quelli meno aggrappati alle logiche di partito, mentre i soliti noti resteranno al loro posto.
Nel libro A passo di gambero, del 2006, Umberto Eco scriveva che “Il populista identifica i propri progetti con la volontà del popolo e poi, se ci riesce (e sovente ci riesce) trasforma in quel popolo che lui ha inventato una buona porzione di cittadini, affascinati da una immagine virtuale in cui finiscono per identificarsi”. È un’analisi lucida ed estremamente attuale, perché l’identificazione odierna, facilitata anche da Internet e dai social, sta portando il cittadino a riconoscersi in battaglie che crede proprie, ma che vanno a suo svantaggio. L’impoverimento del Parlamento e della sua rappresentanza non è un colpo inferto alla politica, ma a se stesso. La politica non è, o non dovrebbe essere, un corpo estraneo da contrapporre alle esigenze dei cittadini, ma il tramite – attraverso la rappresentanza, appunto – tra chi ha un problema e chi dovrebbe risolverlo. In questi due giorni di votazioni il cittadino ha punito se stesso, ha assottigliato quel collegamento con le istituzioni perché i politici populisti gli hanno detto che è giusto così, che meno rappresentanti vuol dire meno ladri, quando invece la qualità e la quantità viaggiano su due orbite diverse. I demagoghi del Novecento hanno agito esattamente allo stesso modo, riducendo la rappresentanza e prosciugando il Parlamento. Il taglio dei parlamentari più noto del secolo scorso l’ha messo in atto Mussolini, e l’ha fatto seguendo gli stessi metodi: ha convinto il popolo che fosse meglio così, per una questione di risparmio e di inutile sovrabbondanza. Era uno dei due modi del Duce per ridurre i deputati. L’altro, come insegna il caso Matteotti, era ucciderli.
Oggi non abbiamo novelli assassini e, per fortuna, il nostro sistema parlamentare dovrebbe tenerci al sicuro da nuove dittature. Smantellare la Costituzione pezzo dopo pezzo però non è un buon segno. Sia chiaro, la Costituzione non è immutabile. Modificarla però senza alcuna riforma strutturale e basandosi su una subdola strategia demagogica, nonché sull’idea grillina dell’inutilità del Parlamento, è un atto vile. La vittoria del “Sì” non comporterà nessun vantaggio per il popolo, nessuna novità edificante, nessun risparmio, nessun metodo per rendere il Parlamento un ingranaggio più veloce. È solo una sottrazione del nostro potere di cittadini nella possibilità di scegliere da chi e come essere rappresentati. Eppure l’abbiamo scelto noi. C’è stato un referendum regolare, nessuno può lamentarsi. D’altronde il populismo è una malattia della democrazia, un modo per indirizzare la popolazione senza uscire dai ranghi della democrazia stessa: questo referendum ne è la conferma più esplicativa.