La Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile il referendum sull’eutanasia, denominato Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente). In una nota della Consulta viene spiegata la motivazione dell’inammissibilità del quesito referendario in quanto “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, che il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. Una decisione che così appare non soltanto figlia di una mentalità retrograda, ma che lascia fortemente perplessi perché proprio il quesito referendario metteva dei paletti a protezione delle persone “deboli e vulnerabili” citati dalla Consulta.
L’iter è iniziato nell’aprile del 2021, quando l’Associazione Luca Coscioni ha promosso e finanziato una raccolta firme per la proposta del Referendum Eutanasia Legale. Si è arrivati a più di un milione e duecentomila firme, depositate regolarmente in Corte di Cassazione. L’intento era di modificare l’Articolo 579 del codice penale sull’omicidio del consenziente, mantenendo però le pene “se il fatto è commesso contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”. Su questi punti ci si sarebbe quindi riallacciati alle forme già previste dalla legge 219/2017 sul fine vita e tutte le condotte esterne a essa avrebbero comunque comportato il reato di omicidio doloso. Quindi tutti i prolife e i politici conservatori che in queste ore stanno festeggiando tirando in ballo notizie fuorvianti, dovrebbero avere almeno la decenza di ripassarsi le leggi.
Il primo a gioire per la decisione della Consulta è stato il solito Simone Pillon. Il politico leghista ha da sempre avuto una visione distorta del quesito referendario, considerando che è arrivato a dichiarare: “Si comincia con l’eutanasia, si finisce col suicidio assistito per i bambini”. Che è un po’ la filastrocca del “da una canna all’eroina il passo è breve”. Se non fosse un senatore della Repubblica verrebbe da ignorarlo, ma considerata la carica non si può non segnalare come queste siano dichiarazioni completamente avulse dall’oggetto della discussione intavolata. Qualche mese fa aveva anche rilanciato una notizia inverosimile dicendo che un poliziotto di Padova, che a luglio era riuscito a evitare un tentativo di suicidio, “con la legge sull’eutanasia [si sarebbe potuto trovare] sotto processo per violenza privata”. Ovviamente non c’era nessun nesso con il referendum e il poliziotto non avrebbe rischiato nulla; ma, si sa, agli oscurantisti piace creare il clima da caccia alle streghe paventando pericoli inesistenti.
Un altro alfiere dei diritti negati, Mario Adinolfi, ha definito questa battuta d’arresto una “grande vittoria dei prolife”, facendo poi un parallelismo azzardato con il Ddl Zan, dicendo: “Qualcuno vuole trasformare idiozie e violenze in leggi”. La vera violenza, però, è privare un individuo della libertà di vivere come meglio crede, che contempla anche la decisione di rinunciare a una vita che non si ritiene più valida di essere vissuta. Questa libertà, come già spiegato, avrebbe poi dei vincoli e delle norme da seguire, ma il messaggio che vogliono far passare certi personaggi è quello dell’eutanasia come svilimento della vita stessa e istigazione al suicidio, visione del tutto fuorviante.
La stessa Giorgia Meloni non si è fatta sfuggire l’occasione di strizzare l’occhio agli eterodiretti dalla CEI e a quella frangia di popolazione rimasta a dinamiche oscurantiste. Ha dichiarato infatti: “Era un quesito inaccettabile ed estremo che avrebbe scardinato il nostro ordinamento giuridico, da sempre orientato alla difesa della vita umana e alla tutela dei più fragili e deboli. C’è ancora spazio nel nostro ordinamento per difendere il valore della vita, come Fratelli d’Italia intende fare con il suo impegno”. In che modo Marco Cappato e i promotori di certe iniziative vadano contro “la difesa della vita umana”, non è dato sapersi. Anzi sono i primi a valorizzarla, condannando semmai l’accanimento contro quella che vita non è più e che calpestano la volontà di chi quell’esistenza la subisce.
Stefano Rodotà scriveva: “La cura non deve marcare una distanza, non deve far emergere una estraneità, ma consentire il raggiungimento di una possibile pienezza di vita”. Qualche passo importante è già stato compiuto, ma non basta. La legge del 2017 sul biotestamento, accolta dalla commozione in aula di Emma Bonino e Mina Welby, permette soltanto forme di eutanasia passiva, ovvero rende lecita l’interruzione delle cure per evitare l’accanimento terapeutico in determinate condizioni di salute del paziente. Non è un porre fine all’esistenza del soggetto, ma astenersi dall’intervenire. È invece vietata l’eutanasia attiva, sia diretta, quando un medico somministra un farmaco eutanasico alla persona richiedente; che indiretta, quando è il paziente stesso a preparare e ad assumere il farmaco. Manca dunque ancora un tassello per sancire l’assoluto diritto alla vita, ovvero il pragmatismo etico che conduce al diritto alla morte.
Umberto Veronesi anni fa diceva: “In passato c’era la paura di morire anzitempo. Oggi c’è quella di sopravvivere oltre il limite naturale della vita, in una condizione artificiale”. L’Italia sul tema del fine vita è molto indietro rispetto a diversi Paesi del mondo e anche della stessa Unione Europea. La sensazione è che ci sia sempre stata un’interferenza del Vaticano e delle organizzazioni ecclesiastiche a esso collegate. In pratica siamo condizionati da quello che è, a tutti gli effetti, uno Stato straniero. La settimana scorsa Papa Francesco è stato intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa, e a stupire sono state le sue critiche al clericalismo, con frasi che per il solo fatto di essere state pronunciate da una persona con il suo ruolo sono sembrate rivoluzionarie. Per rientrare nei ranghi, però, pochi giorni dopo l’intervista e in prossimità della decisione della Consulta, il Papa ha dichiarato – trascurando le accurate riflessioni di molti filosofi dal passato a oggi – che non esiste un diritto alla morte. Poi, forse perché non riusciva a trattenersi, ha aggiunto: “Dopo aver fatto tutto quanto è umanamente possibile per curare la persona malata, risulta immorale l’accanimento terapeutico”, il che sembra una contraddizione in termini.
L’anomalia però non risiede in uno Stato, il Vaticano, che avendone la possibilità promuove le sue idee. Nessuno si aspetta che da San Pietro vengano inviati aerei carichi di preservativi da far piovere sui Paesi più poveri e nemmeno che le eminenze della Chiesa assumano posizioni apparentemente distanti dal loro credo. Il problema sorge quando uno Stato laico, in teoria l’Italia, si fa condizionare da questa vicinanza (territoriale e culturale) che diventa un timore reverenziale. Ogni partito ha la sua Paola Binetti che festeggia esclamando “Sulla vita non si vota”. Certo, nel centrodestra sono molti di più questi esponenti, ma tutto appare come un gioco di ruolo. Binetti, prima di passare all’Udc, infatti, è stata per anni nel PD, creando la corrente dei teodem. E, si sa, in politica bisogna accontentare un po’ tutti, altrimenti salta il banco.
La scelta della Corte Costituzionale rappresenta quindi l’ennesima occasione persa per raggiungere diritti che ancora mancano nel nostro Paese. Non è stato ascoltato un chiaro messaggio della popolazione, il numero massiccio di firme raccolte non è parso sufficiente, e adesso bisogna affidarsi a eventuali decisioni prese dal Parlamento. Conoscendo la storia della nostra nazione, i parlamentari che occupano le poltrone e il periodo che stiamo attraversando – che offre la scusa migliore per insabbiare la vicenda e “concentrarsi su altre priorità” –, il timore è che assisteremo a uno slittamento che è anche sinonimo della paura di assumersi fondamentali responsabilità e abbracciare un cambiamento nel Paese dove tutto resta immobile.