In Europa, sono pochi i Paesi in cui esistono restrizioni sull’aborto. Oltre alla Polonia, che ha vietato le interruzioni di gravidanza a seguito di una controversa sentenza della Corte Costituzionale dello scorso ottobre, l’aborto illegale a Malta, Cipro (tranne che in caso di pericolo di vita della donna o di stupro), in Lichtenstein, Andorra e nella vicina San Marino. Nella piccola repubblica, infatti, l’aborto è punito con la reclusione per la donna che abortisce e per chiunque la aiuti, senza eccezioni, secondo un codice penale che è rimasto quasi immutato dal 1865. Il 26 settembre, però, le cose potrebbero cambiare: l’Unione Donne Sanmarinesi ha raccolto le firme necessarie per indire un referendum propositivo e spingere il legislatore a cambiare una norma ormai non più al passo coi tempi.
Sono due gli articoli del codice penale che regolano l’aborto a San Marino. Il 153 punisce con la prigionia di secondo grado – cioè la reclusione da sei mesi a tre anni – sia la donna incinta che abortisce sia chi le procura l’aborto. Per il medico è prevista anche l’interdizione dalla professione sanitaria. L’articolo 154 riguarda invece l’“aborto per motivo d’onore” e prevede pene più lievi – da tre mesi a un anno – se ad abortire è una donna non sposata. Alla situazione attuale, quindi, una donna che vuole interrompere la gravidanza è costretta a spostarsi in Emilia-Romagna, anche se i dati disponibili non permettono di sapere con precisione quante siano le persone coinvolte in questo fenomeno.
Oltre alle spese di viaggio – servono almeno tre spostamenti, necessari per ottenere il certificato medico, per l’operazione e per la successiva visita di controllo – le sanmarinesi, non disponendo della tessera sanitaria italiana, devono poi pagare la procedura. Secondo quanto riferito al Fatto Quotidiano da Karen Pruccoli, presidente dell’Uds, un aborto viene così a costare fino a millecinquecento euro. Le attiviste denunciano come questa cifra spinga le donne che non possono permetterselo a ricorrere all’aborto clandestino, in cerca di strutture che propongono prezzi più bassi. La legge di San Marino non prevede eccezioni al divieto di interruzione di gravidanza, anche se si ha notizia di un paio di aborti terapeutici eseguiti negli anni Ottanta attraverso l’autorizzazione preventiva di un giudice.
Non è di certo la prima volta nella storia sanmarinese che si tenta di depenalizzare l’aborto. Il primo tentativo risale al 2003, quando la Consigliera Vanessa Muratori presenta il progetto di legge “Norme in materia di procreazione cosciente e responsabile” per la depenalizzazione e regolamentazione dell’aborto, che viene bocciato due anni dopo dalla Commissione Sanità. Nel 2014, poi, un privato cittadino, Lazzaro Rossini, presenta un’istanza d’Arengo (una richiesta di pubblico interesse da avanzare al Consiglio Grande e Generale, il Parlamento del Paese); sempre nello stesso anno, segue anche una proposta di legge di iniziativa popolare, che rimane però bloccata in prima lettura. Nel 2017, infine, tre delle cinque istanze di Arengo presentate da Vanessa Muratori, vengono accettate per depenalizzare l’aborto in caso di gravi rischi per la salute della donna, in caso di donne vittime di violenza sessuale e di gravi malformazioni del feto. Tuttavia, il codice penale non viene modificato.
Nel 2019 la proposta di legge viene presentata nuovamente, ma negli stessi giorni ne arriva anche una di senso opposto, intitolata “Sostegno alla genitorialità e ai figli nascituri”, in cui l’aborto in caso di grave pericolo di vita della donna viene concesso solo a fronte del giudizio positivo di un’equipe medica. Questa legge ricalca molte proposte di leggi regionali italiane “a favore della vita”, prevedendo bonus economici per i nascituri e favorendo le “associazioni di volontariato che sostengono la vita nascente, consentendo la possibilità di una presenza all’interno dell’I.S.S” (l’Istituto per la Sicurezza Sociale, l’ente previdenziale di San Marino). Gli attivisti anti-choice sono infatti molto presenti all’interno del Paese. Il 9 agosto, ancora nel pieno della campagna referendaria, sette segreterie di Stato – i ministeri del Paese – hanno patrocinato l’evento “La vita… una Festa”, organizzato dal comitato antiabortista Uno di noi nato proprio in opposizione al referendum, durante il quale sarebbero stati distribuiti opuscoli contro l’interruzione di gravidanza. Secondo le attiviste dell’Uds, alcuni ministri avrebbero addirittura chiesto al governo di finanziare l’evento, delibera che è poi stata respinta.
È stata proprio l’Unione Donne Sanmarinesi a raccogliere le firme necessarie a svolgere il referendum, pari al 3% degli elettori del Paese. Il quesito chiede che alla donna sia consentito di interrompere volontariamente la gravidanza entro la dodicesima settimana di gestazione e anche successivamente, se vi sia pericolo per la vita o anomalie e malformazioni del feto che comportino grave rischio per la salute fisica o psicologica. Si tratta di un referendum propositivo, che ha lo scopo di indirizzare il legislatore a intervenire su un tema particolarmente sentito dalla cittadinanza e, con questa mossa, l’Uds spera di replicare il successo dell’Irlanda, che nel 2018 ha legalizzato l’aborto con un partecipatissimo referendum. Proprio per la natura di indirizzo del referendum, il quesito lascia da parte questioni particolari come l’Ivg per le minorenni o l’obiezione di coscienza e si concentra sull’autodeterminazione della donna e sulla possibilità di interrompere la gravidanza per ragioni terapeutiche.
Il gruppo consiliare di R.E.T.E., il partito progressista di San Marino, il 6 giugno scorso ha depositato il progetto di legge pronto a recepire il quesito del referendum. Oltre all’interruzione di gravidanza fino alla dodicesima settimana, la legge prevede anche un ampio spettro di iniziative a tutela della salute sessuale e riproduttiva, come l’uso dell’epidurale durante il parto, il riconoscimento dell’endometriosi come patologia invalidante, iniziative di salute sessuale per le persone disabili, l’introduzione del reato di violenza ostetrica e la liberalizzazione della vendita della pillola del giorno dopo. Se questa legge venisse approvata, San Marino potrebbe trasformarsi da uno dei Paesi più restrittivi in Europa a uno dei più all’avanguardia.
Oltre che a depenalizzare l’aborto e ad adeguare le politiche sanmarinesi allo standard italiano ed europeo, una vittoria del referendum avrebbe anche una forte ripercussione culturale in un Paese che ha fatto molta fatica a riconoscere i diritti delle donne. Per le sanmarinesi, ad esempio, il diritto di voto attivo è stato riconosciuto soltanto nel 1958 ed esercitato per la prima volta nelle elezioni politiche del 13 settembre del 1964, grazie al lavoro svolto dal Comitato per l’emancipazione della donna sammarinese, fondato dalla femminista democristiana Myriam Michelotti nel 1954. Il diritto di voto passivo, cioè la possibilità di essere elette a cariche pubbliche, è stato conquistato nel 1973. Fino al 1984, inoltre, la donna che contraeva matrimonio con un uomo straniero perdeva d’ufficio la cittadinanza sanmarinese, cosa che non avveniva in caso fosse un uomo a sposare una straniera.
Il successo della raccolta firme del referendum, a cui hanno partecipato 3028 cittadini sanmarinesi – tre volte più del necessario – è un segnale incoraggiante che sembra suggerire che questo piccolo Paese è pronto al cambiamento. Le donne sanmarinesi sono stanche di vivere nell’ombra e continuare a fare finta che l’aborto non sia un tema da affrontare le relega in un’ulteriore condizione di invisibilità. “Non sappiamo niente: non abbiamo dati su quante persone abortiscono, sul perché lo fanno o sul perché sono rimaste incinte, se c’è una percentuale di malformazioni. E dunque non si possono programmare politiche. Ci sono solo statistiche sugli aborti spontanei, il resto del problema non esiste. Siccome nessuno ne parla, allora nessuno abortisce a San Marino”, ha affermato la responsabile del centro di salute di Serravalle Francesca Nicolini in un’intervista. Come dimostra la storia, e come più volte riaffermato anche dalle massime autorità in materia di salute, il divieto d’aborto non equivale a zero aborti, ma solo a maggiori pericoli per le donne e la salute pubblica.