La crisi economica che con molta probabilità seguirà la pandemia del COVID-19 sarà diversa da tutte le altre, così come dovranno esserlo le misure studiate per affrontarla. Già in questi giorni assistiamo sulla stampa e nei parlamenti di mezzo mondo a un dibattito su uno strumento a lungo al centro dell’attenzione di diversi accademici, giornalisti e politologi: il reddito universale di base. Noto come Universal Basic Income (Ubi), si tratta di un pagamento universale e incondizionato da parte dello Stato ai suoi cittadini e, secondo alcuni teorici, anche a tutti coloro che risiedono nei suoi confini. Trattandosi di un progetto in divenire, vanno ancora determinati parametri cruciali come il metodo di finanziamento, il quantitativo del pagamento, la sua frequenza e cosa esattamente si intende per “universale”.
Questa ambiguità è allo stesso tempo la forza e la debolezza della proposta politica dell’Ubi. Da una parte è capace di attirare il sostegno di un ampio arco di forze politiche; non è un caso se a favore di questo programma si sono schierati pensatori da Bertrand Russell a Milton Friedman, da Martin Luther King a Michael Hardt e Toni Negri. L’Ubi è diventato allo stesso tempo un sogno libertario capace di sostituire il welfare state e un ideale di giustizia sociale ed emancipazione. Però, se una platea così nutrita di sostenitori è importante per diffonderne l’idea, rischia di indebolirla durante l’atto pratico di stabilirne i metodi e le procedure per farlo funzionare.
Anche per questo esistono ancora pochi esempi di applicazione a livello nazionale dell’Ubi, a parte due casi di breve durata in Iran e Mongolia (uno e due anni rispettivamente). Questo non ha fatto altro che aumentare l’ambiguità che circonda l’argomento, permettendo ai suoi detrattori di metterne in dubbio l’efficacia e sostenibilità in termini economici e sociali. Così come viene criticato il costo di un programma del genere, sicuramente senza precedenti nella storia dell’assistenza sociale, si ipotizzano anche scenari di destabilizzazione sociale e anarchia. Molti si chiedono che cosa succederebbe se la maggior parte delle persone non fosse più costretta a lavorare per sopravvivere.
L’opposizione a un intervento di questa portata ha così relegato a lungo i suoi sostenitori ai confini del dibattito politico, senza per questo evitare che le loro argomentazioni si imponessero all’attenzione dell’opinione pubblica: nel 2016 in Svizzera è stato oggetto di un referendum bocciato dal 77% della popolazione. Più di recente, il candidato alle primarie democratiche per le elezioni presidenziali statunitensi del 2020 Andrew Yang ha corso con un programma la cui promessa centrale era il pagamento di mille dollari al mese a ogni cittadino. Con il probabile rallentamento dell’economia globale e la ricerca di formule per salvare aziende e posti di lavoro, già provate dai processi di automazione e digitalizzazione del lavoro, sta crescendo l’attenzione sull’Ubi.
Oggi è sempre più spesso il fulcro di appelli e proposte, considerato come lo strumento più adatto a rispondere alla crisi che ci attende dopo quella sanitaria. L’amministrazione Trump si prepara a stanziare un pagamento di mille dollari per ogni adulto e 500 per ogni minorenne statunitense per affrontare la fase acuta dell’emergenza. Il Financial Times descrive l’Ubi come una risposta “praticabile e finanziariamente sostenibile” alla crisi. Intanto, più di 500 accademici e politici hanno firmato un appello internazionale rivolto ai governi di tutto il mondo perché diano il via a uno stanziamento per il reddito universale nei loro Paesi.
Il problema è che la debolezza semantica che contraddistingue il dibattito sul tema sta nascondendo un fatto che merita di essere sottolineato: nessuna delle proposte attuali prende in considerazione un vero e proprio reddito universale di base. L’unica caratteristica condivisa da quelle avanzate in questi giorni è che l’impronta emergenziale ne circoscrive la durata a un tempo limitato. Non è un caso che nei Paesi anglosassoni si parli già di emergency Ubi, tradotto in Italia con il concetto di reddito di quarantena. Questa distinzione è cruciale. Il carattere emancipatorio del reddito universale di base si fonda sulla garanzia data a ognuno di ricevere un pagamento nel futuro, che sia il mese prossimo o a un anno di distanza. È solo in virtù di questo principio che i sostenitori dell’Ubi lo considerano uno strumento capace di sollevare persone dalla condizione di povertà, di offrirgli la libertà di usare il proprio tempo a piacimento e di liberarle dall’aspetto coercitivo del lavoro salariato, trasformando in modo radicale il rapporto tra capitale e lavoro. Anche per questo diversi movimenti per l’autodeterminazione femminile e contro le violenze di genere hanno individuato nel reddito universale di base (chiamato in alcune circostanze reddito di autodeterminazione) uno strumento di emancipazione e di retribuzione per il lavoro di cura non retribuito, che nelle nostre società è ancora svolto in grossa parte proprio dalle donne.
È evidente che un reddito temporaneo, a maggior ragione in un momento di profonda incertezza economica, non possa realizzare nessuna di queste aspettative. Nessuno vuole sminuire la validità delle proposte odierne, ma non bisogna confonderne obiettivi e aspettative. Detto questo, il loro carattere temporaneo è anche ciò che le rende accettabili per una classe politica per la quale “regalare soldi” a chi non se li è necessariamente meritati è contrario alla propria ideologia, nonché economicamente impraticabile. Allo stesso tempo, ciò che rende l’Ubi un’alternativa valida sono proprio i principi di universalità e incondizionalità, fondamentali in un momento in cui bisogna dare priorità alla tempestività del supporto.
Le manovre come quella del decreto Cura Italia, che frammenta la popolazione in categorie con diritti diversi rispetto alla possibilità di un supporto economico da parte dello Stato, corrono il rischio di escludere interi gruppi sociali, necessitano di una vasta burocrazia in grado di determinare a chi spetta cosa e sono per questo lente nella loro attuazione. Un reddito universale di emergenza, o reddito di quarantena, parte invece dal presupposto che il carattere universale dell’attuale crisi economica necessita di una risposta universale, che non si limiti a proteggere determinate categorie di persone ma che prenda in considerazione la popolazione intera. Avendo a disposizione un sistema già in vigore come quello del Reddito di Cittadinanza (RdC), non rimarrebbe che estendere la sua portata con l’aiuto della liquidità messa a disposizione dalla Banca centrale europea. Una proposta simile arriva anche dal Forum Disuguaglianze Diversità, che pur usando diverse categorie si propone di espandere la portata del RdC a tutti i cittadini, tranne i dodici milioni già tutelati dalla Cassa Integrazione e altri strumenti già esistenti.
Anche con un limite sulla sua durata, la proposta non sarà facilmente accettata e tantomeno attuata. Una rappresentanza sindacale debole per le masse di precari e partite Iva (per il Forum si tratterebbe di sei milioni di persone solo in Italia) fa sì che queste fasce di lavoratori non abbiano un ruolo nei processi decisionali. Nonostante il potenziale ritorno politico che una manovra del genere porterebbe a chi la mette in atto, una certa opposizione ideologica tra le fila del governo ostacola qualsiasi discussione in questa direzione. Il risultato è che milioni di italiani sono costretti a vivere questo momento nell’incertezza del futuro, senza sapere se potranno permettersi l’affitto o i beni di prima necessità nei prossimi mesi. L’Ocse sostiene che il 27% dei cittadini italiani finirebbe sotto la soglia di povertà se rimanesse senza stipendio per più di tre mesi. Che sia grazie al Reddito universale di cittadinanza o con una forma temporanea simile, senza una misura che copra le esigenze di tutti questa crisi rischia di prolungarsi, ben oltre la fine della pandemia, mettendo a repentaglio le fondamenta stesse della nostra società.