Smettetela di usare Martin Luther King per giustificare il vostro razzismo

Martin Luther King III, commentando le proteste negli Stati Uniti, ha scritto su Twitter una citazione del padre, “La rivolta è il linguaggio degli inascoltati”. Deve aver toccato un nervo scoperto, perché MLK in questi giorni è stato sfoderato come un santino da tutti quei bianchi che, senza spingersi a citare un segregazionista che chiedeva di sguinzagliare i cani della polizia contro i neri come ha fatto Trump, non possono tollerare di vedere vetrine spaccate e lanci di mattoni da gente che subisce la loro oppressione dal 1619. Un esercito di Karen infatti ha subito ritenuto di spiegare a King III – figlio di quel King – che in realtà il padre avrebbe assolutamente condannato la violenza nelle strade e di illustrare nei minimi dettagli al figlio di uno dei più importanti  attivisti neri al mondo come e quando protestare pacificamente.

C’è una strana convinzione, quando si parla di Martin Luther King e in generale di nonviolenza, che il movimento per i diritti civili sia stato sempre pacifico, e in un certo senso benvoluto. “Lui ha cambiato il mondo senza usare la violenza”, è il mantra di tanti bianchi indignati di questi giorni, che non hanno mancato di citare altri neri “perbene” come Mandela o Rosa Parks. Però ci si dimentica che da quegli stessi bianchi King riceveva 40 minacce di morte al giorno e che da loro fu ucciso. La black liberation, violenta o no, non fu mai tollerata dal potere costituito, né nella forma pacifista incarnata da Martin Luther King, né in quella guerrigliera e rivoluzionaria di Malcolm X o delle Pantere nere. D’altronde, quelli che oggi si scandalizzano per le proteste violente seguite alla morte di George Floyd, con ogni probabilità sono gli stessi che ieri accusavano il giocatore di football Colin Kaepernick di essere un ingrato per essere rimasto in ginocchio durante l’inno americano. Insomma: la protesta razziale è accettata solo come un fatto storico lontano, di cui si preferisce ricordare solo gli aspetti meno controversi, ma di cui in realtà qualsiasi forma è inaccettabile per lo sguardo bianco.

Anche il tema della nonviolenza è spesso riadattato per risultare più digeribile ai nostri gusti e alle nostre aspettative e infatti in questi giorni questa forma di lotta è stata citata per invitare le persone a protestare pacificamente, o meglio, per dividere idealmente i manifestanti in buoni e cattivi. La pratica politica della nonviolenza è stata teorizzata in modo sistematico da Gandhi negli anni Venti come satyagraha (insistenza per la verità) nel contesto dell’indipendenza dell’India, anche se ci sono dei precedenti. In occidente i primi a parlarne furono David Thoreau con il concetto di disobbedienza civile elaborato da nel 1848, secondo cui è moralmente giusto disobbedire a una legge che si ritiene ingiusta, e lo scrittore russo Lev Tolstoj con i suoi scritti sulla violenza. Oltre a Gandhi, l’altro grande esponente della nonviolenza è stato proprio Martin Luther King che, oltre a studiare i testi di Thoreau e del rivoluzionario indiano, era anche un pastore protestante nonché un sostenitore del Personalismo, una corrente filosofica che si basa sull’idea che la persona debba sviluppare appieno le sue capacità morali. La teoria della nonviolenza di King è però debitrice soprattutto del principio cristiano del “porgere l’altra guancia” e del “perdonare fino a settanta volte sette”: ha quindi una componente attiva e performativa.

Nonviolenza non significa infatti subire acriticamente ogni sopruso nell’attesa che le cose migliorino, come si augura chi critica i manifestanti negli Stati Uniti o li invita a dialogare con le istituzioni. Possiamo distinguere due tipi di protesta non violenta: quella passiva, che implica subire la violenza senza reagire, e la resistenza attiva. Il primo tipo di nonviolenza è stato descritto in modo approfondito da Tolstoj che, su ispirazione dell’anarcopacifismo, sosteneva che “Cercare di combattere la violenza con la violenza, è volere spegnere il fuoco col fuoco”. Secondo Tolstoj, se si vuole combattere la violenza dei governi ci si deve semplicemente rifiutare di prendere parte a quella violenza, secondo un principio molto vicino alla disobbedienza civile di Thoreau. Un esempio di questo tipo di nonviolenza è l’obiezione di coscienza, autorizzata nel nostro Paese soltanto nel 1972, per la quale ci si sottraeva alla violenza sistemica del servizio militare. Al contrario, l’attiva resistenza non violenta a cui si rifà Martin Luther King prevede delle azioni che possono essere persuasive – cioè atte a convincere l’avversario che l’uso della violenza è sbagliato – o coercitive, cioè che vogliono spingerlo a rinunciare alla violenza senza che cambi necessariamente idea sull’argomento. La nonviolenza coercitiva prevede quindi azioni come il boicottaggio, l’embargo, lo sciopero, il sabotaggio: tutte iniziative che prevedono quindi un’opposizione, anche molto forte e dagli effetti molto gravi, alle autorità e allo status quo. Nessuna di queste forme, nemmeno quella passiva, prevede che la persona che le mette in pratica aspetti pedissequamente che le cose cambino da sole.

Mahatma Gandhi

La nonviolenza di King, in particolare, ha una forte componente di tensione, che all’epoca le frange più pacifiste del movimento dei diritti civili gli contestarono duramente: “L’azione diretta nonviolenta cerca di creare una crisi e di stabilire una tensione creativa tale che una comunità che si è sempre rifiutata di negoziare è costretta a confrontarsi con il problema”, scrisse King in una lettera dal carcere di Birmingham, in Alabama, dove era stato imprigionato per aver partecipato a una protesta. “Devo confessare che la parola tensione non mi fa paura. Mi sono impegnato onestamente e ho predicato contro la tensione violenta, ma c’è un tipo di tensione costruttiva che è necessaria alla crescita”. È significativo il fatto che questa lettera sia arrivata in risposta a una dichiarazione di otto rappresentanti di varie comunità religiose dell’Alabama intitolata A Call for Unity, in cui si parlava dell’importanza di risolvere il problema razziale nell’assoluto rispetto della legge. Le argomentazioni degli otto autori ricordano molto le parole dei moderati che oggi dicono di capire le proteste, ma di non condividerle: “Riconosciamo la normale impazienza di coloro che sentono che le loro speranze si stanno concretizzando troppo lentamente, ma restiamo convinti che queste dimostrazioni siano imprudenti e inopportune. […] Quando i diritti vengono costantemente negati, bisognerebbe iniziare una causa in tribunale e negoziare con i leader locali, non scendere in strada. Chiediamo ai nostri cittadini, sia bianchi che neri, di osservare i principi della legge, dell’ordine e del buonsenso”.

La risposta di King è essenziale proprio perché mette in risalto l’importanza di creare un’opposizione attiva che si realizza anche attraverso la creazione di uno stato di crisi, che è necessario per portare il cambiamento. Come scrisse nel 1957 sulla rivista Christian Century parlando del boicottaggio degli autobus a Montgomery a seguito del rifiuto di Rosa Parks di cedere il posto a un bianco, “questo metodo è passivo dal punto di vista fisico ma fortemente attivo dal punto di vista spirituale; è fisicamente non aggressivo ma spiritualmente e dinamicamente aggressivo”. La nonviolenza, quindi, non elimina la componente oppositiva dalla lotta che, senza di essa, non avrebbe senso di esistere.

Quando noi bianchi invochiamo “proteste pacifiche”, quando spieghiamo ai neri come e quando lottare, quando stabiliamo un limite di tolleranza rispetto a quanto in là può spingersi una manifestazione, stiamo tentando di soffocare proprio quell’aggressività dinamica di cui parlava King, sia che si realizzi in modo violento che non violento. La verità è che fatichiamo ad accettare che le persone nere protestino con modalità e strategie che non possiamo controllare, che abbiano creato un movimento con le loro regole a cui noi non spetta il diritto di sindacare. Se fossimo veramente sinceri rispetto alla legittimità di una lotta nonviolenta, non ci scandalizzeremmo per le statue degli schiavisti vandalizzate e abbattute, non cercheremmo giustificazioni per le reazioni della polizia, non permetteremmo che un senatore repubblicano possa scrivere un editoriale sul New York Times per invocare l’esercito contro i manifestanti, dicendo che “le élite scusano quest’orgia di violenza con uno spirito radical chic” e che “la maggioranza di coloro che protestano pacificamente non va confusa con questa banda di miscredenti”.

Martin Luther King ha stabilito un paradigma di nonviolenza, che non significa consegnare ai bianchi il potere di decidere il destino di una lotta. E pur avendo sempre portato avanti la sua opposizione necessaria senza mai usare la violenza né contro le persone né contro la proprietà privata, nemmeno questa forma è andata bene alla sensibilità comune: abbiamo messo a tacere anche lui.

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