Il 2 aprile, durante la partita Juventus-Cagliari, il calciatore juventino Moise Kean è stato insultato con ululati razzisti dai tifosi della squadra avversaria, a seguito di un suo goal. Kean ha poi reagito rivolgendosi ai tifosi del Cagliari a braccia aperte e ha pubblicato una foto su Instagram, scrivendo che mostrarsi pacifico e senza rancore è la migliore risposta al razzismo.
Poche ore dopo, si sono susseguiti gli articoli sull’accaduto, che hanno riportato le opinioni delle personalità del calcio italiano. Se da un lato Roberto Mancini, commissario tecnico della nazionale italiana, ha detto che è necessario prendere provvedimenti seri per condannare i cori razzisti, dall’altro c’è chi ha tacciato Kean di vittimismo. Il presidente del Cagliari, Tommaso Giulini, ha parlato di eccessiva strumentalizzazione e moralismo, sostenendo che la reazione provocatoria di Kean è un errore perché “Se avesse segnato Bernardeschi sarebbe successa la stessa cosa”. Non si spiega però perché gli stessi ululati siano stati rivolti solamente a Moise Kean, Alex Sandro e Blaise Matuidi, tra i primi a notare che gli insulti venivano indirizzati a Kean e a Sandro non appena toccavano palla, anche prima del goal, con versi che imitavano quelli di una scimmia.
Blaise Matuidi ha già avuto a che fare con gli insulti razzisti dei tifosi del Cagliari nel gennaio dell’anno scorso. In quell’occasione la dirigenza della squadra sarda aveva preso le distanze dal gesto, scusandosi per il comportamento della tifoseria. In un anno non si sono fatti molti progressi contro il razzismo negli stadi, come dimostrano altri esempi: si pensi al caso del difensore del Napoli Kalidou Koulibaly, che durante una partita contro l’Inter ha applaudito i tifosi della squadra avversaria, dopo essere stato ammonito e aver subito insulti razzisti per l’intera durata del match. Il gesto gli è costato l’espulsione dal campo, nonostante l’allenatore del Napoli, Carlo Ancelotti, avesse chiesto ben tre volte la sospensione della partita.
Spesso le vittime di questi attacchi che decidono di rispondere alle provocazioni, anche in modo non aggressivo, finiscono per essere trattate come i colpevoli della situazione. C’è chi, pur non essendo mai stato oggetto di razzismo si arroga il diritto di spiegare cosa sia razzista e cosa no e come si dovrebbe reagire alle provocazioni; c’è chi definisce il comportamento di chi risponde agli insulti come “vittimista” e chi, come lo juventino Leonardo Bonucci, è arrivato a dire che la colpa andava divisa a metà tra Kean e i tifosi del Cagliari (salvo poi rettificare e scusarsi per la dichiarazione superficiale). Un’uscita fuori luogo dato che non è colpa di Kean se tra i tifosi del Cagliari ci sono persone razziste.
Sembra quasi che nel mondo dello sport italiano si possa essere riconosciuti come campioni o astri nascenti a patto che si stia comunque al proprio posto. Non si è neri finché si sta zitti e si segnano punti per la propria squadra. Ma non appena si reagisce alle provocazioni sulla propria etnia, non solo si è bollati come colpevoli, ma anche descritti con lo stereotipo dell’angry black person, persona nera di cui si enfatizza senza ragione l’innata aggressività o l’eccessiva rabbia.
Dopo la partita del 2 aprile, e i dibattiti su cosa sia o meno razzista, Kean è di nuovo sceso in campo contro il Milan il 6 aprile, segnando il goal della vittoria. Da “vittimista” il giocatore è tornato a essere un “campione italiano” e un “orgoglio italiano” nei commenti delle testate giornalistiche. Però in alcuni casi, per far dimenticare il colore della propria pelle ai tifosi, non basta neanche portare la propria squadra alla vittoria. Anche quando si ha del talento e si fa parte della rosa della nazionale, non si è esenti dall’essere considerati “non italiani”.
È il caso delle reazioni negative alla copertina di Rolling Stone con le componenti della staffetta della nazionale di atletica Ayomide Folorunso, Maria Benedicta Chigbolu, Raphaela Lukudo e Libania Grenot. Diversi utenti si sono scatenati nella pagina Facebook della testata giornalistica, con commentiche passano dagli insulti veri e propri sul fatto che non sono veramente italiane alle battute sul presunto razzismo di Rolling Stone nei confronti di atlete bianche, anche se in realtà è stata dedicata loro la copertina perché sono il team che lo scorso anno ha portato l’Italia alla vittoria nei Giochi del Mediterraneo a Tarragona.
Altro caso emblematico è quello di Paola Egonu, una delle più talentuose schiacciatrici della nazionale italiana di pallavolo che ha portato l’Italia in finale contro la Serbia, durante i mondiali dello scorso anno. Ospite di una puntata di Che tempo che fa, Fabio Fazio l’ha definita un “esempio assoluto di integrazione”, nonostante sia nata e cresciuta in Veneto. Non si comprende però che cosa ci sarebbe da “integrare” se si è nati e cresciuti in Italia. L’infelice presentazione di Fazio non è nulla in confronto ai commenti nei confronti della pallavolista, sotto accusa perché troppo spesso sulle prime pagine dei quotidiani sportivi principalmente perché durante i mondiali di pallavolo segnava punti a ogni schiacciata. Non è la prima volta che si utilizza quest’accusa di “razzismo al contrario”, quando gli atleti neri italiani conquistano gli onori della cronaca.
Gli atleti della nazionale italiana di atletica leggera, con il patrocinio del Coni, hanno girato un video in cui leggono i commenti che ricevono di più sui social. Tra quelli ricorrenti ci sono: “La nazionale italiana sembra africana” e “Possono avere anche la cittadinanza, ma restano sempre africani”, a dimostrazione del fatto che non solo gli atleti italiani di diversa origine non vengono considerati tali, ma c’è anche la tendenza a stigmatizzarli in maniera negativa, soprattutto se neri, negando la loro italianità.
Non si riesce a capire quando gli sportivi delle squadre italiane, che siano di calcio, di atletica o di pallavolo, verrano considerati parte integrante della squadra – e del Paese. È come se questa sorta di patente di identità italiana venisse concessa o revocata a seconda dei momenti: se si viene considerati momentaneamente italiani, ma si risponde alle provocazioni xenofobe, si torna a essere dei “neri vittimisti”; se non si risponde agli insulti, ma si vince, non si è comunque mai italiani abbastanza e, se viene riconosciuto il proprio talento, è solo per merito della stampa italiana troppo politically correct.
In un’intervista, l’atleta Ayomide Folorunso ha affermato: “Spero che la gente capisca che non è importante il fatto che siamo tutte nere, ma solo che siamo delle brave atlete, capaci di ottenere successi internazionali per l’Italia”. Tale riconoscimento deve essere mantenuto sempre, non a seconda dei casi: è necessario comprendere che non ci si può sorprendere delle reazioni di questi sportivi se vengono presi di mira per il colore della loro pelle. È inutile parlare di color blindness, “il non vedere colori”, solo quando si ha a che fare con campioni o “astri nascenti” se poi, per denigrarli, si fa leva proprio sul fatto che sono neri, in maniera dispregiativa. La continua oscillazione tra ipocrisia e discriminazione non fa altro che sminuire il talento di questi professionisti e Folorunso ha centrato il punto: vanno riconosciuti sia come italiani che per il proprio talento sportivo e per ciò che fanno, non c’è altro da aggiungere.