Il 16 marzo, ad Atlanta (Georgia, Stati Uniti), Robert Aaron Long ha aperto il fuoco in alcuni centri benessere dove lavoravano principalmente persone di origine asiatica, uccidendo otto persone, tra cui sei donne asiatiche – Xiaojie Tan, Daoyou Feng, Soon Chung Park, Hyun Jung Grant, Suncha Kim, Yong Yue. Long è stato quindi arrestato per omicidio e durante l’interrogatorio ha confessato che dietro alle motivazioni dell’attacco ci sarebbe una dipendenza dal sesso, identificando quindi i centri benessere in cui ha fatto irruzione come tentazione. Con questa confessione, l’attacco di Long sembrerebbe allontanare qualsiasi sospetto inerente a un crimine d’odio. La reazione delle persone statunitensi di origine asiatica – soprattutto coreane, cinesi, giapponesi, thailandesi e filippine – non si è fatta attendere, organizzando proteste in tutti gli Stati Uniti per ribadire non solo che, al contrario, vi era una motivazione razzista, ma che quell’attacco è il culmine di una serie di attacchi di motivazione razziale aumentati specialmente nell’ultimo anno, in cui la persona asiatica, specie se di origine cinese, viene identificata come il Covid-19 personificato.
Nel mese di febbraio dello scorso anno, agli albori dell’emergenza sanitaria, i media – da quelli statunitensi a quelli italiani – e diverse personalità della sfera politica hanno denominato Chinese virus qualsiasi caso collegato a un contagio. Questo modus operandi ha fatto aumentare gli episodi di razzismo, con aggressioni verbali o fisiche nei confronti di persone di origine cinese. Negli Stati Uniti, l’ex presidente Donald Trump non ha mai smesso di definire il Covid-19 come China Virus o Wuhan Flu. Sull’American Public Health Association, è stato pubblicato uno studio relativo al collegamento tra il metodo comunicativo di Trump e le ripercussioni sulle persone cinesi. Nell’analisi sono stati presi come campione oltre un milione di tweet con gli hashtag #chinesevirus o #covid19, pubblicati tra il 9 e il 20 marzo 2020 a seguito di un tweet di Trump contenente la frase Chinese virus. Dalle analisi è stato rilevato che i tweet di stampo razzista si presentavano maggiormente con l’hashtag #chinesevirus (il 50.4% dei 777.852 tweet contenenti proprio quest’ultimo hashtag) sottolineando, inoltre, come fosse necessario un cambio di comunicazione riguardo alle notizie sul Covid-19, evitando di stigmatizzare i gruppi etnici.
Tuttavia studi e analisi sulla pericolosità nell’utilizzo di determinate frasi o parole non hanno fermato i continui attacchi nei confronti di persone asiatiche – né il metodo comunicativo razzista di cui si è continuato ad abusare. In un recente articolo della BBC si parla infatti di un continuo aumento di crimini nei confronti di persone asiatiche: nel febbraio 2021 un 84enne di origine thailandese è deceduto a San Francisco dopo essere stato aggredito e violentemente sbattuto a terra mentre passeggiava; nel luglio 2020 due aggressori, a Brooklyn, hanno schiaffeggiato una donna cinese di ottantanove anni per poi darle fuoco; diverse persone asiatiche negli Stati Uniti hanno denunciato nel corso degli ultimi mesi innumerevoli aggressioni verbali e hanno paura di tornare a casa sole. In un rapporto pubblicato dalle Nazioni Unite nell’agosto 2020 sono state denunciate non solo le violenze verbali e fisiche, ma anche quelle inerenti al rifiuto di garantire l’accesso ai servizi pubblici e privati, dal trasporto pubblico ai ristoranti o ai negozi. Viene riportato perfino un caso in cui a una persona asiatica residente in un palazzo è stato vietato di utilizzare l’ascensore, a differenza degli altri residenti bianchi.
Stop Asian Hate è quindi lo slogan che in questi giorni di protesta ha riempito le bacheche dei social media e i cartelli delle persone che sono scese per le strade di Washington, New York, Atlanta e altre grandi città statunitensi. In questo caso le vittime dell’attacco sono principalmente donne asiatiche, ma non bisogna pensare che questo sia un episodio isolato, dato che l’intreccio tra misoginia e razzismo è una costante per gran parte delle donne di etnia diversa. La feticizzazione e il razzismo nei confronti delle donne asiatiche ha origini storiche: si passa dall’essere sempre rappresentate come sottomesse e manipolabili nella sfera sessuale all’ipersessualizzazione e oggettificazione del loro corpo. Secondo il rapporto pubblicato da Stop AAPI (Asian Americans and Pacific Islanders) Hate, organizzazione senza scopo di lucro che si occupa di raccogliere e denunciare tutte le aggressioni nei confronti di persone asiatiche, il 68% delle 3800 aggressioni avvenute tra il 19 marzo 2020 e il 28 febbraio 2021 ha visto come protagoniste delle donne. Russell Jeung, professore di Studi Americani e Asiatici della San Francisco State University, ha affermato che vi è un’evidente legame nella discriminazione che riguarda l’essere donne e asiatiche, elementi che le rendono un target per gli attacchi misogino-razzisti.
La misoginia rientra infatti tra gli elementi che caratterizzano il suprematismo bianco, come è stato dimostrato dal rapporto pubblicato dall’Ong Anti-Defamation League. Nel documento vengono menzionati i gruppi della sfera MRA (Men’s Rights Activist), Incel (Involuntary Celibate) e Alt-Right. Nonostante patriarcato e sessismo siano problemi sistemici che non possono essere semplicemente identificati con lo schieramento politico, è stato evidenziato il modo in cui tali aspetti vengono ulteriormente amplificati, fino a diventare delle parole d’ordine e modo di vedere la donna, proprio in questi gruppi. I loro membri sono soprattutto uomini bianchi eterosessuali e suprematisti che vedono la donna come nemico e causa di tutti i loro mali, e a cui non bisogna concedere diritti poiché il loro ruolo è solo quello di procreare e seguire gli ordini del compagno.
L’auto-vittimizzazione è uno degli aspetti cruciali di questo ragionamento misogino ed è la stessa narrazione che perfino Jay Baker, capitano del dipartimento della polizia di Cherokee County (Georgia) che si occupa del caso Long, ha tentato di portare avanti, parlando dell’attentatore come di un giovane che ha avuto semplicemente una “brutta giornata”. La vittimizzazione dei terroristi suprematisti bianchi da parte della polizia non è nuova e lo si vede costantemente dalla differenza di trattamento delle persone con cui ha a che fare, in base all’etnia. Per esempio, a Dylann Roof, suprematista bianco e sostenitore del Ku Klux Klan che nel 2015 ha compiuto una strage uccidendo nove persone afroamericane in una chiesa di Charleston in South Carolina, la polizia ha offerto un hamburger subito dopo l’arresto, perché quest’ultimo aveva affermato di non aver mangiato. Lo scorso anno, Kyle Rittenhouse, un diciassettenne suprematista bianco dell’Illinois, ha raggiunto Kenosha, in Wisconsin, con un’arma semiautomatica e si è unito a un gruppo di vigilantes suprematisti che si occupavano di “aiutare la polizia” nel contrasto alle proteste per Jacob Blake – afroamericano portato alla paralisi per i colpi di pistola alla schiena sparati da un agente di polizia mentre entrava in macchina. Rittenhouse si è reso artefice di due omicidi, sparando contro i manifestanti per poi scappare verso i poliziotti che non hanno fatto nulla per fermarlo.
Diverso è il trattamento nei confronti di gran parte delle persone di altre etnie: donne afroamericane uccise in casa propria (Breonna Taylor, Atatiana Jefferson), bambini afroamericani uccisi perché giocavano con pistole giocattolo scambiate per vere (Tamir Rice, di soli dodici anni), adolescenti afroamericani uccisi perché sembravano delinquenti con il cappuccio (Trayvon Martin, di diciassette anni), uomini afroamericani soffocati durante un fermo di polizia (George Floyd) o uccisi mentre facevano jogging perché sospettati di essere dei rapinatori (Ahmaud Arbery, ucciso da due uomini, dei quali uno è ex ufficiale del dipartimento di polizia di Brunswick in Georgia). Tuttavia non bisogna neanche pensare che se si verificasse trattamento “equo” la situazione sarebbe da considerarsi risolta, dato che la polizia statunitense ha un problema endemico di infiltrazione da parte di gruppi razzisti, suprematisti ed estremisti di destra, come ha dimostrato Jennifer Carlson, professoressa di Sociologia dell’Università dell’Arizona che ha studiato il ruolo giocato dalla recente militarizzazione dei dipartimenti di polizia nella brutalità di molti suoi effettivi.
L’attentato di Robert Aaron Long non è altro che la massima espressione del suprematismo, della misoginia e, nel caso specifico, dell’odio razziale anti-asiatico che è stato ulteriormente alimentato a partire da febbraio dello scorso anno. Oltre a protestare e ribellarsi contro un sistema diseguale e ingiusto, bisogna essere consapevoli che il razzismo non coincide solo con questi episodi estremi, né con la sola azione dei gruppi neonazisti o neofascisti. Razzismo sistemico, misoginia e suprematismo bianco sono aspetti radicati in ogni aspetto della nostra società, e solo smantellandoli in ogni loro espressione potremo davvero liberarcene una volta per tutte.